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sabato 12 marzo 2016

"Seppellire i morti, riparare i viventi"



Premessa: questo romanzo è finalista al Man Booker International Prize, avevo sentito numerosi pareri di lettura entusiasti (una recensione sul Guardian, in particolare) e mi sembrava che tutti ci avessero versato sopra copiose lacrime d'amore. Non è che sia un cattivo libro. Lo consiglio, anzi. Soprattutto ai più giovani. Ci fanno leggere tante cose brutte, questa non lo è. Ma non è decisamente all'altezza delle mie aspettative. Non dopo aver terminato da pochissimo la lettura di alieni come Capote, poi. 

“Il cuore è la scatola nera di un corpo”
Cosa archivia un cuore umano? Cosa rimane della vita precedente quando un organo migra da un corpo ad un altro? 
Riparare i viventi” vuole raccontare cosa succede al corpo di Simon, ragazzo di diciannove anni con la passione per il surf, quando cade in un coma irreversibile, a seguito di un incidente d’auto. Quello che si vuole suggerire è che niente è irreversibile, tutto migra e si trasforma. Il cuore di Simon potrebbe essere donato per “riparare” un altro essere umano, per dare nuova vita.  
Non è su questo che si concentra la de Kerengal, però. L’autrice francese indaga su chi resta, sui differenti modi di resistere alla morte, sul “genere di abbraccio che si dà per fare roccia contro il ciclone”.

Il tema della donazione degli organi è affrontato a partire da chi deve scendere a patti con una vita al limite: il cuore ancora batte, la coscienza però non c’è più. Il romanzo avrebbe dovuto concentrarsi sull’abbandono della convinzione per cui il corpo non è solo il nostro involucro ma è la nostra identità e vederlo alterato quando moriamo (anche se per un’azione nobile), ci sconvolge. 
Mi sembra che invece questo resti più che altro un bisbiglio mentre ci si sofferma di più su meccanismi ormai corrosi dalle narrazioni mainstream, che vogliono raccontarci con frasi retoriche cosa sia il dolore della perdita, quando, sono in pochi a riuscire ad avvicinarcisi allo stordimento e al disorientamento che provoca la morte. E questi pochi autori, che sanno parlarci della Morte, non vogliono nemmeno farci capire cosa sia, non cercano definizioni e frasi fatte. 

La de Kerangal decide di incorporare nel vocabolario romanzesco il lessico specialistico della medicina, o meglio, quella del reparto rianimazione, alveolo con ritmi e leggi proprie. 
“Lingua che abolisce ogni prolissità, abolisce l’eloquenza e la seduzione delle parole, abusa di nominali, codici e acronimi (…) potenza della sintesi”
Questa scelta linguistica è ravvisabile all’inizio ma pian piano viene sommersa dallo stile dell’autrice che invece è tutto fuorché sintetico e abbonda di termini astratti e vaghi, molto lontani dalla concretezza della medicina. 
Un altro rimando alla chirurgia è il modo settoriale in cui la narrazione viene tagliata in sezioni che ci mostrano i vari ricordi e vissuti dei personaggi, chi collegato direttamente, chi indirettamente, al cuore di Simon. 
L’idea era quella di pensare al romanzo come un corpo, un tutto che respira. Le storie dei diversi personaggi sembrano essere state scelte per via dei vari organi che portano in scena, vengono chiamati in causa le corde vocali, il diaframma, il sesso. Anche questa scelta, per quanto interessante, non risulta particolarmente congeniale al ritmo della narrazione, le storie sembrano digressioni scollate dalla tragedia che sta affrontando la famiglia di Simon. Si dissipa quasi del tutto il senso di organicità che avrebbe dovuto avere il racconto. 

Estrema importanza ha anche la dimensione del tempo. L’elaborazione del lutto è un processo lento, specialmente se avviene nell’ambiente ospedaliero che risponde a ritmi diversi e spesso opposti a quelli della vita del fuori. L’autrice opera una lunga dilatazione temporale, una sorta di piano sequenza che espande la percezione di ogni momento narrativo. Purtroppo questo senso di dilatazione, che ci rende partecipi di ogni dettaglio, non è sempre spontaneo. Si interrompe troppo spesso il corso degli eventi che sembra essere un suppellettile, a supporto della scrittura compiaciuta della scrittrice.
Lo stile è fortemente disequilibrato. Quando la de Kerengal si sofferma sul concreto, è precisa e raffinata. Riesce ad essere lirica parlando di tecnicismi, quando usa il gergo dei surfisti, il lessico dei professionisti, che sia un artista che plasma la materia o un medico che riflette sulla definizione di morte cerebrale. Quando invece punta alla descrizione del dolore, risulta forzatamente poetica e i suoi tentativi si traducono, troppo spesso, in una cascata di frasi paratattiche che vogliono tutte dire la stessa cosa, abbinate al binario sistema di tripla aggettivazione che, ritengo essere - correggetemi se sbaglio - illegale in almeno diciotto stati. 
"Loro stessi, fallati, spezzati, divisi".
Lo so che è da infami citare frasi mozzate, tirate fuori dal contesto. Ma è quel che è. 

Il problema principale, per me, è la sproporzione retorica. Vi sono momenti inutilmente arzigogolati. Tuttavia, quando invece è necessaria una maggiore drammatizzazione, l’autrice si fa spesso piccina e prosaica e ci vengono restituiti istanti deludenti e depotenziati. Tutti i gesti che i genitori compiono a seguito della morte del figlio, sembrano rituali smorti, sbiaditi, privi di reale autenticità. Non c’è nulla della raffinatezza e della sottigliezza di un Carver (in quel capolavoro che è “una cosa piccola ma buona”), i personaggi sono vittime di automatismi dozzinali (pugni al muro, mani nei capelli, testate sul volante), descritti con artifici retorici banali. 

Indugiare continuamente nelle pieghe di ogni istante (sì, sto scimmiottando) è spesso inutile e frustrante per il lettore. Non si traduce infatti in un’epifania,in momento rivelatorio, riflessione illuminante (sì, la scrittrice usa questo sistema di triplette), bensì in una divagazione retorica che non riserva quasi mai sorprese (non è Nabokov). Non è spiacevole, né particolarmente irritante ma non è nemmeno bello. Uno stile che non è al servizio della trama, non serve i personaggi, serve solo il lettore che si compiace di essere trasportato con faciloneria (non smaccata, ma pur sempre faciloneria) nel mare di struggimento e dolore in cui tutti ci crogioliamo (a livello letterario) quando muore un ragazzino di diciannove anni. 


La frase che possiede più forza evocativa sul tema, rispetto a tutto il resto del romanzo, è: "seppellire i morti, riparare i viventi". E non l'ha scritta l'autrice ma è una citazione

martedì 30 giugno 2015

Uragano Roth: La macchia umana

Avvertenze: 
1) questa sarà una lunga, lunghissima - probabilmente sconclusionata - tirata, i miei due cent, su un signore che assomiglia spaventosamente ad Italo Calvino (e a Neri Marcorè). 
2) A me piacciono moltissimo gli avverbi e li uso spesso in maniera inappropriata. 
3) Non ho ricevuto una solida formazione critica e questo è solo il frutto di letture disordinate e un’inesauribile curiosità. 

