mercoledì 16 dicembre 2015

Consigli per non rovinare il Natale ad un lettore


Una guida economica (o quasi) per restare incolumi dinnanzi la Grande Impresa di fine anno: non rovinare il natale ad un lettore. 
Sì, sto parlando con voi. Mendaci creature convinte che basti una spruzzata d'inchiostro e una rilegatura per far contento chi ama leggere. Non è così. Manifestiamo il nostro diritto di rimostranza. Allora, partecipate anche voi alla campagna: salva un lettore da un abominevole regalo natalizio. Per dire NO a Fabio Volo e Paolo Coehlo. Per la libertà d'indignazione, per il diritto di critica, perché è ora di ribellarsi, amici.



Ora, io sono una grande amante delle liste. Ne scrivo a milioni: sul pc, sui post-it, sulla mano, su foglietti volanti, sul tavolo. Ovunque. Placano la mia angoscia. Mi sento più soddisfatta nello scrivere le cose da fare che nel farle. Lo so, è follia. Benvenuti nella contemporaneità, in cui abbiamo accolto il nostro disturbo ossessivo compulsivo come una cosa bella (Instagram, amici) anziché aiutarci con le pillole. Non lamentatevi della Kondo, giapponesina rassetta tutto, in testa alle classifiche dei libri più venduti. è colpa nostra. Ad ogni modo, non potevo quindi esimermi dal fare una wishlist natalizia, che naturalmente è valida tutto l'anno (il 30 Gennaio è il mio compleanno, friendly reminder). A dire il vero ne ho fatte due. Una su aNobii e l'altra sul social che mi sta rovinando la vita: Pinterest. A cosa serve Pinterest se non a creare utopiche liste desideri che vadano a colmare il vuoto di noi figli del materialismo più becero? Ma so che anche voi bramate l'unicorno di Tiger, suvvia. 



Posto che consultare le wishlist dei vostri benamati, resta la soluzione migliore, passiamo ad elencare la vasta gamma di titoli (sì, i libri belli esistono ancora e sono pure tanti) che attendono solo di essere comprati e impacchettati da voi. 



Per chi non abbia la forza (né la volontà) di sorbirsi stoicamente ventisei minuti di video (a mia discolpa posso dire che prima del montaggio erano quaranta), a seguire l'elenco dei titoli citati (e relativi approfondimenti video o recensioni). 

Quando siete felici fateci caso - Kurt Vonnegut, min 01:58
Espiazione - Ian McEwan (qui la recensione), min 03:56
La breve favolosa vita di Oscar Wao - Junot Diaz (qui il video in cui ne parlo), min 04:45
Il signore degli orfani - Adam Johnson (qui la recensione), min 05:51
La porta - Magda Szabo, min 06:50
Pastorale Americana - Philip Roth, min 08:08 (dell'autore vi ho già parlato qui e qui e qui) 
Marcello Fois - Stirpe, Nel tempo di mezzo, Luce perfetta, min 09:27 (qui la recensione) 
L'amica geniale - Elena Ferrante, min 11:16 (ve ne ho parlato copiosamente qui)
La gigantesca barba malvagia - Stephen Collins, min 12:24
Dimentica il mio nome - Zerocalcare, min 13:53
I figli del capitano Grant - Alexis Nesme, min 15:02
Raccontare il mare - Bjorn Larsson, min 16:21
Leviatano - Philip Hoare, min 16:49
Abbiamo sempre vissuto nel castello - Shirley Jackson, min 17:08
Annientamento - Jeff Vandermeer, min 18:26 (già parlato della trilogia dell'area x qui, qui, qui e qui
A pesca nelle pozze più profonde - Paolo Cognetti, min 19:18 
Il mestiere di scrivere - Raymond Carver, min 20:05
La morte del padre - Karl Ove Knausgard, min 20:20 (ve ne ho parlato qui
Vari Bur classici, edizioni illustrate, min 21:25 
Harry Potter e la pietra filosofale (versione illustrata), min 22:11 
Middlemarch - George Eliot, min 22:31 (ve ne ho parlato qui
Villette - Charlotte Bronte, min 22:50
Il grande mare dei sargassi - Jean Rhys, min 23:04
Chi ti credi di essere - Alice Munro, min 24:07 (ve ne ho parlato qui)
La boutique del mistero - Dino Buzzati, min 24:54 (citato innumerevoli volte, tra cui qui)
Sillabari - Goffredo Parise, min, min 25:30 (anche lui sempre qui

Dopo avervi intontito più del cenone e dei sollazzi di fine anno, mi eclisso. Ma non prima di avervi augurato buone feste, di tutto cuore. Grazie per seguirmi sempre con lo stesso entusiasmo ogni anno. Un bacione alla mamma (e questa volta anche ai vostri cari). 

mercoledì 9 dicembre 2015

Leggere non solo con gli occhi

Vi siete mai soffermati su che cosa voglia dire “leggere”? Dimenticate l’aforisma di Kafka (“un libro deve essere l'ascia che rompe il mare ghiacciato che è dentro di noi”) o le frasi slogan che fanno vendere tanto merchandising all’interno delle Feltrinelli (“Leggo perché sono libera” e affini). Mi riferisco alla prassi, all’azione concreta della lettura. Aprire un libro, sfogliarlo, visualizzarne ogni singola parola, seguire con gli occhi le frasi da un capo all’altro della pagina. Il canale di comunicazione: dagli occhi alla mente. Avete mai pensato al fatto che ci sono persone che non possono “leggere” in questo modo perché questo canale gli è precluso? Probabilmente no. Raramente ammetto di averlo fatto io. La realtà è che spesso ignoriamo del tutto che le stesse storie che amiamo possono essere conosciute in maniera completamente diversa, diventare accessibili attraverso altre strade, che non partono dagli occhi per arrivare a noi. 
Sapevate che le persone non vedenti e ipovedenti sono tra i lettori più forti in Italia? Eppure non godono di “parità” effettiva per ciò che riguarda la lettura, almeno non ancora. 
Ho conosciuto uno spicchio del loro mondo, attraverso un reading al buio, organizzato dalla Fondazione LIA (Libri Italiani Accessibili), tenutosi nella cornice del Laboratorio Formentini per l’editoria. 
Cos’è un reading al buio? è l’incontro con la quotidianità dei lettori non vedenti. L’occasione per scoprire come si legge un libro, non attraverso gli occhi. In condizioni di semioscurità, Paolo Colagrande - autore di “Senti le rane” (edito da Nottetempo), tra i finalisti del Campiello di quest’anno - con l’aiuto di Antonino Cotroneo, lettore ipovedente, ha letto alcuni passi del suo romanzo. 


Antonino, al termine del reading, ha spiegato davanti alla classe di ragazzi chiamata all’ascolto, i diversi strumenti utilizzati per la lettura. Oggi la tecnologia permette di leggere in maniera più rapida e semplice, addirittura attraverso lo smarthphone (e i suoi processi di sintesi vocale), non soltanto in braille. Sapete quanto è difficile (e costoso) realizzare un libro in braille? Pensate che la saga di Harry Potter potrebbe occupare un’intera stanza di carta. La Fondazione LIA, coordinata dall’AIE e finanziata dal Ministero dei Beni Culturali, si occupa appunto di sfruttare le nuove tecnologie per realizzare ebook (il loro catalogo è di oltre 9 mila e-book accessibili) che rendano possibile la lettura alla comunità di lettori italiani con disabilità visive.
Personalmente, il modo in cui ho “letto” il testo di Paolo Colagrande ha suscitato sensazioni diverse rispetto alla mia solita esperienza di lettura. Ha dato un’altra dimensione alle parole, quasi più concreta. Le frasi assumevano una sostanza sonora, non si limitavano ad esistere solo nella mia immaginazione. Il reading al buio non è servito semplicemente a sensibilizzare su una realtà “difficile” ma, al contrario, ha dimostrato prima di tutto come accessi diversi alle stesse risorse (le storie) non diano come risultato la stessa esperienza. L’uguaglianza (parità di accesso, stesse possibilità di leggere per tutti) non è sinonimo di omologazione. L’ascolto non è lo stesso senso della vista, così come il tatto - decifrare ogni puntino con le dita (per chi legge in braille) - non equivale al seguire ogni frase con lo sguardo. Per tale motivo non si parla di sostituibilità ma di accessibilità. Sono due mondi diversi, due linguaggi diversi, due traduzioni diverse della stessa storia.


