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mercoledì 9 dicembre 2015

Leggere non solo con gli occhi

Vi siete mai soffermati su che cosa voglia dire “leggere”? Dimenticate l’aforisma di Kafka (“un libro deve essere l'ascia che rompe il mare ghiacciato che è dentro di noi”) o le frasi slogan che fanno vendere tanto merchandising all’interno delle Feltrinelli (“Leggo perché sono libera” e affini). Mi riferisco alla prassi, all’azione concreta della lettura. Aprire un libro, sfogliarlo, visualizzarne ogni singola parola, seguire con gli occhi le frasi da un capo all’altro della pagina. Il canale di comunicazione: dagli occhi alla mente. Avete mai pensato al fatto che ci sono persone che non possono “leggere” in questo modo perché questo canale gli è precluso? Probabilmente no. Raramente ammetto di averlo fatto io. La realtà è che spesso ignoriamo del tutto che le stesse storie che amiamo possono essere conosciute in maniera completamente diversa, diventare accessibili attraverso altre strade, che non partono dagli occhi per arrivare a noi. 
Sapevate che le persone non vedenti e ipovedenti sono tra i lettori più forti in Italia? Eppure non godono di “parità” effettiva per ciò che riguarda la lettura, almeno non ancora. 
Ho conosciuto uno spicchio del loro mondo, attraverso un reading al buio, organizzato dalla Fondazione LIA (Libri Italiani Accessibili), tenutosi nella cornice del Laboratorio Formentini per l’editoria. 
Cos’è un reading al buio? è l’incontro con la quotidianità dei lettori non vedenti. L’occasione per scoprire come si legge un libro, non attraverso gli occhi. In condizioni di semioscurità, Paolo Colagrande - autore di “Senti le rane” (edito da Nottetempo), tra i finalisti del Campiello di quest’anno - con l’aiuto di Antonino Cotroneo, lettore ipovedente, ha letto alcuni passi del suo romanzo. 


Antonino, al termine del reading, ha spiegato davanti alla classe di ragazzi chiamata all’ascolto, i diversi strumenti utilizzati per la lettura. Oggi la tecnologia permette di leggere in maniera più rapida e semplice, addirittura attraverso lo smarthphone (e i suoi processi di sintesi vocale), non soltanto in braille. Sapete quanto è difficile (e costoso) realizzare un libro in braille? Pensate che la saga di Harry Potter potrebbe occupare un’intera stanza di carta. La Fondazione LIA, coordinata dall’AIE e finanziata dal Ministero dei Beni Culturali, si occupa appunto di sfruttare le nuove tecnologie per realizzare ebook (il loro catalogo è di oltre 9 mila e-book accessibili) che rendano possibile la lettura alla comunità di lettori italiani con disabilità visive.
Personalmente, il modo in cui ho “letto” il testo di Paolo Colagrande ha suscitato sensazioni diverse rispetto alla mia solita esperienza di lettura. Ha dato un’altra dimensione alle parole, quasi più concreta. Le frasi assumevano una sostanza sonora, non si limitavano ad esistere solo nella mia immaginazione. Il reading al buio non è servito semplicemente a sensibilizzare su una realtà “difficile” ma, al contrario, ha dimostrato prima di tutto come accessi diversi alle stesse risorse (le storie) non diano come risultato la stessa esperienza. L’uguaglianza (parità di accesso, stesse possibilità di leggere per tutti) non è sinonimo di omologazione. L’ascolto non è lo stesso senso della vista, così come il tatto - decifrare ogni puntino con le dita (per chi legge in braille) - non equivale al seguire ogni frase con lo sguardo. Per tale motivo non si parla di sostituibilità ma di accessibilità. Sono due mondi diversi, due linguaggi diversi, due traduzioni diverse della stessa storia.


Dopo il reading, Antonino Cotroneo ha fatto un esempio illuminante. La classe di ragazzi che hanno partecipato all’incontro frequenta un istituto tessile. Antonino ha chiesto loro: “E se improvvisamente foste costretti a cucire solo vestiti della stessa taglia? O della stessa fantasia?”. 
Sarebbe un mondo piatto, privo di immaginazione. E così è per i libri. Leggere è diverso per i lettori non vedenti o ipovedenti, non migliore o peggiore. Dipende solo da noi rendere per loro l’esperienza della lettura facile o molto difficile. La Fondazione LIA si occupa proprio di questo e spero che possiate seguirla e supportarla nel suo percorso (sempre in crescendo) verso l’uguaglianza. 
Ormai è strabusato l’esercizio di retorica superficiale su quanto la lettura ci renda migliori, più felici, più bravi, più belli. Suggerisco di abbandonare gli slogan e di concentrarsi su cosa la lettura sia prima di tutto: un diritto. Facciamo in modo che sia accessibile a tutti.  

sabato 25 aprile 2015

Stalin + Bianca, Iacopo Barison. Il balletto meccanico dell'apocalisse.