Ho da pochi minuti terminato la lettura de “La macchia umana” di Philip Roth. 
Ci sono quei libri che si insinuano all’interno del tuo consolidato nido di credenze, idee, saperi, pregiudizi, convinzioni - che hai fortificato con fatica e scrupolosa dedizione in vent’anni di scuola, vita familiare, cadute e ripartenze sentimentali - e sai già che non c’è più nulla da fare. Arrivano per scombussolare tutto, tocca ricostruire il castello di carta della tua identità da capo. 
Sono libri alteri, sdegnosi. Non smetterai mai di consigliarli, di parlarne, di instaurare confronti e soprattutto li rileggerai. Probabilmente subito dopo averli terminati, li ricomincerai.  Questo è il destino fortunato di libri come “La macchia umana”. 
Il mio primo Roth. Considerato uno dei più grandi scrittori viventi, vittima felice del totoNobel praticamente ogni anno, scatenato, chiacchieratissimo Roth. Ho sempre nutrito un timore reverenziale (vi rassicuro: non c’è ragione) verso queste figure della letteratura. Acquistano un’aria familiare, il loro nome - dappertutto letto, dappertutto udito - diventa quasi una sagoma. Roth, in particolare, con le sue consonanti finali, due arroganti fricative dentali, me lo immagino sempre con una giacca di lana cotta, modello coloniale, con le sopracciglia aggrottate, propenso verso di me come un grosso rapace ma dallo sguardo ironico. 
Si dia il caso che l’autore Roth sembri (e badate, sembrare è un verbo spietato) rassomigliare straordinariamente ai personaggi che raffigura. Vi avverto, prima di scrivere non ho cercato informazioni biografiche, né recensioni né alcun tipo di materiale a supporto di questa tesi. Semplicemente sembra così. Da lettrice, vedo che Coleman Silk è simile al suo artefice e l’autore si limita, come dire, a quest’opera di svelamento e occultamento continuo dello specchio. è così vicino, così vicino all’essenza del personaggio che dev’essere lui. Sappiamo che lo scrittore deve essere un abilissimo fingitore ma siccome io non credo ad un’abilità portentosa nel dissimulare che sia completamente disinteressata, devo pensare che il demone a cui risponde il signor Roth sia di natura personale. Non esiste che si vada così a fondo ad un personaggio senza che ci sia qualcosa di tuo. E tutta quella storia sulla necessità del testimone - perché il resoconto della faccenda qui ci viene fornito dallo scrittore Nathan Zuckerman - è una grossa panzana e qui si sta parlando di un meraviglioso alter ego. Anzi di due: Nathan Zuckerman, narratore degli eventi, e il coetaneo Coleman Silk, nella parte del povero viveur. La testimone unica è la scrittura. L’autore per proteggersi deve inventarsi delle maschere ma sappiamo tutti che razza di narcisi egocentrici siano, con noi non attacca.
D’altra parte, non credo che lavorando di fantasia il signor Roth sarebbe stato in grado di arrivare a tali vette di autenticità. Il protagonista dunque è una personalità formidabile e così il suo creatore. Ora possiamo addentrarci nel fitto della foresta nera. 
L’evidenza è che il romanzo - ma forse tutta l’opera dell’autore - si giochi su un crudele tiro alla fune. L’agone si tiene tra l’audace individualismo, l’autoaffermazione del sé al di là di qualsiasi vincolo sociale (persino familiare!) e dall’altro lato i dispositivi della società - il meccanismo del decoro, brutta bestia per Roth - che tentano di ricondurre lo scandaloso fluire della vita in fredde categorie, rigide convenzioni, etichette restrittive.
Nello specifico, Coleman Silk è un professore universitario sulla settantina la cui carriera impeccabile si macchia irrimediabilmente quando viene accusato di razzismo. Coleman usa la parola spooks per riferirsi a due studenti di colore. Il termine ha due accezioni: la prima è spettri, intenzionalmente utilizzata dal professore, facendo riferimento all’assenteismo dei due studenti (che lui non ha mai visto!); la seconda invece è un insulto spregiativo, negro. La prima sfumatura di significato appartiene al vocabolario, alla lingua codificata, il significato originario. La seconda appartiene allo slang, la lingua corrente che modifica e manipola i significati, si adatta alla mutevole contingenza della vita, alle congiunture della storia e vive di contraddizioni. La lingua è biforcuta, ambivalente, cela sempre un paradosso, un’opposizione. 
Una sola parola, pronunciata da un uomo di lettere (lettere antiche, lettere classiche), si rivela rovinosa. Diventa infatti il pretesto per infamare una figura rispettabile, eppure odiosa. Coleman infatti è apparentemente inserito nella convenzionalità - un distinto accademico, benestante, una famiglia numerosa, un aspetto piacente, un fisico ancora agile - eppure è scomodo, all’interno della comunità. Perché eccessivamente brillante, una sorta di despota, dalla mente tumultuosa. Ha trascinato fuori dalle secche intellettuali il campus, tagliando via i rami secchi (licenziando le cariatidi nullafacenti). Ironicamente potremmo dire, per usare un termine logorato dalla cronaca politica, che la sua opera di rottamazione ha fatto esplodere un sistema farraginoso per inaugurare un nuovo corso, più meritocratico, più dinamico. Un professore tanto illuminato quanto detestabile, per la sua arroganza, i suoi azzardi, la sua titanica personalità. 
L’accusa di razzismo non cadrà immediatamente - come vorrebbe il buon senso - nessuno infatti si schiererà apertamente dalla parte di Coleman che così dovrà sottostare a dei processi farsa, interrogatori, indagini interni al campus che sono più una beffa che una condanna. L’intento dei colleghi non è quello di rovinarlo bensì di mantenerlo sulla graticola, di vederlo rosolare, che mostri un po’ di umiltà. Ma Coleman Silk non riesce ad accettare l’onta subita, e proprio quando tutti stanno per dimenticarsi del piccolo scandalo, il professore decide di dimettersi, ritirandosi in uno sdegnoso e rabbioso esilio. Due anni dopo, riesce a liberarsi del rancore che l’ha quasi soffocato, abbandonandosi ad una relazione con Faunia, una silvestre creatura di trentaquattro anni, che risveglia una forza invisibile ed incontrollabile, quasi più dell’odio che per anni lo ha imprigionato: il desiderio. Il perbenismo della piccola comunità lo attacca nuovamente con ferocia accresciuta. Ogni atto commesso da Coleman sembra suscitare una condanna, ormai è macchiato, è l’appestato con la campanella.  


In un primo momento, dunque, la tenzone interna alla narrazione è tra la libertà dell’individuo (specialmente l’individuo eccezionale) di affermarsi con tutto il peso della sua persona (è interessante il fatto che in latino persona voglia dire maschera, ma ci torneremo dopo) al di là della morale comune, al di là delle etichette di giusto e sbagliato (spesso non coincidenti con bene e male) e la brutalità, la forza schiacciante della società che tenta di ricondurre la volontà particolare alla cieca volontà generale della storia con i suoi meccanismi culturali disciplinanti e disciplinati. 
Coleman è scandaloso, Coleman va punito. Questo professore che non si rassegna, che vuole smaccatamente vivere al di fuori della decenza.   





Da un lato, abbiamo la raffigurazione di questi grandi narcisi con la loro fitta retorica del sé e i loro slanci virtuosistici della Parola e dell’ingegno. Dall’altro abbiamo un continuo infierire su di loro con le armi affilate della calunnia e del pettegolezzo e il conseguente disonore per il nostro protagonista. Le personalità formidabili si ricollegano ad un elemento fondante della società americana: l’individualismo. Un individualismo però sempre teso come un dardo verso una realizzazione del sé, frustrata dal perbenismo e dall’ipocrisia della comunità.  
Non cedete all’autoinganno, non fatevi stregare dal fingitore. Non è un duello ad armi pari. Non c’è una vittoria morale dello spirito del protagonista, superuomo che si rivale sulla grettezza e la mediocritas della società americana. 
La grande lezione di Roth è che tutta la grande importanza data alla personalità, all’individuo, è infine sempre sbilanciata (a suo sfavore) dal memento riguardo la sua insignificanza. “Non eravamo più romanzeschi di quanto gli animali fossero mitologici o impagliati”. 