Dopo il reading, Antonino Cotroneo ha fatto un esempio illuminante. La classe di ragazzi che hanno partecipato all’incontro frequenta un istituto tessile. Antonino ha chiesto loro: “E se improvvisamente foste costretti a cucire solo vestiti della stessa taglia? O della stessa fantasia?”. 
Sarebbe un mondo piatto, privo di immaginazione. E così è per i libri. Leggere è diverso per i lettori non vedenti o ipovedenti, non migliore o peggiore. Dipende solo da noi rendere per loro l’esperienza della lettura facile o molto difficile. La Fondazione LIA si occupa proprio di questo e spero che possiate seguirla e supportarla nel suo percorso (sempre in crescendo) verso l’uguaglianza. 
Ormai è strabusato l’esercizio di retorica superficiale su quanto la lettura ci renda migliori, più felici, più bravi, più belli. Suggerisco di abbandonare gli slogan e di concentrarsi su cosa la lettura sia prima di tutto: un diritto. Facciamo in modo che sia accessibile a tutti.  

sabato 7 novembre 2015

L'orrendo ignoto di Jeff Vandermeer


"Accettazione" - capitolo conclusivo della trilogia dell’Area X  -  è l’ennesima apnea nel conturbante oceano creato da Jeff Vandermeer. 
Preparatevi a rimanere intrappolati, come i protagonisti, per delle lunghissime ore nell’Area x, per di più nel bel mezzo dell’inverno. Se Autorità - secondo capitolo della trilogia - adottava un punto di vista esterno alla Zona anomala e ci offriva un quadro meno compromesso, un’inquadratura dal confine, in Accettazione ci troviamo di nuovo nel caos dell’Area X, a fare i conti con tutte le sue bizzarrie faunistiche e anomalie topografiche. 

“Quando hai deciso di entrare nell’Area X hai rinunciato al diritto di dire che una cosa è impossibile”.

Ancora una volta, infatti, è lei la protagonista decisiva della narrazione: l’Area X. Lo scenario inquietante, dipinto da Vandermeer, vede l’uomo ostaggio di un luogo che gli è ostile o, ancor peggio, indifferente a tal punto da fagocitarlo per istinto. La natura ha acquisito coscienza propria, un proprio respiro, una propria volontà. Dall’incontro con questo orrendo ignoto nascono l’ossessione e la paranoia della contaminazione che seguono le classiche atmosfere del body horror (le copertine disegnate da LRNZ danno un’idea). L’ambientazione creata da Vandermeer rappresenta l’ecosistema naturale danneggiato, la prefigurazione di una Natura che, dopo essere stata a lungo contaminata, sia andata incontro ad una trasformazione che anziché farla morire, l’abbia portata ad assumere la capacità di attuare un’invasione, agendo completamente al di fuori della portata dell’uomo.  Risuona beffarda di sottofondo l’impotente retorica delle Smart Cities a misura d’uomo (e magari con tanti spazi verdi!). Per quanto l’Area X sia un’ambientazione aliena, nel terzo capitolo diventa ancora più evidente il sospetto che sia certamente il prodotto dell’azione umana e quindi sua precisa responsabilità. Di definizioni per descrivere questo particolare filone ne sono state date tante: new weird, eco-thriler, climate fiction…
Tutti figli del grande calderone dello sci-fi, che si presta benissimo a rappresentare i diversi scenari del mondo che verrà. Sembrerebbe che tutti cullino lo stesso presentimento: il futuro sarà da incubo, soprattutto se continuiamo ad agire indiscriminatamente sull’ambiente che ci circonda.


La trilogia s’incastra su un binomio particolare: da un lato l’ombra della responsabilità umana, dall’altro l’impotenza dei personaggi contro questa nuova Forza che li infetta. I protagonisti infatti sembrano sotto scacco, sempre frustrati dall’inconoscibilità dei misteri dell’Area X. Questo impasse viene parzialmente superato in Accettazione che - per quanto il titolo presupponga una sorta di rassegnazione a fare i conti con forze più potenti di noi - si risolve in un finale particolare, in cui il “sacrificio” e il libero arbitrio dell’uomo contano ancora qualcosa.
Lo stato psicologico dei personaggi è, di nuovo, centrale, forse ancora di più che negli altri capitoli. La narrazione risulta più densa, ricca di personaggi e sfaccettature. Ci si muove tra più piani temporali(numerosi sono i flashback che contribuiscono a dipanare molti dei misteri lasciati in sospeso negli altri volumi) e diversi punti di vista che danno più dinamismo alla storia, soprattutto se paragonati al punto di vista unico dei precedenti capitoli, a volte asfissiante. Spesso pesa eccessivamente l'indugiare dell'autore in descrizioni macchinose sull'alterazione mentale dei personaggi ma è innegabile che i protagonisti, stavolta, hanno più agency. Soprattutto perché Vandermeer utilizza l’Area X come una sorta di purgatorio in cui pagare gli sbagli, le scelte (e le non scelte) della propria vita:
“Varcare il confine significava entrare in un purgatorio dove trovavi tutte le cose perse e dimenticate”.
L’idea è quella di creare un luogo estremo in cui le percezioni siano alterate, amplificati i ricordi, i rimpianti. Accettazione è il più insidioso dei tre capitoli, si muove tra due mondi, all’interno dell’Area X e all’esterno, nel mondo della vita quotidiana e nel mondo dove tutto è possibile e dove però tutto sembra allo stesso tempo più intenso, più reale. 
“L’unico pensiero che si insinua la sera, dopo un appuntamento dal medico o un salto al supermercato: in che mondo vivo in realtà?Puoi esistere in entrambi?”.  



Molto insistito è il motivo dello sguardo, creatore di mondi, che ricorda la metafora cinematografica. Si riflette nel continuo rimando all’idea di sorveglianza che c’è all’interno dell’Area X - “Del resto in quei luoghi qualunque cosa spiava e veniva spiata”- sia nel rimando continuo alla luce (tutto sembra animarsi sempre con un’illuminazione o un luccichio) e addirittura si fa un’ipotesi azzardata su come tutto possa essere nato per colpa di una lente…
C’è anche un fondo di metaletterario in Vandermeer: la figura dello Scriba in primis, ma in maniera più sottile, ciò che vedo, vive. Ciò che illumino, creo. Ciò che scrivo, forgio. 

Infine, nella trilogia, tutto è connesso. Luoghi e persone presenziano nella narrazione sempre come immagini speculari, doppioni che vivono in simbiosi. Il faro che rimanda ad un altro faro, il tunnel che gli è speculare, i doppioni fantocci ecc…
“Un faro che proiettava il suo segnale verso un altro faro”.

La trilogia dell’Area X è così conclusa. Un lavoro che è intessuto di echi, rimandi, il meglio delle suggestioni dello scrittore (in primis, Lost), rielaborati in questa trilogia “anomala”, una breccia nella mente, una singolarità. S’inserisce perfettamente nelle tendenze dello storytelling contemporaneo: serialità e coralità, un universo immersivo , capace di catturare il lettore con ingegno e raffinatezza. 