Tra i candidati del Premio Strega 2015 (poi escluso dalla cinquina)
Edito da Tunué, collana Romanzi, pag. 175, 9,90 


Un ragazzino con una videocamera in uno stadio vuoto. Accanto a lui, Bianca - una ragazza cieca e bellissima - di cui è innamorato. Stalin, lo chiamano. Per via dei suoi folti baffi. Soffre d’improvvisi attacchi d’ira che riesce a tenere a bada ingurgitando pillole da un blister che porta (quasi) sempre con sé. Sta per compiere diciotto anni (anche se non vorrebbe). Sta per commettere un’azione a cui non potrà più porre rimedio (anche se non vorrebbe). Sono entrambi giovani e soli. Questa è la storia della loro fuga, attraverso un mondo contaminato e freddo che sembra non avere più molto da offrirgli. 

“Il mondo è arrivato ad un punto morto”

La provincia da cui fuggono è gelida e quasi disabitata, una “palette di grigi” da cui tutti tentano di allontanarsi. Verso dove? “Dove non c’è la neve”. La realtà immaginata da Barison è infatti cupa, dagli accenti apocalittici. Il mondo è irrimediabilmente contaminato, guasto, al capolinea. Eppure la morte descritta di Barison non è fatta di violenza, brutalità, panico. è una disperazione sorda, avvolgente, pigra. La foschia circonda tutto, il lento deteriorarsi del pianeta è uno spettacolo malinconico.
 La società occidentale ha perso colore e autenticità ma non i suoi comfort. D’altra parte, “il mondo è sull’orlo del baratro ma non è ancora caduto”. La Capitale è lasciva, squallida, irreale. I paesaggi metropolitani sono marchiati da una nuova fase del capitalismo, non più sgargiante e promettente ma conformista e grigio. Il marketing si è ridotto all’osso, persino nel consumo ormai c’è ben poca scelta. Non è più uno svago ma il riflesso condizionato dei tempi andati. 
La Capitale (che non ha nome né coordinate geografiche precise) è un territorio esploso:  “L’orizzontalizzazione delle razze, la mescolanza di peculiarità etniche” hanno creato bizzarri risultati: fast food di cucina fusion, veg burger, e altri amalgami di culture disperse. Ogni quartiere assomiglia a quartieri lontani, situati addirittura in altri emisferi”
Non manca elettricità, né cibo, né acqua in questa triste apocalisse.  Ma le verdure sono liofilizzate, il mondo è sterile e spento. Stalin si chiede come mai non ci siano più arcobaleni, ogni traccia di bellezza sia stata risucchiata, così come ogni speranza per il futuro. 



“Respireremo la crisi di un’epoca che ha fatto il suo tempo”.
Tutto questo ci viene restituito attraverso frammenti, istantanee, esattamente come il corto che sta girando Stalin. Il protagonista infatti è percorso da due tensioni: una distruttrice (i suoi attacchi d’ira) e una creativa che lo porta ad esprimersi attraverso il racconto visivo del loro viaggio.  A fare da contrappunto alla “lunga parete nera” che è la vista di Bianca,  c’è l’obbiettivo della videocamera di Stalin. La narrazione è quindi estremamente visiva, ci restituisce un mosaico dei nostri tempi fatta di spezzoni incoerenti e spietati. Il romanzo procede come una puntata di Blob: sulle note di What a wonderful world, si susseguono accostamenti paradossali, immagini di giocolieri in una discoteca, scheletri che elemosinano droghe, individui che indossano maschere antigas come accessorio fashion.  Tutto danza attorno a noi come un balletto meccanico. C’è qualcosa di inspiegabilmente melanconico in questo romanzo: un movimento che simula l’organico ma non possiede lo stesso slancio, un movimento senza scopo, automatico. Come il viaggio dei due protagonisti, diretti verso il vuoto. 
La domanda che si pone Barison: cosa succede se anche i posti in cui fuggire sono finiti? 