Il discorso di Roth non si limita a criticare quel costrutto per cui “tutti sanno”.  L’inconscio collettivo, quella lava vischiosa di pregiudizi e ideo precostituite che abbiamo sull’umanità. Perché un vecchio di settantuno anni non si vergogna di andare a letto con una illetterata bidella di trentaquattro? La donna sarà certamente vittima di  una manipolazione, di uno sfruttamento. Perché un professore non porge delle scuse ufficiali a due studenti di colore che ha denigrato verbalmente? è un razzista, è un arrogante tiranno. Ripeto, Roth non si limita a ribaltare quel “tutti sanno” in “nessuno sa” e a dileggiare la presunzione di avere qualcosa in più di una conoscenza parziale, fallace di ogni individuo. In altre parole, il protagonista non è un agnello sacrificale. Coleman Silk non è il fulmine che spezzerà la quercia della tradizione - per usare una metafora dell’epica lucanea - e per questo condannato come moderno Cesare, pagando il dazio della sua eccezionalità. 
Se fosse così il romanzo si sarebbe rivelato soltanto interessante, il classico, confortante relativismo zoppo sulla società meschina e il suo Ercole frustrato dalle invidie. Questo tipo di romanzi che siamo abituati a leggere troppo spesso non arriva ad abbracciare una visione più ampia. Se vogliamo scomodare un eroe, mettiamo in gioco Icaro, più che Ercole. 
Infatti, il romanzo trova la sua forza nella natura paradossale del protagonista. L’ambiguità si gioca a più livelli. Abbiamo visto che il protagonista è già sdoppiato in uno scrittore (Nathan Zuckerman, protagonista ricorrente nei romanzi di Roth ed ennesimo suo alter ego). Quel che non sappiamo è che il protagonista custodisce un segreto molto ingombrante, una sorta di identità negata. Un ennesimo sé, sebbene sia un sé rinnegato. In altre parole, più scaviamo, più vediamo la macchia di Coleman. La vera macchia, non quella fasulla, appiccicatagli addosso dalla società ma quella inconfessabile, il segreto ignominioso che Coleman non può rivelare.
Il paradosso non sta nel fatto che una parola così piccola e anche un po’ ridicola - spooks - possa generare una valanga di conseguenze spiacevoli ma nel fatto che l’unica verità che può riscattarlo pienamente dall’accusa, è impossibile da pronunciare perché cela una vergogna molto più grande. 
Riflettevamo prima sulla persona. In latino, il termine è strettamente connesso al volto, tant’è vero che etimologicamente possiamo risalire al significato di “individui mascherati”. Ebbene, il volto che Coleman mostra  è sempre una costruzione, sempre una maschera. Che libertà c’è nel nascondersi? 
Il paradosso è ovunque in questo romanzo. Non si ferma all’ambiguità del linguaggio - la lingua biforcuta di cui parlavamo prima - ma si insinua ad ogni strato. è paradossale il modo in cui tutti credano - in maniera quasi inconscia - alle calunnie sul conto di Coleman, persino i suoi figli. Lo sforzo fatto per educarli, per trasmettergli tutta quella cultura, comprensione e tolleranza, risulta vano. Sono disposti a credere alle più fuorvianti sciocchezze sulla vita del padre “come se fosse una soap opera vittoriana”. La fragilità del buon senso contro forze più grandi di noi, forze dell’inconscio, il nostro “sentire comune”. La febbre del pettegolezzo che contagia anche gli animi più saldi, quella presunzione di conoscere il prossimo, le sue gioie ma ancor di più le sue nefandezze. "Tanta istruzione non serve a nulla, nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero". Quel “tutti sanno” che in realtà è sempre “nessuno sa”.  
Il paradosso sta nel fatto che tutti condannano Coleman per le ragioni sbagliate, e la frustrazione è maggiore. Forse la pena risulta doppiamente atroce per Coleman proprio perché è schernito da ragioni misere e grette, anziché essere smascherato per la sua vera empietà. Perché nessuno conosce la vera macchia di Coleman. A questa paradossale miopia della società corrisponde invece la lucida e precisa prospettiva multifocale di Roth che ci offre una varietà di personaggi e di punti di vista, la molteplicità e l’ambiguità dei loro desideri. Roth profana il mito della purezza e del decoro. Ci mostra le nostre eresie, i nostri sotterranei illeciti, la nostra inevitabile corruzione. 






Avvertenze, parte seconda 
Da qui in poi consiglio la lettura solo alle persone che hanno letto il romanzo, sebbene io ritenga davvero una sciocchezza leggere Roth preoccupandosi di eventuali “spoiler”. Sarebbe come precludersi di leggere Anna Karenina perché sai già che fine farà la fiamma della candela(1) 

Non si può giudicare il romanzo prescindendo dalla Grande Bugia di Coleman perché essa è lo specchio che riflette tutta l’azione del protagonista. è una strana legge del contrappasso. Coleman si arruola nei Marines fingendosi ebreo, un ebreo bianco. Un nero che non può aspettare che la società sia pronta per accettarlo, che vuole “forzare la serratura del meccanismo” della storia, che vuole piegare quel grande dispositivo disciplinante che è la società, inserendosi a forza in una categoria “giusta”, rispettabile, decorosa. 



L’iconoclastia di Coleman Silk arriva a rinnegare la sua famiglia, la sua stessa madre per sviluppare il suo io, in piena libertà. Comprendiamo Coleman. Ma il suo gesto è eroico? Forse è tutto qui il romanzo di Roth: "l’indivisibilità dell’eroismo dalla vergogna". La sua potrebbe sembrare una giustizia riparatrice (ai suoi occhi, certamente lo è). Potrebbe sembrare legittimo sfuggire ad una categoria per sviluppare la sua piena personalità. Ma innanzi tutto ci si può chiedere, quale persona si sia formato Coleman, balzando metaforicamente fuori dalla sua pelle originaria. Ha sviluppato il suo vero sé al di là dei pregiudizi della società o ne ha soltanto creato un altro, per quanto inattaccabile  nella sua versione rispettabile? Il Coleman nero e il Coleman bianco, chi dei due è quello più valido o meno valido? Dopo anni trascorsi nella convenzione, il professore bianco ebreo - per lungo tempo auto assoltosi - viene improvvisamente ricatturato dal meccanismo della storia, di cui siamo prigionieri. Viene colto in fallo da una parola - o meglio, dal suo significato contingente, storico, gergale -  e per ironia della sorte viene accusato di razzismo. Proprio lui, che è nero, che ha fatto di tutto (persino l’inimmaginabile Rifiuto della Madre) per sfuggire a quel pregiudizio che ora gli rinfacciano! Tanto più minuscolo è l’errore, tanto più rovinoso il suo fallimento. 
Siamo "bestie carnali" immerse in un gioco beffardo, da cui è impossibile esimersi. L’estenuante sforzo di Coleman, la sua smania di liberarsi da quel “noi” di appartenenza alla cultura afroamericana, alla sua negritudine, è annullato da una parola (che è naturalmente solo la miccia). In altre parole, la brutalità del tempo presente - della storia che ancora non è storia - è di mille volte superiore alla nostra, seppur eccezionale, individualità e ai suoi tentativi di elevazione. E qui ritorniamo all’inizio, al primo punto, al gioco alla fune tra l’individuo (il suo narcisismo, la sua ambizione di forgiarsi uno storico destino) e il costante monito alla sua insignificanza. "La libertà è pericolosissima, e non esiste nulla che rispetti per molto tempo le tue condizioni".  Quel “Noi” da cui Coleman vorrebbe sfuggire, non permette fuga alcuna. 

Un ultimo spunto di riflessione appare d’obbligo. Con tutti questi interrogativi sulla verità, sulla storia e le sue convenzioni, sulla fallacia del sapere, del linguaggio e della parola - c’è una bellissima citazione da poter sfoderare ad una cena che è questa: “la verità sul proprio conto non è conosciuta da nessuno e spesso meno di tutti da se stessi” -  che via d’uscita c’è, se c’è?  

Prima abbiamo parlato di prospettiva multifocale, a proposito di come Roth voglia renderci partecipi dei retroscena, di più personaggi, non solo il traditore della razza, il figlio senza cuore, il grande narciso Coleman. Per ciò quello di Roth aspira ad essere un romanzo totale (vd. punto tre delle avvertenze iniziali), non tanto impegnato nella vertigine della lista che sembra la smania del nostro tempo (sono piuttosto ambivalente su questo punto perché amo Donna Tart ma detesto Murakami e Jumpha Lahiri - ci sarebbe da aprire un’altra parentesi ma sono clemente). Bensì nel restituirci un’immagine il più possibile meticolosa e nitida della multiforme natura della vita. Tutto questo spiegare incessantemente fin nel più piccolo dettaglio ogni svolta del labirinto della mente dei personaggi, come possiamo definirlo se non totale?
Su tutto per altro domina una vena d’umorismo, da giocoliere relativista che salta continuamente tra ciò che è rivelabile e ciò che non lo è. La letteratura quindi è testimone fedele e inaffidabile, allo stesso tempo. Non è certamente consolatoria ma anzi pone un argine al nichilismo perché si spiega, è il mezzo di rappresentazione del sé meno indulgente, più spietato. L'arte che si avvicina di più a scoprire se dietro le mere azioni, dietro i fattori sociali che ci definiscono, c’è ancora spazio per pensare all’individuo come qualcosa di separato da tutto questo. E per pensare alla “vita come un concetto il cui fine è nascosto”, sfuggente. 
Infine, “su tutte le nobili giustificazioni, cala il martello di Faunia”.
Se c’è qualcosa che può salvare Coleman, che può ridargli dignità e senso, è il desiderio, l’unica forza incontrollabile e tumultuosa che si può opporre al logorio del rancore. Roth d’altronde decide di chiamare questa caricaturale salvatrice, Faunia, come il fauno/satiro della mitologia antica, simbolo del vitalismo, della frenesia e dell’ebbrezza dei sensi. Tanti sono i richiami al mondo classico (Coleman è un professore di letteratura latina e greca) ne La macchia umana, che può essere in un certo senso definito una tragedia postmoderna (2), libertina, indecorosa, nell’accezione più bella del termine. “Ha qualcosa in comune con l’Iliade, libro preferito di Coleman sullo spirito barbaro dell’uomo”.