Unico appunto: avrei forse preferito più concretezza nella descrizione di alcune "creature" che popolano l'Area X, meno vaghezza. Ammetto di non essermi immaginata molti dettagli, descritti in maniera fin troppo ermetica.  

martedì 30 giugno 2015

Uragano Roth: La macchia umana

Avvertenze: 
1) questa sarà una lunga, lunghissima - probabilmente sconclusionata - tirata, i miei due cent, su un signore che assomiglia spaventosamente ad Italo Calvino (e a Neri Marcorè). 
2) A me piacciono moltissimo gli avverbi e li uso spesso in maniera inappropriata. 
3) Non ho ricevuto una solida formazione critica e questo è solo il frutto di letture disordinate e un’inesauribile curiosità. 

Ho da pochi minuti terminato la lettura de “La macchia umana” di Philip Roth. 
Ci sono quei libri che si insinuano all’interno del tuo consolidato nido di credenze, idee, saperi, pregiudizi, convinzioni - che hai fortificato con fatica e scrupolosa dedizione in vent’anni di scuola, vita familiare, cadute e ripartenze sentimentali - e sai già che non c’è più nulla da fare. Arrivano per scombussolare tutto, tocca ricostruire il castello di carta della tua identità da capo. 
Sono libri alteri, sdegnosi. Non smetterai mai di consigliarli, di parlarne, di instaurare confronti e soprattutto li rileggerai. Probabilmente subito dopo averli terminati, li ricomincerai.  Questo è il destino fortunato di libri come “La macchia umana”. 
Il mio primo Roth. Considerato uno dei più grandi scrittori viventi, vittima felice del totoNobel praticamente ogni anno, scatenato, chiacchieratissimo Roth. Ho sempre nutrito un timore reverenziale (vi rassicuro: non c’è ragione) verso queste figure della letteratura. Acquistano un’aria familiare, il loro nome - dappertutto letto, dappertutto udito - diventa quasi una sagoma. Roth, in particolare, con le sue consonanti finali, due arroganti fricative dentali, me lo immagino sempre con una giacca di lana cotta, modello coloniale, con le sopracciglia aggrottate, propenso verso di me come un grosso rapace ma dallo sguardo ironico. 
Si dia il caso che l’autore Roth sembri (e badate, sembrare è un verbo spietato) rassomigliare straordinariamente ai personaggi che raffigura. Vi avverto, prima di scrivere non ho cercato informazioni biografiche, né recensioni né alcun tipo di materiale a supporto di questa tesi. Semplicemente sembra così. Da lettrice, vedo che Coleman Silk è simile al suo artefice e l’autore si limita, come dire, a quest’opera di svelamento e occultamento continuo dello specchio. è così vicino, così vicino all’essenza del personaggio che dev’essere lui. Sappiamo che lo scrittore deve essere un abilissimo fingitore ma siccome io non credo ad un’abilità portentosa nel dissimulare che sia completamente disinteressata, devo pensare che il demone a cui risponde il signor Roth sia di natura personale. Non esiste che si vada così a fondo ad un personaggio senza che ci sia qualcosa di tuo. E tutta quella storia sulla necessità del testimone - perché il resoconto della faccenda qui ci viene fornito dallo scrittore Nathan Zuckerman - è una grossa panzana e qui si sta parlando di un meraviglioso alter ego. Anzi di due: Nathan Zuckerman, narratore degli eventi, e il coetaneo Coleman Silk, nella parte del povero viveur. La testimone unica è la scrittura. L’autore per proteggersi deve inventarsi delle maschere ma sappiamo tutti che razza di narcisi egocentrici siano, con noi non attacca.
D’altra parte, non credo che lavorando di fantasia il signor Roth sarebbe stato in grado di arrivare a tali vette di autenticità. Il protagonista dunque è una personalità formidabile e così il suo creatore. Ora possiamo addentrarci nel fitto della foresta nera. 
L’evidenza è che il romanzo - ma forse tutta l’opera dell’autore - si giochi su un crudele tiro alla fune. L’agone si tiene tra l’audace individualismo, l’autoaffermazione del sé al di là di qualsiasi vincolo sociale (persino familiare!) e dall’altro lato i dispositivi della società - il meccanismo del decoro, brutta bestia per Roth - che tentano di ricondurre lo scandaloso fluire della vita in fredde categorie, rigide convenzioni, etichette restrittive.
Nello specifico, Coleman Silk è un professore universitario sulla settantina la cui carriera impeccabile si macchia irrimediabilmente quando viene accusato di razzismo. Coleman usa la parola spooks per riferirsi a due studenti di colore. Il termine ha due accezioni: la prima è spettri, intenzionalmente utilizzata dal professore, facendo riferimento all’assenteismo dei due studenti (che lui non ha mai visto!); la seconda invece è un insulto spregiativo, negro. La prima sfumatura di significato appartiene al vocabolario, alla lingua codificata, il significato originario. La seconda appartiene allo slang, la lingua corrente che modifica e manipola i significati, si adatta alla mutevole contingenza della vita, alle congiunture della storia e vive di contraddizioni. La lingua è biforcuta, ambivalente, cela sempre un paradosso, un’opposizione. 
Una sola parola, pronunciata da un uomo di lettere (lettere antiche, lettere classiche), si rivela rovinosa. Diventa infatti il pretesto per infamare una figura rispettabile, eppure odiosa. Coleman infatti è apparentemente inserito nella convenzionalità - un distinto accademico, benestante, una famiglia numerosa, un aspetto piacente, un fisico ancora agile - eppure è scomodo, all’interno della comunità. Perché eccessivamente brillante, una sorta di despota, dalla mente tumultuosa. Ha trascinato fuori dalle secche intellettuali il campus, tagliando via i rami secchi (licenziando le cariatidi nullafacenti). Ironicamente potremmo dire, per usare un termine logorato dalla cronaca politica, che la sua opera di rottamazione ha fatto esplodere un sistema farraginoso per inaugurare un nuovo corso, più meritocratico, più dinamico. Un professore tanto illuminato quanto detestabile, per la sua arroganza, i suoi azzardi, la sua titanica personalità. 
L’accusa di razzismo non cadrà immediatamente - come vorrebbe il buon senso - nessuno infatti si schiererà apertamente dalla parte di Coleman che così dovrà sottostare a dei processi farsa, interrogatori, indagini interni al campus che sono più una beffa che una condanna. L’intento dei colleghi non è quello di rovinarlo bensì di mantenerlo sulla graticola, di vederlo rosolare, che mostri un po’ di umiltà. Ma Coleman Silk non riesce ad accettare l’onta subita, e proprio quando tutti stanno per dimenticarsi del piccolo scandalo, il professore decide di dimettersi, ritirandosi in uno sdegnoso e rabbioso esilio. Due anni dopo, riesce a liberarsi del rancore che l’ha quasi soffocato, abbandonandosi ad una relazione con Faunia, una silvestre creatura di trentaquattro anni, che risveglia una forza invisibile ed incontrollabile, quasi più dell’odio che per anni lo ha imprigionato: il desiderio. Il perbenismo della piccola comunità lo attacca nuovamente con ferocia accresciuta. Ogni atto commesso da Coleman sembra suscitare una condanna, ormai è macchiato, è l’appestato con la campanella.  


In un primo momento, dunque, la tenzone interna alla narrazione è tra la libertà dell’individuo (specialmente l’individuo eccezionale) di affermarsi con tutto il peso della sua persona (è interessante il fatto che in latino persona voglia dire maschera, ma ci torneremo dopo) al di là della morale comune, al di là delle etichette di giusto e sbagliato (spesso non coincidenti con bene e male) e la brutalità, la forza schiacciante della società che tenta di ricondurre la volontà particolare alla cieca volontà generale della storia con i suoi meccanismi culturali disciplinanti e disciplinati. 
Coleman è scandaloso, Coleman va punito. Questo professore che non si rassegna, che vuole smaccatamente vivere al di fuori della decenza.   