Il romanzo s'indebolisce nella seconda parte, caratterizzata da una serie di banalizzazioni sul maledettismo giovanile. Anche lo stile risente di un’esasperata drammatizzazione, un’eccessiva sentenziosità. Per descrivere atmosfere così particolari funzionano meglio certe immagini come l’insegna al neon sgangherata della pensione che ospita i due giovani o la fontana di ghiaccio che diventa una grottesca attrazione turistica. Show, don’t tell. 
Quello che dovrebbe essere un viaggio di crescita in realtà è un’involuzione esacerbante del protagonista che, improvvisamente libero dal disturbo di cui soffre, si crogiola nel proprio ego, perde in umanità per diventare invece il grande eroe di una tragedia (senza pathos). 
I dialoghi si fanno artificiosi -  laddove nella prima parte erano essenziali e taglienti - dei giri a vuoto. Stalin e Bianca si ritrovano a vivere tra artisti di strada, pochi soldi, molti ideali e droga. L’intenzione dell’autore è quella di dipingere uno scenario d’apatia ma il talento artistico dei protagonisti più che sprecato sembra inconsistente. 
Infine Bianca. Dovrebbe essere la co-protagonista ma è un fantasma, riflesso di Stalin: irreale, piatta. L’ennesima figura femminile oggetto di sguardo e pressoché inerme. Bellissima e ininfluente. Nella narrazione, chiusa completamente nella soggettività (spesso ottusa) di Stalin, gli altri personaggi risultano opachi, inutili.  
Se si dovesse trovare una causa da imputare ai difetti di Stalin+Bianca, certamente, sarebbe la megalomania del protagonista principale. Un difetto che è possibile perdonare al romanzo di uno scrittore molto giovane (è quasi impossibile non trovare un eccesso di slancio retorico nelle prime opere, specialmente in quelle di autori ambiziosi). 
  
Una serie di campi lunghi, una storia crudele, dalla bellezza cupa che, sebbene traballi dal punto di vista narrativo (come racconto breve sarebbe stato perfetto), ci restituisce un’originale visione del mondo, suggestiva e intensa. 


Note a margine: se l’istinto non m’inganna, Barison è un lettore di DeLillo, che ritroviamo soprattutto nell’idea di Metropoli incoerente e labirintica. Mi sembra poi che gli artisti che vivono in un palazzone abbandonato siano un chiaro accenno ad Underworld

giovedì 26 marzo 2015

La verità capovolta, Jennifer duBois



Ma quanto è brutta la copertina italiana?

"Da bambino era stato paziente con le domande, sicuro che un giorno sarebbero arrivate le risposte. E adesso che era cresciuto si voltava a guardare e ritrovava tutte le domande là dove le aveva lasciate: coperte di polvere, forse, ma straordinariamente ben conservate. Le domande duravano più di ogni altra cosa, in realtà; le domande e gli oggetti. Tutto il resto andava verso la distruzione". 