Insomma, ho detto molto ma non è ancora abbastanza esaustivo come commento per un romanzo di tale portata, davvero magnifico. Dopo questo primo round, mi aspetta Goodbye Columbus e poi molti altri ancora. Non ho nessuna intenzione di uscire dall’uragano Roth. 

NOTE:
(1) Un mužicjòk, dicendo intanto qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.
(2) "Il grande dramma dell’uomo che è saltar su e andarsene. Per diventare un nuovo essere umano. Per biforcarsi". 

giovedì 26 marzo 2015

La verità capovolta, Jennifer duBois



Ma quanto è brutta la copertina italiana?

"Da bambino era stato paziente con le domande, sicuro che un giorno sarebbero arrivate le risposte. E adesso che era cresciuto si voltava a guardare e ritrovava tutte le domande là dove le aveva lasciate: coperte di polvere, forse, ma straordinariamente ben conservate. Le domande duravano più di ogni altra cosa, in realtà; le domande e gli oggetti. Tutto il resto andava verso la distruzione". 


Se il romanzo d'esordio della scrittrice ("Storia parziale delle cause perse") rappresenta l'esempio di una narrazione eccezionale  - soprattutto, ma non solo - per merito della storia, la seconda opera della Dubois ("La verità capovolta") è un libro sorprendentemente ben riuscito nonostante la storia. 
Un episodio di cronaca nera è l'ispirazione per il romanzo, un caso di omicidio piuttosto conosciuto e sfruttato in tutti i modi possibili (dal becero intrattenimento televisivo al sensazionalismo della stampa, al libro verità, al docu-film ecc..). La scelta,  all'apparenza molto scaltra, di riaccendere i riflettori sul delitto di Perugia, l'omicidio di Meredith e il conseguente circo mediatico su Amanda Knox, ricade invece nella categoria: mancanza d'immaginazione. Non che un omicidio non sia interessante. Tuttavia la scelta di questo particolare caso non può che evocare l'immagine di una carogna servita ad un sontuoso ricevimento. Lo spettro del cattivo gusto aleggia su questo romanzo, soprattutto in virtù del fatto che è stato riaperto il processo (e sta per giungere una sentenza proprio in questi giorni!). La letteratura certamente non deve avere argomenti tabù. Eppure non si può dire che la duBois provi a ribaltare certe bassezze compiute all'interno della narrazione dei media tradizionali: lo strisciante sessismo, l'elemento scabroso, la morbosità del connubio erotismo e violenza. 
La cronaca nera gioca da sempre sul giudizio preventivo, sull'apparenza, sul processo alle intenzioni, sul "mai chiarito", che però non è una categoria del pensiero ma un pretesto per poter scegliere da soli il proprio colpevole, il proprio movente, la propria preferenza. 
La duBois è infinitamente più raffinata del grossolano e crudele carosello mediatico. Sì, condanna la superficialità dei giudizi, il cannibalismo dei sentimenti, la parzialità delle storie. Ma in fondo fa tanto meglio? Il suo romanzo è un gioco: sulla fallibilità delle percezioni, sulla verità, sulla psicologia di personaggi nebulosi(forse fin troppo), cerebrali, annosi. Ed ecco perché si resta tanto male alla fine. La desolazione delle ultime trenta pagine ci sorprende e mal si adatta al resto. Tutto il romanzo è ludico, enigmatico, quasi mai drammatico. Siamo affascinati, mai pienamente coinvolti. Capiamo Lily,  apprezziamo il suo carattere ambivalente, egocentrico e inconsapevole, di un’inconsapevolezza fatale che ti porta a cacciarti nelle situazioni più spiacevoli per quell’assurda convinzione che il male non ti tocchi.  Sviluppiamo empatia, soprattutto perché sappiamo che Lily è una persona come noi, reale, possibile, complessa.  è una ragazza che fa la ruota durante un interrogatorio.  Il perché però è lasciato all’interpretazione. Questo è il problema. Il fatto che nel romanzo della duBois, esattamente come in un servizio di cronaca nera trasmesso al telegiornale, tutto si trasformi alla fine in un gioco delle parti. E ti senti anche tu uno spettatore idiota che magari ci ha creduto alla buona fede del sospettato x e invece che peccato dovrai pagare la scommessa al tuo barbiere che invece aveva puntato sull’altro, quello innocente. 
Il punto è che non c’è una morale più profonda di questa. è un romanzo straordinariamente buono nella misura in cui tutti i personaggi hanno una voce distintiva, bella, potente. è un romanzo riuscito perché nonostante la storia si trascini più del dovuto verso volute davvero non necessarie, resti lì a leggere perché la duBois è così brava nell’avvincere il lettore alle sue parole, così lontane dall’ordinario, dal prosaico. è un bel romanzo perché ti lascia sperare che ci sia qualcosa di più rispetto al gioco vero/falso e in effetti c’è: nel groviglio di storie e ricordi e malinconie che sparpaglia intorno la scrittrice, nei dettagli sommersi del resoconto dei personaggi. Al centro però c’è una storia evitabile, brutale senza essere null’altro che questo. 

Il finale è doppiamente malvagio: da un lato, ti fa stare male quasi fisicamente perché hai vissuto nella mente di personaggi brillanti ma non così tanto da sfuggire alla bestialità del mondo. Dall’altro, ti lascia l’amarezza di  aver letto un romanzo di una brava scrittrice che ha deciso di prendere una scorciatoia.  No, non ci sono beceri colpi di scena o scivoloni disastrosi ma rimane un romanzo che sfiorisce in fretta. 

Note a margine: titolo in italiano decente, peccato che in inglese il senso è decisamente meno banale e si riferisce alla ruota che la protagonista esegue mentre è interrogata dalla polizia. Gesto che getta sospetti e ambiguità sulla protagonista: fredda calcolatrice o ingenua vittima delle circostanze?
La copertina italiana invece non mi piace, la trovo asettica. Molto meglio l'originale.


sabato 20 dicembre 2014

Consigli per non rovinare il Natale ad un Lettore





















Lo scorso Dicembre ho stilato una lista di romanzi che avreste potuto regalare o farvi regalare (celando in ogni pertugio delle dimore di potenziali benefattori bigliettini con titoli scarabocchiati a penna rossa, in stampatello). In molti condividiamo il dramma della sindrome del lettore sotto le feste. I sintomi sono: ansia, possibili eruzioni cutanee, sudorazione eccessiva, scatti d'ira e depressione post scartamento. La nostra condizione di lettori ci condanna a ricevere qualsiasi cosa abbia una forma quadrata o rettangolare, con dentro pagine e inchiostro. Purtroppo nella categoria rientrano fin troppi libri e, ahimè, nessuno dei vostri desiderata finirà tra le vostre mani a meno di un'esplicita richiesta. Il motivo è inspiegabile ma ciò non smentisce il teorema. L'unica soluzione è immettere nella vulgata delle vostre cerchie i romanzi davvero belli, e non solo Veronika decide di morire, che non è nemmeno di buon auspicio, per altro. Condividiamo allora le irresistibili liste di Natale. Chi non le ama? Possiedo un taccuino solo per stilare liste. Cose che non farò mai, viaggi che non farò mai, vestiti che non indosserò mai e soprattutto libri che mi aspetto di ricevere a Natale, questa volta però non è detto che il messaggio non arrivi a destinazione.
Quali sono le vostre wishlist natalizie? Condividetele sui vostri social network, in modo che finalmente abbiano (forse) una reale utilità e non solo quella di farsi rimorchiare dai cinquantenni con famiglia.
Buone feste, cari e grazie del supporto che ormai mi date da più di anno (sic!).

Qui trovate il post dell'anno scorso (nel caso vogliate più titoli tra cui scegliere) qui e qui invece trovate le mie wishlist anobi e pinterest (il sito in cui il tempo è immobile e da cui, una volta entrati, è quasi impossibile riemergere).


sabato 24 maggio 2014

W la trance! - L'armata dei sonnambuli o lo leggete o sbrisga.

Con "L’armata dei sonnambuli" i Wu Ming hanno portato a compimento la pluridecennale riflessione sulla rivoluzione e il potere che da sempre ha contraddistinto i loro romanzi storici.
Il discorso si era aperto con Q, ambientato nella tempesta delle guerre di religione e della riforma protestante del Cinquecento, ed è proseguito con altri romanzi, tra cui Manituana in cui è narrata la guerra tra i rivoluzionari delle colonie americane e i lealisti inglesi, dal punto di vista dei nativi (e di cui troviamo un’eco proprio nell’Armata). 
L’ultimo romanzo invece abbraccia quella che per noi europei è forse il più romantico e terribile dei rovesciamenti storici: quello francese. Quando pensiamo alla rivoluzione, immaginiamo la testa di Luigi che cade per mano della ghigliottina. O a Lady Oscar. 
Come decidono di raccontarci questo sconvolgente spartiacque storico i Wu Ming? 