Da un lato, abbiamo la raffigurazione di questi grandi narcisi con la loro fitta retorica del sé e i loro slanci virtuosistici della Parola e dell’ingegno. Dall’altro abbiamo un continuo infierire su di loro con le armi affilate della calunnia e del pettegolezzo e il conseguente disonore per il nostro protagonista. Le personalità formidabili si ricollegano ad un elemento fondante della società americana: l’individualismo. Un individualismo però sempre teso come un dardo verso una realizzazione del sé, frustrata dal perbenismo e dall’ipocrisia della comunità.  
Non cedete all’autoinganno, non fatevi stregare dal fingitore. Non è un duello ad armi pari. Non c’è una vittoria morale dello spirito del protagonista, superuomo che si rivale sulla grettezza e la mediocritas della società americana. 
La grande lezione di Roth è che tutta la grande importanza data alla personalità, all’individuo, è infine sempre sbilanciata (a suo sfavore) dal memento riguardo la sua insignificanza. “Non eravamo più romanzeschi di quanto gli animali fossero mitologici o impagliati”. 






Il discorso di Roth non si limita a criticare quel costrutto per cui “tutti sanno”.  L’inconscio collettivo, quella lava vischiosa di pregiudizi e ideo precostituite che abbiamo sull’umanità. Perché un vecchio di settantuno anni non si vergogna di andare a letto con una illetterata bidella di trentaquattro? La donna sarà certamente vittima di  una manipolazione, di uno sfruttamento. Perché un professore non porge delle scuse ufficiali a due studenti di colore che ha denigrato verbalmente? è un razzista, è un arrogante tiranno. Ripeto, Roth non si limita a ribaltare quel “tutti sanno” in “nessuno sa” e a dileggiare la presunzione di avere qualcosa in più di una conoscenza parziale, fallace di ogni individuo. In altre parole, il protagonista non è un agnello sacrificale. Coleman Silk non è il fulmine che spezzerà la quercia della tradizione - per usare una metafora dell’epica lucanea - e per questo condannato come moderno Cesare, pagando il dazio della sua eccezionalità. 
Se fosse così il romanzo si sarebbe rivelato soltanto interessante, il classico, confortante relativismo zoppo sulla società meschina e il suo Ercole frustrato dalle invidie. Questo tipo di romanzi che siamo abituati a leggere troppo spesso non arriva ad abbracciare una visione più ampia. Se vogliamo scomodare un eroe, mettiamo in gioco Icaro, più che Ercole. 
Infatti, il romanzo trova la sua forza nella natura paradossale del protagonista. L’ambiguità si gioca a più livelli. Abbiamo visto che il protagonista è già sdoppiato in uno scrittore (Nathan Zuckerman, protagonista ricorrente nei romanzi di Roth ed ennesimo suo alter ego). Quel che non sappiamo è che il protagonista custodisce un segreto molto ingombrante, una sorta di identità negata. Un ennesimo sé, sebbene sia un sé rinnegato. In altre parole, più scaviamo, più vediamo la macchia di Coleman. La vera macchia, non quella fasulla, appiccicatagli addosso dalla società ma quella inconfessabile, il segreto ignominioso che Coleman non può rivelare.
Il paradosso non sta nel fatto che una parola così piccola e anche un po’ ridicola - spooks - possa generare una valanga di conseguenze spiacevoli ma nel fatto che l’unica verità che può riscattarlo pienamente dall’accusa, è impossibile da pronunciare perché cela una vergogna molto più grande. 
Riflettevamo prima sulla persona. In latino, il termine è strettamente connesso al volto, tant’è vero che etimologicamente possiamo risalire al significato di “individui mascherati”. Ebbene, il volto che Coleman mostra  è sempre una costruzione, sempre una maschera. Che libertà c’è nel nascondersi? 
Il paradosso è ovunque in questo romanzo. Non si ferma all’ambiguità del linguaggio - la lingua biforcuta di cui parlavamo prima - ma si insinua ad ogni strato. è paradossale il modo in cui tutti credano - in maniera quasi inconscia - alle calunnie sul conto di Coleman, persino i suoi figli. Lo sforzo fatto per educarli, per trasmettergli tutta quella cultura, comprensione e tolleranza, risulta vano. Sono disposti a credere alle più fuorvianti sciocchezze sulla vita del padre “come se fosse una soap opera vittoriana”. La fragilità del buon senso contro forze più grandi di noi, forze dell’inconscio, il nostro “sentire comune”. La febbre del pettegolezzo che contagia anche gli animi più saldi, quella presunzione di conoscere il prossimo, le sue gioie ma ancor di più le sue nefandezze. "Tanta istruzione non serve a nulla, nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero". Quel “tutti sanno” che in realtà è sempre “nessuno sa”.  
Il paradosso sta nel fatto che tutti condannano Coleman per le ragioni sbagliate, e la frustrazione è maggiore. Forse la pena risulta doppiamente atroce per Coleman proprio perché è schernito da ragioni misere e grette, anziché essere smascherato per la sua vera empietà. Perché nessuno conosce la vera macchia di Coleman. A questa paradossale miopia della società corrisponde invece la lucida e precisa prospettiva multifocale di Roth che ci offre una varietà di personaggi e di punti di vista, la molteplicità e l’ambiguità dei loro desideri. Roth profana il mito della purezza e del decoro. Ci mostra le nostre eresie, i nostri sotterranei illeciti, la nostra inevitabile corruzione. 






Avvertenze, parte seconda 
Da qui in poi consiglio la lettura solo alle persone che hanno letto il romanzo, sebbene io ritenga davvero una sciocchezza leggere Roth preoccupandosi di eventuali “spoiler”. Sarebbe come precludersi di leggere Anna Karenina perché sai già che fine farà la fiamma della candela(1) 

Non si può giudicare il romanzo prescindendo dalla Grande Bugia di Coleman perché essa è lo specchio che riflette tutta l’azione del protagonista. è una strana legge del contrappasso. Coleman si arruola nei Marines fingendosi ebreo, un ebreo bianco. Un nero che non può aspettare che la società sia pronta per accettarlo, che vuole “forzare la serratura del meccanismo” della storia, che vuole piegare quel grande dispositivo disciplinante che è la società, inserendosi a forza in una categoria “giusta”, rispettabile, decorosa. 



L’iconoclastia di Coleman Silk arriva a rinnegare la sua famiglia, la sua stessa madre per sviluppare il suo io, in piena libertà. Comprendiamo Coleman. Ma il suo gesto è eroico? Forse è tutto qui il romanzo di Roth: "l’indivisibilità dell’eroismo dalla vergogna". La sua potrebbe sembrare una giustizia riparatrice (ai suoi occhi, certamente lo è). Potrebbe sembrare legittimo sfuggire ad una categoria per sviluppare la sua piena personalità. Ma innanzi tutto ci si può chiedere, quale persona si sia formato Coleman, balzando metaforicamente fuori dalla sua pelle originaria. Ha sviluppato il suo vero sé al di là dei pregiudizi della società o ne ha soltanto creato un altro, per quanto inattaccabile  nella sua versione rispettabile? Il Coleman nero e il Coleman bianco, chi dei due è quello più valido o meno valido? Dopo anni trascorsi nella convenzione, il professore bianco ebreo - per lungo tempo auto assoltosi - viene improvvisamente ricatturato dal meccanismo della storia, di cui siamo prigionieri. Viene colto in fallo da una parola - o meglio, dal suo significato contingente, storico, gergale -  e per ironia della sorte viene accusato di razzismo. Proprio lui, che è nero, che ha fatto di tutto (persino l’inimmaginabile Rifiuto della Madre) per sfuggire a quel pregiudizio che ora gli rinfacciano! Tanto più minuscolo è l’errore, tanto più rovinoso il suo fallimento. 
Siamo "bestie carnali" immerse in un gioco beffardo, da cui è impossibile esimersi. L’estenuante sforzo di Coleman, la sua smania di liberarsi da quel “noi” di appartenenza alla cultura afroamericana, alla sua negritudine, è annullato da una parola (che è naturalmente solo la miccia). In altre parole, la brutalità del tempo presente - della storia che ancora non è storia - è di mille volte superiore alla nostra, seppur eccezionale, individualità e ai suoi tentativi di elevazione. E qui ritorniamo all’inizio, al primo punto, al gioco alla fune tra l’individuo (il suo narcisismo, la sua ambizione di forgiarsi uno storico destino) e il costante monito alla sua insignificanza. "La libertà è pericolosissima, e non esiste nulla che rispetti per molto tempo le tue condizioni".  Quel “Noi” da cui Coleman vorrebbe sfuggire, non permette fuga alcuna. 