Se il romanzo d'esordio della scrittrice ("Storia parziale delle cause perse") rappresenta l'esempio di una narrazione eccezionale  - soprattutto, ma non solo - per merito della storia, la seconda opera della Dubois ("La verità capovolta") è un libro sorprendentemente ben riuscito nonostante la storia. 
Un episodio di cronaca nera è l'ispirazione per il romanzo, un caso di omicidio piuttosto conosciuto e sfruttato in tutti i modi possibili (dal becero intrattenimento televisivo al sensazionalismo della stampa, al libro verità, al docu-film ecc..). La scelta,  all'apparenza molto scaltra, di riaccendere i riflettori sul delitto di Perugia, l'omicidio di Meredith e il conseguente circo mediatico su Amanda Knox, ricade invece nella categoria: mancanza d'immaginazione. Non che un omicidio non sia interessante. Tuttavia la scelta di questo particolare caso non può che evocare l'immagine di una carogna servita ad un sontuoso ricevimento. Lo spettro del cattivo gusto aleggia su questo romanzo, soprattutto in virtù del fatto che è stato riaperto il processo (e sta per giungere una sentenza proprio in questi giorni!). La letteratura certamente non deve avere argomenti tabù. Eppure non si può dire che la duBois provi a ribaltare certe bassezze compiute all'interno della narrazione dei media tradizionali: lo strisciante sessismo, l'elemento scabroso, la morbosità del connubio erotismo e violenza. 
La cronaca nera gioca da sempre sul giudizio preventivo, sull'apparenza, sul processo alle intenzioni, sul "mai chiarito", che però non è una categoria del pensiero ma un pretesto per poter scegliere da soli il proprio colpevole, il proprio movente, la propria preferenza. 
La duBois è infinitamente più raffinata del grossolano e crudele carosello mediatico. Sì, condanna la superficialità dei giudizi, il cannibalismo dei sentimenti, la parzialità delle storie. Ma in fondo fa tanto meglio? Il suo romanzo è un gioco: sulla fallibilità delle percezioni, sulla verità, sulla psicologia di personaggi nebulosi(forse fin troppo), cerebrali, annosi. Ed ecco perché si resta tanto male alla fine. La desolazione delle ultime trenta pagine ci sorprende e mal si adatta al resto. Tutto il romanzo è ludico, enigmatico, quasi mai drammatico. Siamo affascinati, mai pienamente coinvolti. Capiamo Lily,  apprezziamo il suo carattere ambivalente, egocentrico e inconsapevole, di un’inconsapevolezza fatale che ti porta a cacciarti nelle situazioni più spiacevoli per quell’assurda convinzione che il male non ti tocchi.  Sviluppiamo empatia, soprattutto perché sappiamo che Lily è una persona come noi, reale, possibile, complessa.  è una ragazza che fa la ruota durante un interrogatorio.  Il perché però è lasciato all’interpretazione. Questo è il problema. Il fatto che nel romanzo della duBois, esattamente come in un servizio di cronaca nera trasmesso al telegiornale, tutto si trasformi alla fine in un gioco delle parti. E ti senti anche tu uno spettatore idiota che magari ci ha creduto alla buona fede del sospettato x e invece che peccato dovrai pagare la scommessa al tuo barbiere che invece aveva puntato sull’altro, quello innocente. 
Il punto è che non c’è una morale più profonda di questa. è un romanzo straordinariamente buono nella misura in cui tutti i personaggi hanno una voce distintiva, bella, potente. è un romanzo riuscito perché nonostante la storia si trascini più del dovuto verso volute davvero non necessarie, resti lì a leggere perché la duBois è così brava nell’avvincere il lettore alle sue parole, così lontane dall’ordinario, dal prosaico. è un bel romanzo perché ti lascia sperare che ci sia qualcosa di più rispetto al gioco vero/falso e in effetti c’è: nel groviglio di storie e ricordi e malinconie che sparpaglia intorno la scrittrice, nei dettagli sommersi del resoconto dei personaggi. Al centro però c’è una storia evitabile, brutale senza essere null’altro che questo. 

Il finale è doppiamente malvagio: da un lato, ti fa stare male quasi fisicamente perché hai vissuto nella mente di personaggi brillanti ma non così tanto da sfuggire alla bestialità del mondo. Dall’altro, ti lascia l’amarezza di  aver letto un romanzo di una brava scrittrice che ha deciso di prendere una scorciatoia.  No, non ci sono beceri colpi di scena o scivoloni disastrosi ma rimane un romanzo che sfiorisce in fretta. 

Note a margine: titolo in italiano decente, peccato che in inglese il senso è decisamente meno banale e si riferisce alla ruota che la protagonista esegue mentre è interrogata dalla polizia. Gesto che getta sospetti e ambiguità sulla protagonista: fredda calcolatrice o ingenua vittima delle circostanze?
La copertina italiana invece non mi piace, la trovo asettica. Molto meglio l'originale.


domenica 22 giugno 2014

Considerazioni (lunghe e noiose) su La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro


Il futuro si è deteriorato, sembra che non ci attenda niente di buono, su questo sono tutti d'accordo, quando ero piccolo non era così: il futuro aveva qualche problema ma complessivamente era radioso, lucente, interplanetario, interstellare, intergalattico, trans-spazio-temporale.

Per Ivo Brandani, un soggetto residuale fuori dal ciclo riproduttivo (un vecchio ingegnere di sessantanove anni), le uniche dimensioni temporali possibili sono il passato e il presente. 
L’intero romanzo è giocato sull’alternanza tra questi due tempi narrativi. L’arco di una giornata - il ventinove Maggio 2015 - è lo spazio riservato alla disamina di una nauseante contemporaneità. I capitoli sono scanditi dall’orologio: dalle 9:07 A.M a 7.47 P.M. Un’interminabile giornata trascorsa con la debordante contrarietà del protagonista. Ivo attende all’aeroporto di Sharm-el-Sheik il volo di ritorno a casa. Si trova in Egitto per ricostruire con materiali sintetici la barriera corallina. In questo speciale limbo, l’unica dinamicità è offerta dalle sue associazioni mentali - echi di Proust e di Celine - che generano un torrenziale monologo, un feroce attacco al presente.