Come se fosse un’opera teatrale.

“I parigini erano sempre interessati al teatro, ma il teatro era divenuto grande quanto Parigi (…) Gli spettacoli più emozionanti erano quelli dove la gente perdeva la testa per davvero, i cannoni tuonavano e poteva capitare, da un momento all’altro, che gli spettatori si trovassero a recitare”.

La narrazione è divisa in cinque rocamboleschi atti. L’espediente drammatico è efficace soprattutto a mettere in luce il binomio politica-spettacolo che avvelena la nostra contemporaneità: 

“Questi politici si alzano sui banchi per i loro discorsi come un attore calcherebbe le scene. Per loro il popolo è un pubblico, nient’altro”.

Tuttavia i veri protagonisti della rivoluzione non sono i vari Robespierre, Marat, Desmoulins, Danton - i cui volti ci adocchiano dalle pagine dei libri del liceo - bensì personaggi che stanno all’ombra della storia.
Sul palcoscenico de “L’armata dei sonnambuli”  il popolo non è affatto uno spettatore. Leo Modonnet, attore bolognese dalla scarsa fortuna in Francia, decide di indossare la maschera di Scaramouche, diventando così un Batman ante litteram. L’Ammazzaincredibili - che parla per allitterazioni e assonanze come V da V per Vendetta - il vendicatore del popolo, metterà in scena delle maldestre aggressioni (il superomismo di stampo machista va sempre un tantino sbeffeggiato) a danno dei muschiattini, controrivoluzionari monarchici e reazionari, la cosiddetta gioventù termidoriana. 
Ma forse il cuore del romanzo, al di là degli aspetti scenografici, è un’altra popolana: Marie Nozier, orgogliosa sarta dal foborgo giacobino di S. Antonio, ferrea paladina della rivoluzione che si arruolerà persino con le amazzoni di Claire Lacomb. Marie non ha maschere a proteggerla, è una disgraziata eroina (e “una pessima madre”) a viso scoperto. Lotta rischiando di perdere tutto. Una combattente amareggiata, dai modi bruschi, dal carattere difficile. Ma pur sempre una formidabile guerriera.  
Centrale nel romanzo dei Wu ming è la ferocia e la potenza dei moti dal basso. In barba a chi ha rivalutato come rivoluzione borghese l’evento straordinario che fu quella marea che si sollevò nel 1789, i Wu ming rivendicano la forza della spinta popolare, le azioni di personaggi umili. Anche proprio laddove le aspettative del popolo sono state disilluse e frustrate. La rivoluzione francese in parte fu un fallimento. Ma se i Wu Ming non si astengono dal tratteggiare una rivoluzione fallita ( senza tralasciarne tutte le lacerazioni e i compromessi e le trappole in essa insiti), non rinunciano ad un concetto di lotta vivo, più vivo che mai. E L’armata dei sonnambuli è un romanzo che parla soprattutto di Resistenza contro il potere.

“Perché a rifletterci bene, Leo doveva ammettere che la sua era una partita privata. Non era la rivoluzione ad averlo deluso, come era capitato a tanti, ma la vita stessa (…) Chissà se esisteva un destino fissato negli astri. Chissà quale finale l’Essere Supremo aveva in serbo per lui. La coscienza gli diceva che non sarebbe stato nulla di buono, ma la testacea ribatteva che il colpo andava restituito e doveva essere all’altezza di quello subito. A buon gatto, buon ratto. Alla battuta dell’antagonista, il protagonista doveva rispondere riprendendosi la scena”. 

I Wu Ming, come sempre, sono abilissimi nell’estrarre dalla lezione del passato, nuove sfide per il presente. 
Ho immediatamente associato Marie ad un’altra donna combattente, protagonista del romanzo di un altro collettivo di scrittori, “In territorio nemico”: Adele, prima operaia e poi gappista negli anni della Resistenza. 
Due figure di donne che lottano, entrambe presenti in due romanzi contemporanei (recentissimi, tra l’altro) che reinterpretano il passato in chiave attuale. Un segnale importante che vede emergere una serpeggiante tensione rivoluzionaria in Italia. 
Il soggetto de “L’armata dei sonnambuli” è la rivoluzione francese ma potrebbe essere anche la Russia, l’Italia degli anni 70’, la lotta no tav. Qualsiasi scenario di sopraffazione che renda necessaria una risposta altrettanto forte, altrettanto decisa.  
Significativo il fatto che il popolo intervenga in prima persona, il soggetto collettivo s’inserisce nella narrazione come un coro greco, alternandosi alle gesta dei protagonisti. 

Ma non c’è solo il popolo vessato, anche la borghesia gode di rappresentanza. Una borghesia illuminata, dal volto ideale, che collabora con la collettività per una causa nobile e giusta. Il medico D’Amblanc, con il corpo (ma soprattutto la mente) tormentati da ferite di guerra, è un magnetista che si mette al servizio della Rivoluzione. Il suo compito è quello di stanare una potenziale fazione di magnetisti controrivoluzionari. I Wu Ming usano, per mettere in scena l’altra faccia della rivoluzione (quella reazionaria e monarchica) il mesmerismo, che ha agito dietro le quinte della rivoluzione. Una scelta coraggiosa che avvicina il romanzo al filone fantasy. 

Il magnetismo animale è infatti soggetto ad una duplice interpretazione: o come un vero e proprio incantesimo o in chiave razionale come una sorta di ipnotismo (e appunto i sonnambuli del titolo sono sprofondati in un sonno indotto). Il conflitto messo in scena è quello tra un mesmerismo democratico e razionale, che segue i principi dell’illuminismo e dell’etica (quello di D’Amblanc) e dall’altro lato un mesmerismo totalitario, usato per raggiungere scopi personali e che non tenga minimamente in considerazione la volontà dei sonnambulizzati, trattati alla stregua delle bestie (quello del misterioso villain del romanzo, dall’identità fittizia). 
Il magnetismo diventa quindi un’ottima metafora politica, una riflessione sempre attuale sugli abusi del potere e sulla libertà. Non è forse un caso che le vittime del magnetismo scellerato siano rappresentati nel romanzo per lo più da bambini, per sempre danneggiati e irrimediabilmente corrotti da una volontà fascista e brutale.  

L’indagine di D’Amblanc non avviene nella tempestosa Parigi - come invece le parallele azioni di Leo e Marie - ma nella provincia francese, attraverso paesaggi ostili e terrificanti. Queste sono forse le ambientazioni più cariche di fascinazione, che risentono di un’evidente influenza horror (che l'armata del titolo non sia forse "l'armata delle tenebre?) che insieme al filone magico (e abbiamo visto prima l’universo fumettistico dei supereroi) rendono il romanzo un’opera contaminata e stratificata, ricca di riferimenti alti e bassi, dalla cultura pop alla letteratura, alla documentazione storica. Tutto può entrare nella narrazione. E lo fa in maniera credibile. Il genere diventa uno spazio aperto, senza limiti. 
La lettura diventa così un processo attivo, un atto di partecipazione. Leggendo un romanzo dei Wu Ming siamo continuamente investiti da una sensazione di deja vu perché gli scrittori ci colpiscono con simboli (da loro rielaborati) del nostro immaginario, che ci invitano a riconoscere. Non è solo un gioco letterario, un carosello di citazioni. è un modo di concepire l’opera letteraria come “aperta”, dinamica, viva. 
Il tema della libertà e della democrazia dall’intreccio si estende e ingloba lo stesso concetto di romanzo. 
Si prenda ad esempio l’atto quinto. Il “come va a finire” potrebbe trarci in inganno. All’apparenza potrebbe sembrare un epilogo. Oppure un elenco di fonti. Si attiva un processo di straniamento nel lettore. Come è possibile che un “atto” dello spettacolo sia dedicato ad un barboso elenco di documenti? Eppure non è affatto così. L’atto quinto rappresenta un “oggetto narrativo non identificato”. Un’ibridazione (l’ennesima) della narrazione, al di fuori di essa ma allo stesso tempo parte di essa. I personaggi sono sottoposti ad esame. Quali tra le informazioni che ci danno gli scrittori sono vere e quali false? L’atto quinto preannuncia un atto sesto. Un atto che dovrà essere scritto dal lettore. L’armata dei sonnambuli non finisce, le sorti dei personaggi sono lasciate nelle mani di chi le vorrà reinterpretare. La Storia e le storie non muoiono mai, fin quando ci sarà qualcuno pronto a farle rivivere. 