Un ultimo spunto di riflessione appare d’obbligo. Con tutti questi interrogativi sulla verità, sulla storia e le sue convenzioni, sulla fallacia del sapere, del linguaggio e della parola - c’è una bellissima citazione da poter sfoderare ad una cena che è questa: “la verità sul proprio conto non è conosciuta da nessuno e spesso meno di tutti da se stessi” -  che via d’uscita c’è, se c’è?  

Prima abbiamo parlato di prospettiva multifocale, a proposito di come Roth voglia renderci partecipi dei retroscena, di più personaggi, non solo il traditore della razza, il figlio senza cuore, il grande narciso Coleman. Per ciò quello di Roth aspira ad essere un romanzo totale (vd. punto tre delle avvertenze iniziali), non tanto impegnato nella vertigine della lista che sembra la smania del nostro tempo (sono piuttosto ambivalente su questo punto perché amo Donna Tart ma detesto Murakami e Jumpha Lahiri - ci sarebbe da aprire un’altra parentesi ma sono clemente). Bensì nel restituirci un’immagine il più possibile meticolosa e nitida della multiforme natura della vita. Tutto questo spiegare incessantemente fin nel più piccolo dettaglio ogni svolta del labirinto della mente dei personaggi, come possiamo definirlo se non totale?
Su tutto per altro domina una vena d’umorismo, da giocoliere relativista che salta continuamente tra ciò che è rivelabile e ciò che non lo è. La letteratura quindi è testimone fedele e inaffidabile, allo stesso tempo. Non è certamente consolatoria ma anzi pone un argine al nichilismo perché si spiega, è il mezzo di rappresentazione del sé meno indulgente, più spietato. L'arte che si avvicina di più a scoprire se dietro le mere azioni, dietro i fattori sociali che ci definiscono, c’è ancora spazio per pensare all’individuo come qualcosa di separato da tutto questo. E per pensare alla “vita come un concetto il cui fine è nascosto”, sfuggente. 
Infine, “su tutte le nobili giustificazioni, cala il martello di Faunia”.
Se c’è qualcosa che può salvare Coleman, che può ridargli dignità e senso, è il desiderio, l’unica forza incontrollabile e tumultuosa che si può opporre al logorio del rancore. Roth d’altronde decide di chiamare questa caricaturale salvatrice, Faunia, come il fauno/satiro della mitologia antica, simbolo del vitalismo, della frenesia e dell’ebbrezza dei sensi. Tanti sono i richiami al mondo classico (Coleman è un professore di letteratura latina e greca) ne La macchia umana, che può essere in un certo senso definito una tragedia postmoderna (2), libertina, indecorosa, nell’accezione più bella del termine. “Ha qualcosa in comune con l’Iliade, libro preferito di Coleman sullo spirito barbaro dell’uomo”.

Insomma, ho detto molto ma non è ancora abbastanza esaustivo come commento per un romanzo di tale portata, davvero magnifico. Dopo questo primo round, mi aspetta Goodbye Columbus e poi molti altri ancora. Non ho nessuna intenzione di uscire dall’uragano Roth. 

NOTE:
(1) Un mužicjòk, dicendo intanto qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.
(2) "Il grande dramma dell’uomo che è saltar su e andarsene. Per diventare un nuovo essere umano. Per biforcarsi". 

sabato 20 giugno 2015

L'eterna sera di Silvio D'Arzo


C'è questa espressione che non mi va più via dalla testa: "spolveriamoci il cuore e non pensiamoci più". Sembra una di quelle frasi simpatiche, ironici inserti colloquiali che gli scrittori usano spesso.  Io invece credo che racchiuda tutta la tristezza del mondo. E D'arzo ci avverte: "quando ci si mette il mondo sa ben essere triste, però. Ha perfino intelligenza in questo". I racconti provano a sussurrarci le cose che si possono dire solo al buio, che non si ha il coraggio di riportare del tutto alla luce. Come la signora Nodier. Una vedova che, senza morire, ha arrestato il corso della sua esistenza. Quando un soldato le riporta a casa l'amata cagnolina del marito defunto, non riesce a sopportarne la forza della vita e la fa imbalsamare.
La dimensione di questi brevi racconti è quella di un'infelice (ma sopportabile) quiete, quella di un'eterna sera. I personaggi sono quasi tutti senili, ipnotizzati dagli spettri dei ricordi. Attendono. Più che le parole (per cui i protagonisti provano addirittura vergogna), parlano i colori del cielo di montagna: il viola, il blu, il grigio, l'ottone. Stiamo sospesi, non nella malinconia, né nel dolore né nel rimorso (come ci avverte il protagonista alla fine del racconto principale). Bensì in un grande vuoto. "Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito". 
Per fortuna Henry James si fa sentire a distanza di molte lune (che D'Arzo ama tanto). La sua influenza, sebbene ovvia, non è ingombrante e questa raccolta è una gemma. Lo stesso non si può dire per l'edizione Einaudi del 1980. Capisco tutte le vicissitudini editoriali che ha passato questo piccolo libriccino però non si può trovare nel testo "Cecof" al posto di Cechov, e una cascata di virgole messe a caso, due punti ripetuti come se fosse uno scritto in codice morse ecc.. Noto con piacere che è stata fatta una nuova edizione (in biblioteca purtroppo era disponibile solo una copia malconcia dell'edizione trapassata) e spero che sia stata corretta (o quanto meno, rivista!) la singhiozzante punteggiatura. Mi rifiuto di credere che D'Arzo la usasse in maniera così scellerata.
Ad ogni modo, leggetelo, amici.

sabato 25 aprile 2015

Stalin + Bianca, Iacopo Barison. Il balletto meccanico dell'apocalisse.

Tra i candidati del Premio Strega 2015 (poi escluso dalla cinquina)
Edito da Tunué, collana Romanzi, pag. 175, 9,90 


Un ragazzino con una videocamera in uno stadio vuoto. Accanto a lui, Bianca - una ragazza cieca e bellissima - di cui è innamorato. Stalin, lo chiamano. Per via dei suoi folti baffi. Soffre d’improvvisi attacchi d’ira che riesce a tenere a bada ingurgitando pillole da un blister che porta (quasi) sempre con sé. Sta per compiere diciotto anni (anche se non vorrebbe). Sta per commettere un’azione a cui non potrà più porre rimedio (anche se non vorrebbe). Sono entrambi giovani e soli. Questa è la storia della loro fuga, attraverso un mondo contaminato e freddo che sembra non avere più molto da offrirgli. 

“Il mondo è arrivato ad un punto morto”

La provincia da cui fuggono è gelida e quasi disabitata, una “palette di grigi” da cui tutti tentano di allontanarsi. Verso dove? “Dove non c’è la neve”. La realtà immaginata da Barison è infatti cupa, dagli accenti apocalittici. Il mondo è irrimediabilmente contaminato, guasto, al capolinea. Eppure la morte descritta di Barison non è fatta di violenza, brutalità, panico. è una disperazione sorda, avvolgente, pigra. La foschia circonda tutto, il lento deteriorarsi del pianeta è uno spettacolo malinconico.
 La società occidentale ha perso colore e autenticità ma non i suoi comfort. D’altra parte, “il mondo è sull’orlo del baratro ma non è ancora caduto”. La Capitale è lasciva, squallida, irreale. I paesaggi metropolitani sono marchiati da una nuova fase del capitalismo, non più sgargiante e promettente ma conformista e grigio. Il marketing si è ridotto all’osso, persino nel consumo ormai c’è ben poca scelta. Non è più uno svago ma il riflesso condizionato dei tempi andati. 
La Capitale (che non ha nome né coordinate geografiche precise) è un territorio esploso:  “L’orizzontalizzazione delle razze, la mescolanza di peculiarità etniche” hanno creato bizzarri risultati: fast food di cucina fusion, veg burger, e altri amalgami di culture disperse. Ogni quartiere assomiglia a quartieri lontani, situati addirittura in altri emisferi”
Non manca elettricità, né cibo, né acqua in questa triste apocalisse.  Ma le verdure sono liofilizzate, il mondo è sterile e spento. Stalin si chiede come mai non ci siano più arcobaleni, ogni traccia di bellezza sia stata risucchiata, così come ogni speranza per il futuro. 