Il presente che descrive Pecoraro è in realtà un futuro prossimo, appena ad un anno di distanza dal nostro. Un anno che nel secolo accelerato in cui viviamo può anche significarne dieci. I riferimenti a questa realtà sono assoluti: le città sono indicate come Citta di Dio (Roma) o Città di Mare. Con le maiuscole anche i luoghi del potere, freddi, distanti: il Governatorato, l'Amministrazione, i Distretti. I luoghi decisionali sono lontani dall'individuo, vuoti. Tale descrizione di una burocrazia spersonalizzante ricorda Saramago (il Centro nel romanzo La Caverna, in particolare). E non è in ogni caso per niente lontana dal senso di smarrimento, solitudine e inerzia che appartiene al nostro tempo.  

Il fiume straboccante di parole contro la contemporaneità non è solo il risultato dell’IMS (Irritable male syndrome anche conosciuto come il ronzante rosicamento dei vecchiardi, a cui tutti noi siamo abituati). Ma è una disamina acutissima della realtà coeva. Il quadro è fosco. 
Un presente fasullo, vuoto e privo di bellezza. Il pianeta è ormai per metà in decomposizione e per metà plastificato, popolato da non-morti continuamente rigenerati dalle sostanze chimiche, risollevati dalla chirurgia, sempre più lucidi, artificiali. La vita ancora più lunga, quasi eterna, dove tutto è una copia di una copia di una copia. Persino il cibo è assemblato artificialmente. Un fake planet, devitalizzato ma in cui è quasi impossibile morire. Anzi, si direbbe che morire sia faccenda d’altri tempi.  
Stiamo lentamente transitando dal naturale al post-naturale, una surrealtà dove tutto è immagine di un originale scomparso. 
E Ivo - con il Rifacimento dei fondali marini in sintetico - contribuisce alla ricostruzione di un mondo fantoccio, alterato, imitazione di una realtà ormai perduta. Il tema della distruzione e della ri-costruzione si intrecciano: Ivo fabbrica un mondo nuovo mentre porta alla rovina quello vecchio, assume il doppio ruolo di homo faber e homo destruens. 
La sua carriera di ingegnere strutturista infatti non l'ha portato a progettare proprio un bel niente. Che contribuisca al disastro, allora. 

Io sto al gioco, mi piace l'Apocalisse, mi ci trovo bene, ci godo...

I toni apocalittici con cui viene descritta la contemporaneità sanciscono il collasso del mondo in cui è cresciuto. L’ingegnere si trova in una realtà dal volto irriconoscibile, da cui si sente già scollato, lui e la sua mentalità novecentesca. Vorrebbe passare gli ultimi stralci di tempo a sua disposizione assistendo ad un grandioso disastro - qualcosa di veramente emozionante, finalmente - è ossessionato dal senso della catastrofe. Non si inverte la freccia del tempo , gli direi a questi qui dietro il banco. Tutto deve andare a male, marcire, degradarsi, rovinarsi, fottersi definitivamente. Ma non ci sarà nessuna esplosione, solo un lento deteriorarsi che cambierà il volto del mondo. E Ivo si si sente già prossimo alla fine. Come i soldati che muoiono l’ultimo giorno di guerra, come a quei bambini che presero la poliomielite quando il vaccino era già in distribuzione. Sulla soglia di una nuova era. 

A queste amare invettive, si alternano capitoli dedicati alle reminiscenze del suo passato. Sgorgano dalla mente di Ivo ricordi a ritroso, da quelli più recenti all’infanzia, fino ad un finale fuori dal tempo. Dunque mentre la giornata del ventinove Maggio procede in senso orario - dalla mattina alla sera - il passato di Ivo si ripropone in senso antiorario, dalla vecchiaia alla sua nascita. La narrazione procede perfettamente  su questi due binari temporali, alternando questi due ritmi. La struttura del romanzo fa sì che la fine di Ivo - sappiamo dal primo capitolo cosa lo ucciderà - coincida con l’inizio della sua vita. Un motivo circolare che si ripresenta costantemente: il viaggio di ritorno dall’Egitto, il ritorno con la mente alla casa d’infanzia, al nucleo familiare d’origine e soprattutto al padre, paradigma tirannico e irrefutabile. 
Se inoltre il 2015 aveva caratteristiche vaghe, un contesto futuristico, il passato di Ivo al contrario ripercorre la Storia d'Italia. Un contesto a noi familiare, che viene però riletto con una nuova chiave da Pecoraro.
Queste immersioni nel passato - alcune rappresentano dei perfetti racconti autoconclusivi - danno una giustificazione al cinismo dell’attuale Brandani. Il suo vissuto è segnato dall’inadeguatezza e dai fallimenti. La vita lo ha attraversato, e lui l’ha subita. 