Il "vasto palcoscenico rivoluzionario della Francia" che hanno allestito i Wu Ming è formidabile. Francamente irresistibile il vortice di personaggi e situazioni che ti trascinano per pagine e pagine, senza requia. Si passa dal tragico al farsesco, dal turpiloquio popolare alle inclinazioni filosofiche degli scenziati magnetisti, dai comunicati ufficiali della Convenzione alle epistole familiari. Sanculotti, brissottini, girondini, controrivoluzionari, patriote repubblicane divise in brigate, amazzoni e pesciare che se le danno di santa ragione.
“L’armata dei sonnambuli” riesce ad essere popolare, leggero e accattivante e nello stesso tempo crepato, bombardato da interrogativi sulla storia e sulla vita. Esattamente come i suoi eroi. Sgangherati, disfatti, amareggiati. Eppure combattivi. A buon gatto, buon ratto o sbrisga.    


“La rivoluzione, diceva, è come quei mazzi di carte da gioco dove re, dame e cavalieri son divisi a metà, una diritta e l’altra rovesciata, testa insù e testa dabbasso, giri e rigiri la carta ma cambia un cazzo, il re che sta diritto è sempre insieme a quello capovolto, che è come se gli tirasse il ghignone, come se da sotto gli dicesse: “Io sono te che vai a finire male”! Goditela finché puoi, perché il mondo si arbalta” 



martedì 14 gennaio 2014

L'omonimo di Jhumpa Lahiri: prima delusione dell'anno

Quest’anno ho deciso di non fossilizzarmi sulla letteratura americana, tendenza di cui penso vi siate accorti tutti. Così ho deciso di ampliare i miei orizzonti, leggendo un romanzo di una scrittrice di origini bengalesi, nata a Londra ma cresciuta negli Stati Uniti: Jumpha Lahiri. Vincitrice del premio Pulitzer nel 2000 per la sua raccolta di racconti “L’interprete dei malanni”, è una delle autrici americane più apprezzate. Come dite? Ah, dovevo allontanarmi dallo scenario statunitense? Un passo alla volta, ragazzi. Un passo alla volta. 



Recentemente soprattutto in Italia si è parlato molto di Jhumpa. La scrittrice infatti si è trasferita a Roma nel 2012 (parla molto bene italiano, tra l’altro) ed è da poco uscito, edito da Guanda, il nuovo romanzo “La moglie”, che pare essere il suo miglior lavoro

Tuttavia, spinta dai riscontri più che positivi e sicurissima di dover recuperare tutta la produzione della scrittrice, ho deciso di iniziare dal suo primo romanzo: The namesake, che ho letto in lingua originale. In Italia “L’omonimo” è edito da Marcos y Marcos (se bazzicate i mercatini dell’usato e siete molto fortunati dovreste riuscire a trovare anche un’edizione Guanda, ormai fuori commercio). 




Credo che qualcuno più furbo di me, avrebbe iniziato dall’opera con cui ha vinto il Pulitzer. E avrebbe fatto bene. Se una scrittrice è acclamata per le sue short stories, perché leggere il suo primo romanzo? Già perché? L’omonimo per me è stata una lettura davvero deludente. 

Il romanzo è incentrato sulla lotta di una coppia bengalese che emigra negli Stati uniti e forma una famiglia in un ambiente per loro sconosciuto e in cui si sentono spesso fuori posto. Ashima e Ashoke, uniti da un matrimonio combinato, danno alla luce un figlio che per una serie di circostanze ed inconvenienti, viene chiamato Gogol, come lo scrittore ucraino. Per il padre infatti il nome di Gogol assume una valenza emotiva speciale, di cui però Gogol resta all’oscuro. Crescendo egli comincerà a sentire il peso di questo nome così bizzarro che non percepisce come proprio e che rappresenta anche il simbolo di un passato (quello di suo padre e quello dello scrittore) che egli non comprende e non accetta. Il conflitto attorno al nome diventa una ricerca della propria identità, del proprio scopo, della propria appartenenza. Come il romanzo della Selasi, L’omonimo - scritto nel 2003 - è un romanzo potenzialmente cosmopolita e ricco di tutti quei temi sull’incontro-scontro tra le varie culture nella società globalizzata e soprattutto negli Stati Uniti, melting pot di tradizioni. 
L’idea del romanzo (e badate bene, l’idea) ruota non solo attorno al conflitto tra il nome e l’identità, ma è anche il conflitto tra due culture, quella americana in cui Gogol si sente perfettamente a suo agio e quella indiana a cui sente di non appartenere ma che non può rinnegare, soprattutto per il senso del dovere che ha per i suoi genitori. 



La trama e il substrato del romanzo sono assolutamente promettenti e ambiziosi. Il problema però è che tutti questi temi sono sbiaditi. L’impressione viva che si ha durante la lettura è quella dell’attesa. Attesa di una svolta. Si ha la perenne sensazione di star leggendo un’introduzione mastodontica ad un bellissimo romanzo che non arriverà mai. Da cosa è causato questo turbamento? Indubbiamente dalla struttura del romanzo. La narrazione è tutta (e quando intendo tutta, intendo per intero) sviluppata attraverso il discorso indiretto. Un’intera vita (quella di Gogol), dalla nascita all’età adulta, raccontata attraverso quelli che - ahimè - mi tocca definire riassunti. 
I dialoghi sono un miraggio lontano, le interazioni tra i personaggi sono rare e poco esaltanti. In compenso abbiamo un ingorgo di informazioni. La Lahiri mi ha dato la sensazione di essere una scrittrice molto “materiale”. Sono descritti con grande dovizia di particolari gli oggetti che arredano gli ambienti, i vestiti che indossano i personaggi, i colori e gli odori. Per quanto riguarda la natura umana, invece, niente di pervenuto. A parte un sottilissimo involucro superficiale. 
Posso comprendere una scelta stilistica di questo tipo. La Lahiri vuole sottolineare la difficoltà del protagonista (Gogol) a trovare una sua identità, la sua distanza dai genitori, i suoi sforzi per cercare di connettersi ad una realtà che gli sembra aliena. Ma tutto questo non è mai sublimato da immagini forti, potenti. A livello stilistico non comprendo la necessità di mettere ogni singolo dettaglio della sua vita sotto forma di riassunto. Per esempio: ci sono diverse relazioni che il protagonista intreccia con delle donne ed esse appaiono talmente superficiali - per come sono narrate, non per la natura del rapporto - che ci si chiede dove si stia andando a parare. Mi sembra che i temi siano stati indeboliti da questo continuo spostare l'attenzione su dettagli e descrizioni molto fredde e prosaiche. L’interiorità del protagonista non è sublimata dalla narrazione che invece è per una buona parte piatta e cronachista. Si è persa così gran parte dell’emotività del romanzo che infatti risulta asettico e pedante.
Il romanzo per me è debole e poco incisivo. è scritto bene ma non benissimo, la storia è interessante ma non eccezionale. Non è brillante, gli manca slancio creativo. Nonostante ci siano degli sparuti scorci di sapienza narrativa - come la ricorrente immagine-simbolo del treno e i riferimenti a “Il cappotto” di Gogol - essi sono insufficienti a risvegliare l’emotività del lettore.


La parte più gradevole risulta quella iniziale, la storia di Ashima infatti è quella che possiede più cuore e vitalità. Non è un caso che la Lahiri abbia ripreso questo nucleo tematico - che è quello che effettivamente le risulta più congeniale - nel suo ultimo romanzo che, nonostante tutto, voglio leggere: “La moglie”.  
 


giovedì 5 dicembre 2013

La bellezza è crudele. Dio di illusioni, Donna Tartt.

La letteratura è più efficace di un’arma da fuoco. Un proiettile segue una traiettoria breve. Colpisce in un istante. Ultimata la parabola, si conficca nel bersaglio e perde la sua efficacia. La letteratura invece ha un raggio d’azione potenzialmente infinito. Donna Tartt, ad esempio, nel 1992 ha scritto il suo Dio di illusioni (titolo originale: The secret history) e oggi nel 2013 le sue parole come frecce scagliate da un altrove lontano, hanno raggiunto e colpito il mio petto. Il potere strabiliante delle idee. 
Dio di illusioni è un romanzo formidabile. La storia è un susseguirsi di rivelazioni, ma non come potrebbe accadere in un thriller. La narrazione piuttosto si avvicina agli schemi della tragedia greca. E il dio di illusioni del titolo è proprio il dio greco Dioniso. “Maestro d’illusione, rende capaci i suoi devoti di vedere il mondo come non è”. 