“Respireremo la crisi di un’epoca che ha fatto il suo tempo”.
Tutto questo ci viene restituito attraverso frammenti, istantanee, esattamente come il corto che sta girando Stalin. Il protagonista infatti è percorso da due tensioni: una distruttrice (i suoi attacchi d’ira) e una creativa che lo porta ad esprimersi attraverso il racconto visivo del loro viaggio.  A fare da contrappunto alla “lunga parete nera” che è la vista di Bianca,  c’è l’obbiettivo della videocamera di Stalin. La narrazione è quindi estremamente visiva, ci restituisce un mosaico dei nostri tempi fatta di spezzoni incoerenti e spietati. Il romanzo procede come una puntata di Blob: sulle note di What a wonderful world, si susseguono accostamenti paradossali, immagini di giocolieri in una discoteca, scheletri che elemosinano droghe, individui che indossano maschere antigas come accessorio fashion.  Tutto danza attorno a noi come un balletto meccanico. C’è qualcosa di inspiegabilmente melanconico in questo romanzo: un movimento che simula l’organico ma non possiede lo stesso slancio, un movimento senza scopo, automatico. Come il viaggio dei due protagonisti, diretti verso il vuoto. 
La domanda che si pone Barison: cosa succede se anche i posti in cui fuggire sono finiti? 

Il romanzo s'indebolisce nella seconda parte, caratterizzata da una serie di banalizzazioni sul maledettismo giovanile. Anche lo stile risente di un’esasperata drammatizzazione, un’eccessiva sentenziosità. Per descrivere atmosfere così particolari funzionano meglio certe immagini come l’insegna al neon sgangherata della pensione che ospita i due giovani o la fontana di ghiaccio che diventa una grottesca attrazione turistica. Show, don’t tell. 
Quello che dovrebbe essere un viaggio di crescita in realtà è un’involuzione esacerbante del protagonista che, improvvisamente libero dal disturbo di cui soffre, si crogiola nel proprio ego, perde in umanità per diventare invece il grande eroe di una tragedia (senza pathos). 
I dialoghi si fanno artificiosi -  laddove nella prima parte erano essenziali e taglienti - dei giri a vuoto. Stalin e Bianca si ritrovano a vivere tra artisti di strada, pochi soldi, molti ideali e droga. L’intenzione dell’autore è quella di dipingere uno scenario d’apatia ma il talento artistico dei protagonisti più che sprecato sembra inconsistente. 
Infine Bianca. Dovrebbe essere la co-protagonista ma è un fantasma, riflesso di Stalin: irreale, piatta. L’ennesima figura femminile oggetto di sguardo e pressoché inerme. Bellissima e ininfluente. Nella narrazione, chiusa completamente nella soggettività (spesso ottusa) di Stalin, gli altri personaggi risultano opachi, inutili.  
Se si dovesse trovare una causa da imputare ai difetti di Stalin+Bianca, certamente, sarebbe la megalomania del protagonista principale. Un difetto che è possibile perdonare al romanzo di uno scrittore molto giovane (è quasi impossibile non trovare un eccesso di slancio retorico nelle prime opere, specialmente in quelle di autori ambiziosi). 
  
Una serie di campi lunghi, una storia crudele, dalla bellezza cupa che, sebbene traballi dal punto di vista narrativo (come racconto breve sarebbe stato perfetto), ci restituisce un’originale visione del mondo, suggestiva e intensa. 


Note a margine: se l’istinto non m’inganna, Barison è un lettore di DeLillo, che ritroviamo soprattutto nell’idea di Metropoli incoerente e labirintica. Mi sembra poi che gli artisti che vivono in un palazzone abbandonato siano un chiaro accenno ad Underworld

martedì 7 aprile 2015

Lettori si cresce: invito alla lettura senza slogan.

  
È possibile trasmettere l'amore per la lettura senza slogan, senza retorica spiccia, senza trasformare la letteratura in un passatempo lezioso, in un rifugio alienante, buono per nutrire un business da giostrai? Sto parlando di tutto quel filone editoriale che fa leva sulla magia dei libri (alimentata dal profumo della carta naturalmente), sulla bontà dei librai e su altre baggianate ruffiane. La variante pseudocolta dell'amico gay. Molto graditi gatti, tazze fumanti e donnini in gonnellina e ballerine, stampati sulla copertina, grazie. L'ultimissimo prodigio: La lettrice di mezzanotte (?). Ma davvero si vuole salvare la letteratura rendendola innocuo hobby per signorine un po' tocche? Per piacere. 


Giusi Marchetta, al contrario, punta tutto sulla letteratura che infiamma. Mette al bando, i diritti del lettore di Pennac, o almeno uno: il verbo leggere sopporta l'imperativo. Leggi è un bellissimo comandamento. Scansa luoghi comuni polverosi e vuoti: "leggere è bello, interessante, educativo ecc..". Va al cuore della sua ossessione, mostrandone anche i lati cattivi, oscuri. La lettura non è naturale, non è bella e basta. Si legge anche per isolarsi, per allontarsi dal mondo. La letteratura non sempre insegna, non ci rende migliori, non ci rende più bravi. Leggere non è utile ma è necessario. Leggere in modo critico, curioso, che poi è anche l'unico modo autentico.
I libri non sono più interessanti delle persone. La letteratura è fatta per le persone, dalle persone. Qualsiasi tentativo di rendere più facile, più rassicurante, più sgargiante il mondo dei libri rispetto a quello della vita è imbarazzante.
"Lettori si cresce" è un ibrido tra narrazione e saggio, per nulla prevedibile, di un'ironia sagace. Tanti spunti, tante tipologie di non-lettori (e anche qui si dimostra l'intelligenza e l'antiretorica di indagare la realtà a partire dall'esperienza e non dalla volontà di imbonire quel mostro gigantesco, sorgente di tutti i mali, che è diventato "l'italiano che non legge"). Davvero molti i passaggi illuminanti, li inserisco qui sotto. Scusate per la qualità infima. 




Quando ci scontriamo con letture particolarmente ricche, succede che improvvisamente anche le discussioni più banali, trite e ritrite nella quotidianità, acquistino una luce diversa. V'invito a leggere questo post su facebook da cui è partita una discussione interessante su cosa la letteratura per ragazzi dovrebbe e non dovrebbe fare. Prima della lettura di "Lettori si cresce" probabilmente avrei risposto in maniera diversa, con più cinismo, senza dubbio.
Il secondo spunto invece c'entra più che altro con l'invito alla lettura e le risorse che la tecnologia ci mette a disposizione. Argomento che non è affrontato direttamente nel saggio ma su cui ho riflettuto. Vi riporto per intero il messaggio ricevuto sul mio profilo tumblr e la mia risposta a riguardo.  