EFFETTO CORIOLIS: ogni traiettoria subisce una curvatura, talvolta fino ad avvitarsi su se stessa...Non sei mai dove avresti voluto essere, non arrivi mai nel punto dove hai messo la prua, ma sempre da qualche altra parte e ti dice bene se riesci a finire nei pressi del tuo obiettivo...Io, ammesso che avessi un obiettivo, non solo l'ho mancato in pieno, ma da qui nemmeno lo vedo più

La vita di Ivo scorre in tempo di Pace ma in realtà è un susseguirsi di conflitti meschini da cui uscirà sempre sconfitto. 
Il conflitto Originario è quello con il Padre, figura ostile e fascista, fedele a due unici Valori: Coraggio e Orgoglio. Due qualità che sfortunatamente Ivo sembra non avere. Padre costruisce per lui un mondo non-alla sua altezza, di fatto castrandolo e rendendolo un inadeguato-a-vita. Ivo così chiuso nel suo invernale voler restar dentro è spinto a forza fuori. Un fuori barbarico e primitivo: il mondo dei ragazzini, in cui si riproducono le dinamiche sociali della prevaricazione e della violenza. Ivo è persino una pippa a giocare a calcio, qualità invalidante. Nonostante il dopoguerra, il boom economico e l’ottimismo degli anni Cinquanta, il microcosmo della Città di Dio nasconde una realtà vile e brutale.  La lotta sociale è spietata, l’unico modo per galleggiare è menare. Farsi riconoscere come uno che mena garantisce lo status di dominante
La giovinezza di Ivo squarcia subito qualsiasi illusione. Il grande Male della Pace è la lotta per emergere, per imporsi sugli altri. Un conflitto eterno. Il Tempo di pace è la lotta di tutti contro tutti, la violenza è del tutto privata, egoistica. Non c’è una guerra - e quindi una violenza imposta, obbligata - che ti costringa a definirti secondo valori civili condivisi come quelli di Patria o che ti spinga a fare i conti con la sopravvivenza, con la parte più intima di te stesso. L’alternativa vertiginosa tra vita o morte non esiste nel tempo di Pace. La Pace ti cuoce lentamente ti culla con antidepressivi, ansiolitici e ti confonde, ti istupidisce, ti isola. 
In questo caos in cui Ivo fatica ad imporre la sua individualità (se lo ripete sempre:Brandani tu non sei un combattente, non sei un competitore…) il protagonista cerca un ordine alternativo alla crudeltà del comandamento homo homini lupus. Tenta con la rigidità del Pensiero: si iscrive alla facoltà di Filosofia. è coinvolto nelle lotte del 68’ e gli basta poco per capire che qualsiasi gruppo -persino quelli che propugnano idee di uguaglianza e di fraternità - nascondono la stessa ossatura, naturale negli uomini,  gli stessi meccanismi di dominanza e sottomissione, lo stesso gregarismo. 
E d’altronde Ivo capisce di essere inadatto alla lotta politica, qualsiasi scenario di battaglia lo atterrisce. 
Sono un non-eroe, un non-coraggioso, un non-dominante, uno che non ci crede, che non crede a niente, che non ha mai creduto a niente…sono uno-che-molla, uno che per lui niente conta, se non restare in vita nelle migliori condizioni possibili    
Durante un viaggio in Inghilterra, si trova davanti al Firth of Fourt Bridge. Ha un’illuminazione. 
Se la Natura lo ha tradito, se è inadatto a qualsiasi contesto di selezione naturale - e quindi inevitabilmente di prevaricazione fascista e violenta - allora, la Scienza, la costruzione, possono essere usate contro la Natura. La filosofia non aveva portato ordine, non aveva dato un Senso ma soprattutto non aveva dato un risultato visibile. La Scienza, al contrario, opponendosi ai diktat naturali permette di unire ciò che è separato, può creare dei ponti.
A seguito dell’epifania, abbandona la facoltà di Filosofia (ma non gli Ideali di sinistra, per quello c’è tempo) e si iscrive ad Ingegneria. Finalmente, eliminata la variabile umana, Brandani ha un mestiere. 
Il mondo del lavoro si rivelerà ancora più mortificante di quello adolescenziale e universitario. Non ci si fa la guerra né con le bombe né con i cazzotti come nel quartiere, ma con mezzi assai più subdoli. Il suo capo De Klerk è un manager di successo, aderisce al mondo così com’è e non come dovrebbe essere, al contario di Ivo ancora ancorato alla chimera dell'idealità. Questo capitolo è un piccolo capolavoro di narrativa: Pecoraro fornisce attraverso il racconto di un viaggio in barca una perfetta allegoria della fortissima pressione che esercita il capitalismo su di noi. De Klerk è tutto ciò che Ivo odia: maschilista, predatore, tirannico, un dominante. Brandani coltiva infatti nei confronti della mentalità borghese e materialista - tutto ciò che De Klerk rappresenta - un retro pensiero infantile: non mi avrete mai. Eppure De Klerk è più forte di lui, il suo modello prima lo affascina, poi lo avvince e infine lo schiaccia. Ivo non può niente. 
Di fatto ti collocasti nella grande Catena dei Sì. (...)Ti consegnerai nelle mani del capitale, sarai un ingranaggio del profitto. 
La sua blanda riserva mentale - “non mi avrete mai” - è una vana resistenza. Tutto è dentro la logica di mercato, senza scampo. Sembra di leggere le pagine profetiche di Cosmopolis (di Don DeLillo): “non esiste niente fuori dal mercato”.
La Grande Classe Media Uniforme dell'Occidente Democratico, quella che ha divorato e inglobato in sé tutte le altre classi, compresa quella operaia, dedita alla ragione passiva. I nativi del capitalismo mediatico non conoscono la nozione di opposizione, di alternativa.