La vicenda è ambientata in un elitario college nel Vermont in cui si reca Richard Papen, squattrinato e inquieto giovane, narratore degli eventi. Si lascerà affascinare da un gruppo di cinque brillanti ed eccentrici studenti di greco antico e dal loro professore, Julian, un esteta che esercita sugli allievi una forte seduzione spirituale. Julian contagerà i giovani discepoli con la sua passione per quel mondo antico e misterioso. Un mondo in cui l’irrazionale, il dionisiaco non erano tabù. “È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?”. Ma instillare queste idee di superamento del reale, in giovani ricchi e annoiati che si sentono onnipotenti non si limita ad essere una dissertazione filosofica. Si trasformerà in una sfida, un gioco pericoloso. Nelle vite dei ragazzi, tra gli stordimenti di alcol e droga, si affaccerà il fantasma della violenza e della depravazione. 

Il romanzo della Tartt si concentra su un’attenta riflessione sul male, condotta dall’interno. Il narratore infatti è un inside man. Richard Papen è un piccolo borghese californiano, un infiltrato nell’elitario circolo di Julian. La sua non appartenenza crea attorno al ristretto simposio una cortina di fascino e attrazione. Julian assume una statura mitica: mentore, figura paterna, ultimo baluardo di bellezza e grazia in una società prosaica e grigia. Henry, i gemelli Charles e Camilla, Francis e Bunny appaiono agli occhi di Richard inarrivabili. Ricchi, bellissimi, onnipotenti. Richard si lascia catturare dal magnetismo dei colti studenti di lingua e cultura greca. Il mondo classico si rivela essere una dimensione magica, di gran lunga più profonda della sua vita che percepisce come spenta e mediocre. Richard, apparentemente insensibile e apatico, si risveglia dal suo torpore e si avvicina grazie alle lezioni di Julian a questo “bellissimo e tormentoso paesaggio, morto da secoli”. Mentre però Richard è un turista ammirato di quel mondo, Julian e soprattutto Henry ne erano abitatori permanenti. Il mondo a noi noto, il mondo del presente, non era la loro vera casa. Studiando le forze incontrollabili che s’impadronivano degli antichi greci durante i baccanali, bramosi d’impadronirsi essi stessi di quelle forze, di raggiungere quello stato di estasi e di riconoscere il sentimento del sublime, i discepoli di Julian coltiveranno un’illusione. L’illusione di ricreare un’epoca remota, l’illusione di essere sganciati dai ritmi e dalla morale che regola il presente. Ingannati dalle loro stesse menti, accecate da un delirio di onnipotenza, i ragazzi si getteranno in dinamiche di gruppo degeneranti che sfoceranno in un atto di brutale violenza. 

The secret history è però un romanzo che non si concentra tanto sull’atto di depravazione, sulla malvagità, quanto su “l’infinità di trucchi grazie ai quali il male si presenta come bene”. Tanto più che i protagonisti hanno un’età vulnerabile (e quanto suona ironico questo aggettivo riferito a tali personaggi!) e sono incapaci di scorgere la trappola in cui sono finiti. La narrazione è estremamente soggettiva e poco lucida. Sia perché il narratore fa spesso uso di sostanze stupefacenti, sia perché egli stesso è continuamente ingannato dalla natura dei personaggi e delle loro azioni. Il racconto procede per ribaltamenti. Chi prima sembrava la vittima, si rivela il carnefice. Ciò che prima appare sublime e lirico, si trasforma in torbida scelleratezza. Le illusioni attorno alle personalità dei personaggi vengono squarciate. Lo stesso romanzo è una continua rivelazione. Sguscia via da qualsiasi definizione di genere. Ha molti elementi del giallo, del thriller, del romanzo psicologico, del romanzo di formazione. Sarebbe fare un torto alla scrittrice racchiuderlo in un’etichetta.

La Tartt intreccia l’interrogativo sul fascino del male con il rapporto tra moralità e denaro. 
Il fatto che i protagonisti appartengano a delle famiglie abbienti (nonostante non abbiano tutti lo stesso livello di agiatezza) è fondamentale. Perché l’azione che i protagonisti compiono è causata da una sorta di distanza dall’ordinario, la solida certezza di appartenere ad un genio superiore. Il denaro li inebria, li fa sentire diversi, migliori, onnipotenti. Ma soprattutto annoiati. Grazie ai soldi di Henry, che non dà alcuna importanza alle contingenze materiali proprio perché troppo ricco per preoccuparsene, i protagonisti diventano in un certo modo insensibili alla vita normale. Si sentono sempre più attratti dall’idea di trasgressione, di vitalità. Diventa un’ossessione: la ricerca di oblio, di un atto che possa ancora di più svincolarli dalla quotidianità e concedergli un singulto vero, difficile da trovare nelle alterazioni di farmaci e altre sostanze inebrianti, a cui ormai sono assuefatti.   

Quello che però potrebbe sembrare un romanzo nichilista (nel senso positivo e vitalistico che gli attribuiva Nietzsche) in realtà cova un severo giudizio morale. Il vero tema del romanzo non è un cinico atto superomistico bensì il senso di colpa. I protagonisti dalla loro perversione non troveranno altro che alienazione e sofferenza. Non quella terribile bellezza che gli antichi greci provarono nella liberazione di ogni istinto. Non reggono il fardello delle loro azioni (“Mi sentii addosso tutta l’amara, irrevocabile realtà della nostra azione, la sua malvagità”). Non superuomini, ragazzi dietro i cui atti si cela egoismo, marciume, perfidia. La bellezza è crudele, khalepà tà kalà. 

“Forse avrebbe considerato quei delitti come delle cose tristi folli tormentate pittoresche (Ho fatto tutto, si vantava il vecchio Tolstoj, anche uccidere un uomo) invece che atti fondamentalmente egoistici e malvagi quali erano”. 

La scrittrice statunitense costruisce un romanzo che è non solo una forte denuncia del vuoto, del potere alienante di una ricchezza, non supportata da altri valori ma anche un romanzo di disillusione e crescita. Descrive perfettamente il passaggio dalla nebulosità e irrequietezza dell’adolescenza ad uno stadio adulto. 


Analisi dei personaggi (solo per chi ha letto il romanzo!)

I personaggi del romanzo sono divisi tra due dimensioni: illusione e realtà. Man mano che la narrazione avanza (e quindi Richard prende coscienza di cosa succede attorno a lui) si accresce il divario tra come appaiono e chi sono realmente i cinque discepoli di Julian. Quello che dapprima gli sembra un circolo di geni superiori in cui è miracolosamente ammesso, si trasforma in un’associazione di capricciosi assassini. Persino dopo aver svelato l’omicidio compiuto, Richard tende a giustificare la loro azione, incolpando lo stato estatico e delirante in cui si trovavano (Henry, Francis e i gemelli organizzano un baccanale durante il quale uccidono per errore un uomo). E paradossalmente è Bunny che, agli occhi di Richard -  indottrinato da Henry e Francis - diventa il colpevole, il pericoloso e instabile traditore che, una volta scoperti, minaccia di rivelare il misfatto. Richard infatti anche in questa situazione si sente privilegiato, è stato scelto quale garante, membro insostituibile del gruppo, custode dell’inconfessabile delitto. Il segreto che condividono quindi è ciò che li unisce, che li legherà per la vita. Non lo sfiora neanche per un secondo, in un primo tempo, il sospetto che il fatto di essere stato reso partecipe, possa rappresentare per lui un danno. Non lo tocca il dubbio di poter essere stato manipolato. Ben presto però il segreto che avrebbe dovuto renderli amici per la vita e per la morte diventa una galleria buia e senza uscita. L’universo meraviglioso di Richard si trasforma in un universo terrificante. 

“Chi erano quelle persone? Quanto le conoscevo? Avrei potuto, al bisogno, fidarmi davvero di loro?”.

Prima di analizzare nel dettaglio gli altri personaggi, è necessario partire proprio da Richard. Uno degli interrogativi più importanti del romanzo è: perché Richard si lascia ingannare così? Perché è giovane? Perché è un ragazzo ordinario che si scontra con lo straordinario? Perché è povero? Probabilmente per tutte queste ragioni insieme. 
Richard sente un complesso d’inferiorità nei confronti del circolo di Julian. Tant’è che la sua infanzia grigia viene sostituita da un passato di ricco californiano, inventato di sana pianta, che riesca a renderlo più simile al club esclusivo. Entra in un universo da cui viene risucchiato e che esercita su di lui, provinciale dalla famiglia ottusa e dalle possibilità limitate, un effetto inebriante. 