Ho letto la tua recensione su anobii riguardo "Lettori si cresce" e mi hai convinto a prenderlo :-) Tu lo hai letto in cartaceo o eBook? Sono indecisa per via del prezzo: rispettivamente 14 e 8 euro.. È un bel risparmio ma 8 euro per un ebook mi sembrano sempre troppi :/



L’ho letto in ebook grazie alla biblioteca (le novità più interessanti ci sono quasi sempre, è incredibile). Il sistema MLOL (lo so che fa ridere) mi sta salvando la vita. Ha accresciuto enormemente il mio accesso a tantissimi titoli che anche solo per pigrizia (sai quanto è faticoso andare in biblioteca? molto poco ma ogni scusa è buona) non avrei mai letto. Con un click, hai tra le mani la risorsa desiderata. Anche per lo studio, è un sistema rivoluzionario! Immagina di scrivere una tesina. Con il cartaceo per trovare quel passaggio da citare ci staresti duemila anni, con il digitale c’è la funzione “trova”, sprecando un massimo di tre minuti d’orologio. In Europa, soprattutto al Nord, tutte queste cose sono scontate e anche ostacolate da molti meno limiti (molte biblioteche italiane non aderiscono, il catalogo digitale va accrescendosi poco alla volta, si possono scaricare solo quattro titoli mensilmente ecc..). Ecco perché è importante che facciate richiesta alla vostra biblioteca del servizio e facciate tantissimo passaparola. La cultura genera valore al di là del profitto diretto. Cosa voglio dire? Prendiamo l’esempio di questo saggio. Io l’ho letto gratuitamente. La mia recensione su goodreads (oltre al mio passaparola tra amici lettori ed interessati all’argomento) ha attirato già un minimo di sette persone che hanno affermato di voler acquistare il libro. Bada che sto tenendo conto SOLAMENTE dei risultati tangibili (cioè persone che hanno manifestato di voler procedere all’acquisto), non ho contato le influenze (in un futuro magari compreranno il libro o ne parleranno con qualcuno). Io stessa, essendo rimasta particolarmente impressionata dal saggio, voglio procurarmene una copia cartacea. Dove voglio andare a parare? La biblioteca (ma in generale i contenuti accessibili su internet) non sono risorse “regalate”. E producono risultati. Il saggio di Giusi Marchetta non l’avrei comprato perché non ho ancora un’autonomia economica che mi permette di comprare libri solamente perché ne sono incuriosita. Devo essere spinta da una sorta di sicurezza. Con la biblioteca invece sono libera di leggere quello che voglio, risparmiando laddove non vale la pena, aggiungendo valore e moltiplicandolo all’interno delle mie cerchie sociali laddove invece ciò che ho trovato mi entusiasma. Valore inteso come sia discussione sui contenuti del libro, sia stimolandone l’acquisto. Una copia gratuita disponibile = sette possibili acquisti. Una copia a pagamento che non potrò comprare = zero patata. Il discorso è lungo e complesso ma ci credo fortemente. Detto ciò, il libro merita di essere supportato. Se non sei un tipo che sottolinea, o legata in modo particolare al supporto fisico, prendi l’ebook che risparmi. Credimi, gli otto euro li vale tutti. 
P.S. Se hai proprio i soldi contati ti consiglio di prenderlo su siti di e-commerce online come IBS, c'è sempre lo sconto (ho controllato: 11 euro!). Amazon boicottalo ché è malvagio. Oddio, pure Ibs ha una dose di cattiveria non indifferente al suo interno visto che mi ha levato le spese di spedizione gratuite. Vergognatevi tutti. 

giovedì 26 marzo 2015

La verità capovolta, Jennifer duBois



Ma quanto è brutta la copertina italiana?

"Da bambino era stato paziente con le domande, sicuro che un giorno sarebbero arrivate le risposte. E adesso che era cresciuto si voltava a guardare e ritrovava tutte le domande là dove le aveva lasciate: coperte di polvere, forse, ma straordinariamente ben conservate. Le domande duravano più di ogni altra cosa, in realtà; le domande e gli oggetti. Tutto il resto andava verso la distruzione". 


Se il romanzo d'esordio della scrittrice ("Storia parziale delle cause perse") rappresenta l'esempio di una narrazione eccezionale  - soprattutto, ma non solo - per merito della storia, la seconda opera della Dubois ("La verità capovolta") è un libro sorprendentemente ben riuscito nonostante la storia. 
Un episodio di cronaca nera è l'ispirazione per il romanzo, un caso di omicidio piuttosto conosciuto e sfruttato in tutti i modi possibili (dal becero intrattenimento televisivo al sensazionalismo della stampa, al libro verità, al docu-film ecc..). La scelta,  all'apparenza molto scaltra, di riaccendere i riflettori sul delitto di Perugia, l'omicidio di Meredith e il conseguente circo mediatico su Amanda Knox, ricade invece nella categoria: mancanza d'immaginazione. Non che un omicidio non sia interessante. Tuttavia la scelta di questo particolare caso non può che evocare l'immagine di una carogna servita ad un sontuoso ricevimento. Lo spettro del cattivo gusto aleggia su questo romanzo, soprattutto in virtù del fatto che è stato riaperto il processo (e sta per giungere una sentenza proprio in questi giorni!). La letteratura certamente non deve avere argomenti tabù. Eppure non si può dire che la duBois provi a ribaltare certe bassezze compiute all'interno della narrazione dei media tradizionali: lo strisciante sessismo, l'elemento scabroso, la morbosità del connubio erotismo e violenza. 
La cronaca nera gioca da sempre sul giudizio preventivo, sull'apparenza, sul processo alle intenzioni, sul "mai chiarito", che però non è una categoria del pensiero ma un pretesto per poter scegliere da soli il proprio colpevole, il proprio movente, la propria preferenza. 
La duBois è infinitamente più raffinata del grossolano e crudele carosello mediatico. Sì, condanna la superficialità dei giudizi, il cannibalismo dei sentimenti, la parzialità delle storie. Ma in fondo fa tanto meglio? Il suo romanzo è un gioco: sulla fallibilità delle percezioni, sulla verità, sulla psicologia di personaggi nebulosi(forse fin troppo), cerebrali, annosi. Ed ecco perché si resta tanto male alla fine. La desolazione delle ultime trenta pagine ci sorprende e mal si adatta al resto. Tutto il romanzo è ludico, enigmatico, quasi mai drammatico. Siamo affascinati, mai pienamente coinvolti. Capiamo Lily,  apprezziamo il suo carattere ambivalente, egocentrico e inconsapevole, di un’inconsapevolezza fatale che ti porta a cacciarti nelle situazioni più spiacevoli per quell’assurda convinzione che il male non ti tocchi.  Sviluppiamo empatia, soprattutto perché sappiamo che Lily è una persona come noi, reale, possibile, complessa.  è una ragazza che fa la ruota durante un interrogatorio.  Il perché però è lasciato all’interpretazione. Questo è il problema. Il fatto che nel romanzo della duBois, esattamente come in un servizio di cronaca nera trasmesso al telegiornale, tutto si trasformi alla fine in un gioco delle parti. E ti senti anche tu uno spettatore idiota che magari ci ha creduto alla buona fede del sospettato x e invece che peccato dovrai pagare la scommessa al tuo barbiere che invece aveva puntato sull’altro, quello innocente. 
Il punto è che non c’è una morale più profonda di questa. è un romanzo straordinariamente buono nella misura in cui tutti i personaggi hanno una voce distintiva, bella, potente. è un romanzo riuscito perché nonostante la storia si trascini più del dovuto verso volute davvero non necessarie, resti lì a leggere perché la duBois è così brava nell’avvincere il lettore alle sue parole, così lontane dall’ordinario, dal prosaico. è un bel romanzo perché ti lascia sperare che ci sia qualcosa di più rispetto al gioco vero/falso e in effetti c’è: nel groviglio di storie e ricordi e malinconie che sparpaglia intorno la scrittrice, nei dettagli sommersi del resoconto dei personaggi. Al centro però c’è una storia evitabile, brutale senza essere null’altro che questo. 