Ha ragione Cortellessa quando parla di Pecoraro come scrittore di guerra. La guerra dei “sessant’anni di pace, nei tanti inferni del fare umano”. è questa la grande forza del romanzo: la sua potenza demistificatrice, il pessimismo lucido, la coscienza della complicità e della colpa. Ma anche la rassegnazione al caos dell'esistenza, alla non forma delle cose. Come pretendiamo che ci sia ordine se viviamo, anzi, siamo ciò che resta di un'esplosione? 

Il delirio lucido di Brandani sgorga fuori con aggressività, una lingua corrosiva, senza tabù. Seguendo gli stilemi del modernismo, Pecoraro redige un romanzo verboso -  come gli anziani Brandani è puntiglioso, si ripete senza sensi di colpa - contaminato da nozioni scientifiche, architettoniche, storiche, biologiche.  Il suo è un epos rovesciato, senza eroismi né imprese. Può darsi che La vita in tempo di pace sia la perfetta anti-epica, l’uomo senza qualità del nostro Tempo. 
Indubbio è che questo romanzo per gli scrittori italiani rappresenti - già - una tappa obbligata. 


Niente tornerà più, nessuna promessa è stata mantenuta: Dio non c'era, il mondo non ti stava aspettando, nessuno ti cercava, di là dal mare ci sono solo altri ristoranti di fritto misto e il mestiere, che prometteva, alla fine si è negato. O forse tu eri negato per farlo bene, Ivo...”.

giovedì 25 luglio 2013

Una finestra su Yates e Carver


 Yates e Carver sono quei nomi che ti rimbombano in testa da sempre. Un rimando casuale da parte di uno scrittore, una citazione in un film, un riferimento in un articolo di giornale. Sono ovunque in letteratura. Negli scaffali, tra i critici, annoverati tra gli autori più influenti, più consigliati, più amati, più detestati. Ho questo assillo da molto tempo: non aver ancora letto nulla di questi due maestri. Ora il problema è smettere. 

Perché ve ne parlo nello stesso post? Perché entrambi scrivono racconti? Perché entrambi sono americani? Non ho bisogno di lanciarmi in voli pindarici sull'importanza dell'esperienza americana nell'arte della short story. Quel modo americano di raccontare: con quel realismo lucido, analitico, a tratti brusco. Perché breve non è mica sinonimo di "superficiale, vuoto, inconcludente", come purtroppo continuano a riferirmi i non lettori di racconti. Queste due raccolte sono pienissime, strabordanti, ti travolgono con il loro carico di angoscia e disperazione invisibile.
Ho letto America oggi, e folgorata, ho iniziato subito Undici solitudini. Indovinarne due di fila così, è veramente raro.  Sarà perché ne ho sempre sentito parlare insieme. Yates e poi Carver. E io prima ho letto Carver con i suoi finali che ti spezzano il fiato e poi Yates con i suoi personaggi fuori posto, rotti, cattivi. Questo loro modo di indagare nelle piccole e misere vite quotidiane, fatte di ricatti e silenzi, trucchi e maschere. Non avete idea di cosa c'è dietro la normalità. Di cosa c'è dentro una banale e tranquilla vita in provincia.
"Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non gliene frega più niente di quello che succede agli altri; due, qualsiasi cosa succede, succede agli altri (...) E, intanto, la gente intorno a te continua a chiacchierare e a comportarsi come se fossi la stessa persona che eri ieri, stanotte, cinque minuti fa, e invece tu stai attraversando una crisi profonda e ti senti il cuore a pezzi…"
Con tutta quell'acqua a due passi da casa , America oggi
"Tutti avevano il cuore spezzato, certo. Però, lo stesso". 
Limonata, America oggi 