“Forse che una cosa come il fatale errore,quell’appariscente cupa frattura che taglia a metà una vita  può esistere al di fuori della letteratura? Una volta pensavo di no. Ora sono dell’opinione contraria. E penso che il mio sia questo: un morboso, coinvolgente desiderio verso tutto ciò che affascina”.

Come non rimanere affascinato dai gemelli? Da Camilla, dalla bellezza di un altro tempo; da Charles, benvoluto da tutti. Come non farsi avvolgere dal carisma da dandy di Francis? E dall’intelligenza di Henry? Henry, cultore delle lingue morte, glaciale e scostante ma che prima gli salva la vita e poi lo reputa addirittura degno di conoscere il loro segreto. Naturalmente la verità viene a galla e Richard capisce che Henry e gli altri gli rivelano il segreto soltanto per anticipare Bunny (che avrebbe rivelato infatti di lì a poco il delitto a Richard, ormai però influenzato e “avvelenato” dalla versione di Henry e Francis). 
Ed è solo la consapevolezza che acquisisce Richard che riesce in un certo senso a salvarlo. Lui è l’unico personaggio che cresce, si allontana e riesce a superare l’esperienza del college mentre gli altri annegheranno nei loro sensi di colpa. Però all’inizio la sua mente è annebbiata, vinta completamente dalla colossale illusione costruita attorno al circolo. 

“Alcune cose sono troppo terribili per entrare a far parte di noi a primo impatto. Altre contengono una tale carica di orrore che mai entreranno dentro di noi. Solamente più tardi nella solitudine, nella memoria, giunge la comprensione: quando le ceneri sono fredde, la gente in lutto è andata via. Quando ci si guarda intorno e ci si ritrova in un mondo completamente diverso”.

Forse, per sua stessa ammissione, il vero peccato di Richard è stata la sua “tendenza a considerare buone le persone interessanti”.

Il nucleo vitale attorno al quale ruotano tutti gli altri personaggi è Henry. “Era l’autore di quel dramma e aveva atteso a lungo, dietro le quinte, il momento di salire sul palcoscenico e recitare il ruolo scritto per se stesso”. Di un’intelligenza sopraffina, ricco oltre ogni immaginazione, distante e freddo. Chiuso nel suo mondo dagli antichi ritmi, dalle lettere antiche e dalle lingue morte. Superiore a chiunque. Un perfetto manipolatore. è lui l’ideatore dell’idea del rito dionisiaco, lui che ha trascinato gli altri nella bufera di trasgressione e depravazione che li avvolgerà. E chi altri se non lui, da cui tutti dipendono economicamente ed emotivamente? Il fatto che lui sia il più agiato, non è un caso. Rientra in quel conflitto tra denaro e morale che la Tartt ha delineato così bene nel racconto. Henry addirittura accoglie con una sorta di perversa curiosità l’ipotesi di dover uccidere Bunny (“sento che si sta profilando per noi una serie di eventi in rapida progressione”). L’architetto di tante macchinazioni, dei cinque l’unico senza rimorsi. Henry arriverà ad ammettere a Richard che la sua vita è sempre stata scialba e stagnante, un luogo deserto, fino a quando non ha ucciso quell’uomo. E paradossalmente avrà la fine più tragica.

L’altro grande protagonista, per quanto nascosto e ai margini della narrazione, è Julian che da benefattore prodigioso passa a vigliacco che si dà alla fuga. Julian è un esteta vanitoso e distante che si gloria del fatto che abbia un’enorme influenza sui suoi allievi salvo poi abbandonare gli stessi quando i suoi discorsi edonistici si concretizzano in un progetto di morte. Da figura paterna amabile e affascinante ad opportunista noncurante e glaciale. 
Julian dimostra una grande freddezza, indossa una maschera di calore che non è altro che l’ennesima illusione di profondità. In realtà, è “rigido come uno specchio”

La cosa più triste è il rapporto tra l’allievo prediletto, Henry, e il vanaglorioso Julian che finirà per abbandonarlo. La loro relazione, che è anche - procedendo per sommi capi -  il motore dell’azione, è l’antitesi del rapporto maestro-allievo raffigurato nel film “L’attimo fuggente”. Il suicidio di Henry è da ricollegare alla spaventosa influenza del professore che è fuggito di fronte ai gesti sconsiderati del discepolo. Henry di certo non si riscatta però dimostra che la delusione che ha procurato a Julian è l’unica cosa che alla fine lo ha commosso, l’unica. 

“Non fu per disperazione né per paura che lo fece. Era la storia con Julian che gli aveva fatto una profonda impressione. Penso che sentisse il bisogno di compiere un gesto nobile, qualcosa che provasse a noi e a se stesso che era di fatto possibile mettere in pratica gli alti astratti principi insegnatici da Julian: dovere, pietà, lealtà e sacrificio. Ricordo il suo riflesso nello specchio mentre si puntava la pistola alla tempia; la sua espressione di folle concentrazione, di trionfo, quasi un tuffatore che corra verso la fine del trampolino: occhi stretti, felice nell’attesa del grande salto”. 

Henry rimane il modello superiore per gli altri, in peggio e in meglio. Un mostro ed un eroe.
Tutti noi abbiamo  bisogno di sentirci vivi e commettiamo gesti estremi. 

All’opposto dell’artificiosità menzognera di Henry, troviamo Bunny. Durante la lettura - ed è questa la bravura della Tartt - vi ritroverete ad odiarlo. Perché penserete che la combriccola di Henry in fondo abbia ragione e debba cavarsela. Il ricatto di Bunny è solo fastidioso ed insopportabile. Quando però insieme a Richard prendiamo coscienza di cosa c’è dietro alle nostre illusioni adolescenziali (il voler credere che una persona interessante sia anche buona e abbia in qualche modo una licenza sul resto del mondo) scopriamo l’amara, brutale realtà. E allora impariamo ad apprezzare il carattere fantomatico, la personalità fumettistica di Edmond. Toccava il cuore delle persone. Un ragazzetto arricchito e pieno di debiti non poteva competere con il fascino degli altri, ai nostri occhi ingenui. Lui era un ragazzo normale, non eccezionale. Sacrificabile. Non comprendeva il fascino del male. Era solo sfrontato, anche un po’ volgare. Non possedeva la fede necessaria per abbandonarsi al baccanale. Non aveva la forza necessaria per comprendere quegli atti di follia e crudeltà. Ha ceduto sotto il peso di un segreto troppo grande per le sue spalle. 

Sullo sfondo, i personaggi più enigmatici: i gemelli, Camilla e Charles. Due gocce d’acqua perturbanti, che nascondono una relazione incestuosa e possessiva. La loro rivelazione è forse quella più inaspettata. Charles, da ragazzo benvoluto e amabile si trasforma in un alcolizzato violento. Camilla, di cui tracciare un ritratto chiaro sembra ancora impossibile, da dolce e affascinante diventa una volubile giocatrice. Il suo personaggio rimane criptico. Forse rappresenta il vuoto della bellezza da cui la Tartt ha cercato di metterci in guardia per tutto il romanzo, quella bellezza di cui tutti s’invaghiscono ma che in fondo non ha niente da offrire. Infatti s’innamorano di lei pressoché tutti. E non posso fare a meno di ricollegare (anche) a lei queste righe: “Non c’è nulla di sbagliato nell’amore per la bellezza ma se non è sposata a qualcosa di più profondo  è sempre superficiale”. 

Francis,infine, è forse l’unico personaggio positivo del clan. Un omosessuale infelice che si lascia trasportare per amore nel delitto. Perché agisce? Probabilmente per il motivo per cui tutti sono nelle mani di Henry: si sentono accettati, accolti in una famiglia. Tutti loro infatti hanno delle situazioni familiari disastrose, ragion per cui Julian appare ai loro occhi così prezioso. Un padre eletto. 

Le domande non trovano risposte esaustive. Le dinamiche di gruppo hanno qualcosa di incomprensibile, una sorta di energia magica. Quelle che Durkheim, studiando i fenomeni religiosi, ha chiamato “effervescenze collettive”, correnti che nascono solo nel gruppo, che generano esaltazione e galvanizzazione degli spiriti, che trascinano e trasformano gli individui., 

Non sarebbe giusto ricondurre i comportamenti dei protagonisti ad una pura logica di istinto di branco, eppure è un’importante elemento psicologico nel romanzo della Tartt. Così Richard si sente coinvolto per il debito nei confronti di Henry e l’attrazione per Camilla, e Francis per l’amore verso Charles, e Camilla per l’amore verso Henry e ancora altre sottilissime dinamiche sotterranee che la Tartt tesse per noi.