Il finale è doppiamente malvagio: da un lato, ti fa stare male quasi fisicamente perché hai vissuto nella mente di personaggi brillanti ma non così tanto da sfuggire alla bestialità del mondo. Dall’altro, ti lascia l’amarezza di  aver letto un romanzo di una brava scrittrice che ha deciso di prendere una scorciatoia.  No, non ci sono beceri colpi di scena o scivoloni disastrosi ma rimane un romanzo che sfiorisce in fretta. 

Note a margine: titolo in italiano decente, peccato che in inglese il senso è decisamente meno banale e si riferisce alla ruota che la protagonista esegue mentre è interrogata dalla polizia. Gesto che getta sospetti e ambiguità sulla protagonista: fredda calcolatrice o ingenua vittima delle circostanze?
La copertina italiana invece non mi piace, la trovo asettica. Molto meglio l'originale.


lunedì 16 marzo 2015

Annientamento di Jeff Vandermeer. Luoghi non segnati sulle mappe.


“L’osservazione di tutto questo ha soffocato le ultime ceneri del mio irresistibile impulso a conoscere ogni cosa…”.

Quattro donne senza nome si avventurano per scopi scientifici all’interno dell’Area X. Si tratta della dodicesima spedizione all’interno della zona: un’area disabitata sulla costa americana che la natura ha iniziato a reclamare per sé. Un luogo altro, in cui le leggi fisiche sembrano rispondere ad altri dettami, in cui opera una Forza che altera l’ambiente in modi imprevedibili e innaturali. La Southern Reach, segreta agenzia governativa, è incaricata di indagare sulle anomalie del luogo attraverso cicliche missioni di scienziati, il cui compito principe è l’osservazione. Scrivono i risultati della loro esplorazione su un diario (e sono proprio le pagine del diario della Biologa che leggeremo). Sono vietate le comunicazioni verso l’esterno così come l’uso di strumenti tecnologici. 

Annientamento è caratterizzato dal ritorno al primitivo. Jeff Vandermeer ci introduce in un contesto selvaggio, primordiale, fitto di mistero, al confine con il paranormale. Adesso che siamo così immersi nella cultura tecnologica, in cui si ingigantiscono le ombre degli incubi proiettati dalla fantascienza, Hal 9000 e leggi della robotica sono messi da parte. 
La lotta ingaggiata in Annientamento non riguarda l’uomo e le sue creature. Più vicino è forse Alien e il suo predatore dall’intelligenza spietata. Tuttavia il senso incombente di minaccia inevitabile - così ben reso dalll’autore - non proviene dall’esterno, nello Spazio sconfinato. L’attenzione è rivolta al nostro pianeta. Perché cercare altrove se così poco percepiamo e conosciamo del nostro mondo, di cui ci crediamo i padroni? 

Tutto ciò che succede nell’Area X è infatti oltre la capacità dei sensi umani di capire e orientarsi. Figuriamoci di controllarne l’ambiente. Apprendiamo che l’Area si è formata a seguito di un disastro ecologico, causato dall’azione umana. La zona contaminata è la risposta della Natura agli effetti devastanti dell’umanità. Anziché considerare il nostro pianeta come qualcosa di dato ed immutabile, Vandermeer ci apre gli occhi su come la Natura sia sempre in fase di mutazione, imprevedibile, adattivo. E se la Terra avesse creato una forza superiore all’Uomo, che possa contrastarlo, assimilarlo, annientarlo? 

La narrazione è investita da una grande attenzione alla percezione. L’autore possiede un’intensa consapevolezza di quanti mondi nascosti vi siano al di sotto dei paesaggi naturali e sulla fallacia dei sensi umani di percepirli. Gioca su questa mancanza.  
La protagonista di Annientamento vede ribollire l’inspiegabile, tenta di risolvere l’enigma dell’ignoto con mezzi razionali (con quanta sicurezza all’inizio si aggrapperà al suo microscopio!). Chi meglio di lei? Biologa, esperta degli ecosistemi in transizione, figlia unica ed esperta negli usi della solitudine, un’osservatrice perfetta, che si mimetizza, si confonde con il paesaggio. Il suo soprannome è uccello fantasma
Probabilmente proprio grazie a queste sue capacità di adattamento, subisce da subito l’influenza dell’Area X, ne è infettata. Diventa quindi una narratrice inaffidabile: la sua percezione dell’ambiente è amplificata, distorta. Il suo è un viaggio incubo che la porterà ad un mutamento totale, una metamorfosi.

Vandermeer sembra andare oltre al genere del body horror alla Cronenberg. Annientamento è un lavoro che fa dell’ibridazione una cifra stilistica, non solo il nucleo narrativo. La contaminazione è presente nell’ambiente, nei personaggi, nello stile. è possibile creare dei parallelismi con Lost, Alien, Stalker e autori come Lovecraft, China Mieville, Clive Barker. Le influenze sono tante, la rielaborazione che ne fa Vandermeer si rifiuta di essere etichettata. 

La corrente è quella del new weird che accoglie autori anti-tolkeniani, impegnati nella creazione di mondi ibridi, al confine tra fantasy e fantascienza, originali e rigorosamente verosimili. Altra caratteristica è quella di arricchire la narrazione di un tessuto simbolico fitto e donare una complessità psicologica ai personaggi che permetta di superare le distinzioni canoniche tra bene e male. Proprio questo elemento aggiunge ancora più ambiguità alla storia. Viene in mente la citazione di Lorne Malvo in Fargo (serie tv): “There are no saints in animal kingdom. Only breakfast and dinner”. Non ci sono santi nel regno animale: solo colazione e cena. L’Area X è un luogo ancestrale, l’orientamento (soprattutto morale) è reso vano dalla più micidiale delle tecnologie: il mimetismo. Distinguere la realtà dai suoi camuffamenti è decisivo per la sopravvivenza. 

Annientamento è una fionda tesa. La fascinazione verso il mistero insondabile non basta, ciò che dona bellezza inquietante alla storia è la vena immaginifica dello scrittore, le brillanti riflessioni sui limiti del sapere e soprattutto l’indagine nella mente della protagonista. Che cosa l’ha condotta davvero nell’Area X? Qual è la sua storia?
Il romanzo è un’angosciosa apnea, disturbante e contorto, ti lascia in uno stato di indeterminatezza. Le risposte sono poche ma non inesistenti o incoerenti (qualcuno ha citato Lost una volta di troppo). La filosofia è questa: “Quando siamo troppo vicini al cuore di un mistero, non c’è modo di riallontanarsi per vederlo nel suo insieme”.
Dobbiamo, come la Biologa, accontentarci di indizi, deduzioni, approssimative e parziali.

“Mi rendo conto che tutti questi ragionamenti sono incompleti, inesatti, imprecisi, inutili. Se non ho vere risposte è perché non sappiamo ancora cosa chiederci. I nostri strumenti sono inutili, i nostri metodi approssimativi, le nostre motivazioni egoistiche”. 

Annientamento è un luogo non segnato sulla mappa: difficile inquadrarlo; inoltrarsi al suo interno può essere azzardato ma, una volta entrati, la curiosità avrà la meglio. 

Note a margine:
L'aspetto che mi ha più colpito del romanzo è l'attenzione meticolosa al mimetismo. Io ho delle teorie riguardo alle misteriose creature della storia che si rifanno precisamente a questa capacità naturale che trovo stupefacente e pericolosissima. Attendo di parlarvene prossimamente in un post zeppo di spoiler.
Qui potete trovare un elenco di tutti i libri che hanno aiutato l'autore alla composizione del romanzo. Domani, 17 Marzo, sarò a Torino per partecipare ad un incontro con l'autore, insieme ad altri blogger, giornalisti e scrittori. Non vedo l'ora.
Annientamento è il primo romanzo della trilogia dell'Area X che uscirà nel corso di quest'anno, sempre per Einaudi.
La bellissima copertina è opera di LRNZ (autore di Golem, Bao). Si è occupato anche delle copertine degli altri due volumi della trilogia a cui potete dare una sbirciata qui.