L'indifferenza degli altri. Il loro maledetto andare avanti. E tu non puoi. La solitudine che si arrampica sulle costole, infetta le esistenze dei protagonisti. Delle monadi, stanze senza finestre, che però non hanno alcun innatismo, non rispondono a nessun ordine. Sono lì, e basta. Siamo qui, e basta. Alla ricerca che qualcuno si accorga. E si fermi. Lo scrittore non può essere soltanto un altro spettatore. Questi due scrittori si sono fermati, hanno raccolto la testimonianza, la narrano, la consacrano.  
Hanno portato la luce in queste esistenze, uno sguardo gettato su quello che gli altri ignorano. La tensione drammatica che percorre le pagine e che eleva il quotidiano, il prosaico a collante universale. Questa è la letteratura che ci insegna a guardare meglio, a cercare le finestre ma anche le crepe vanno bene. Anche dalle fessure entra la luce.  

 “E dove sono le finestre? Da dove entra la luce?
Bernie, vecchio amico, perdonami, ma per questa domanda non ho la risposta. Non sono neppure sicuro che questa particolare casa abbia delle finestre.
Forse la luce deve cercar di penetrare come puo’, attraverso qualche fessura, qualche buco lasciato dall’imperizia del costruttore. Se è così, sta’ sicuro che il primo a esserne umiliato sono proprio io. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.”
Costruttori, Undici solitudini


Note a pié di pagina: mi fate un favore? Leggete anche Fitzgerald dopo Yates. E capirete. Sì, capirete che cose straordinarie hanno fatto queste "autorità del fallimento".

martedì 16 aprile 2013

Soundtrack Reading #1

Primo appuntamento di una rubrica che spero diventi mensile ma io sono io quindi non vi prometto niente. Prendetela così, come un temporale d'estate in Sicilia: raro. 
Come da titolo, parliamo della colonna sonora che accompagna la lettura. Sono graditi suggerimenti, dritte, parolacce, risse da bar e quant'altro sotto nei commenti.
So già che molti di voi preferiscono il meraviglioso e pacifico silenzio per una buona e concentrata lettura. Io no. O meglio, non sempre. Palahniuk mi definirebbe "silenziofoba" (capitolo 3, pagina 24 di Ninna Nanna, andate). Non lo so, lasciatemi in pace.
Come primo appuntamento, l'elenco di artisti (tre e saranno sempre e solo tre al mese, se si prolungherà ancora questo esperimento) sarà estremamente banale. Tutti artisti dalle sonorità particolari ma delicate.
Il primo è un giovanotto che sta facendo impazzire il mondo indie: James Blake
La mia preferita è la cover ormai vecchiotta di "Limit to your love" di Feist. 
Ascolto spesso anche Overgrown e The Wilhelm Scream



Il secondo artista è Bon Iver, la sua voce e i suoi testi parlano per lui. Il suo vero nome è Justin Vernon, ha una barba ed è un tipo (che immagino sia) timido e leggermente scostante. Proprio come piacciono a me.  Ha fatto anche una collaborazione con Blake (di cui sopra) che per me è bellissima. 
è lui quello di SKINNY LOVE non quella Birdy maledetta. Le mie preferite comunque sono Emma e Blood Bank (che mi spezza il cuore tutte le volte).



Il terzo e ultimo è un nostrano. Ve lo dico già da prima, è una scelta scontata. Ludovico Einaudi. Di musica non sono un'esperta ma quando suona lui, arrivederci. Le mie preferite sono tutte.   

 

Il Jolly è la categoria extra per tizi che non so se vadano bene per la rubrica però ce li metto lo stesso.
Jolly: non so quanto possa valere il classico Bob Dylan, visto che sarebbe un paroliere. E i parolieri mentre leggiamo sarebbero una distrazione ma la voce nasale e stoned di Bob distorce ogni parola e quindi per me è un BIG YES.