domenica 25 novembre 2012

Al cinema si leggono i romanzi.

La fine del 2012, oltre che per la fine del mondo per i Maya (e per Giacobbo), si caratterizza per l'uscita di numerosi adattamenti cinematografici di romanzi più o meno celebri ma tutti degni di nota. A prescindere dalle riflessioni sul fatto che i soggetti cinematografici non siano più originali (discorso che si potrebbe ricollegare benissimo al concetto di originalità del postmoderno) vorrei soffermarmi su quelli che mi hanno colpito di più. Il post sarà diviso in due parti per motivi di incontinenza verbale della sottoscritta, chiedo venia.
  
Cloud Atlas, romanzo di David Mitchell del 2004

Cloud Atlas è uno tra gli ambiziosi scritti moderni che si ripropone di trovare una conciliazione tra i romanzi d'appendice ottocenteschi e i contemporanei. Dare quindi ampio respiro all'intreccio, una sorta di grandiosità ed epicità che non susciti obiezioni ma senza rinunciare alla narrazione svelta e più varia della modernità.
Sei storie parallele, diverse per ambientazione e tecnica di narrazione, s'intrecciano in questo romanzo caleidoscopico. La magia della letteratura fa sì che possano convivere in una stessa storia esploratori che attraversano il Pacifico, giornalisti nell'era di Reagan, editori in fuga dalla mafia e diseredati che affrontano la guerra in Belgio. La curiosità di scoprire se l'esperimento fosse riuscito c'era. Mi sono data da fare per recuperarlo, in vista del film. Peccato però che il romanzo sia introvabile. I volponi della Frassinelli hanno deciso di ristamparlo, con un nuovo titolo (non più "L'atlante delle nuvole" ma Cloud Atlas, omonimo del film) e una nuova copertina (naturalmente tamarra, con i volti degli attori), sarà disponibile dal 27 Novembre.  
Il film, diretto da quei mattacchioni dei fratelli Wachowski, famosi per il loro amore verso universi da ricreare a loro piacimento, è uscito negli Stati Uniti il 26 Ottobre, mentre in Italia uscirà il 13 Gennaio 2013. Il trailer è molto denso, forse un po' caotico, il rischio è che il film risulti troppo frammentato. Al momento però sono entusiasta, le immagini parlano da sole. Attendo impaziente.



 Vita di Pi, romanzo di Yann Martel del 2001

Yann Martel è uno scrittore canadese a cui piace l'India. Il protagonista del suo romanzo, pluripremiato e acclamatissimo, è Pi, un ragazzo indiano, che naufraga con uno zoo nell'Oceano Atlantico mentre cercava di trasferirsi in Canada con la sua famiglia. Perso in mare, come se la situazione non fosse già abbastanza desolata, si ritrova a condividere la scialuppa con una tigre del Bengala, un orango, una iena e una zebra ferita. Siete confusi? Bene. Questo è l'obiettivo. Mi viene in mente un aggettivo semplice (fin troppo) per descrivere l'immaginario del romanzo: colorato. Uno di quei romanzi cult da avere assolutamente nella libreria, che ridanno vita alla tua fantasia. Me lo sono procurata in fretta e furia (era già nella mia wishlist da molto tempo), conto di leggerlo quanto prima, almeno, prima dell'uscita dell'adattamento cinematografico nelle sale. L'uscita italiana del film è prevista per il 21 Dicembre. Il TRAILER promette benissimo, il regista è Ang Lee (Brokeback Mountain, Hulk, Ragione e sentimento, La tigre - ah, che ironia!- e il dragone).

I miserabili, capolavoro di Victor Hugo, pubblicato nel 1862
 Non vi racconterò la trama. D'accordo, qualcosina: Francia del XIX secolo, criminali in cerca di redenzione, anime misere, sporcizia, ingiustizia e amori impossibili. Insomma, romanzoni dell'Ottocento in cui annegare di piacere. Di Hugo, ahimè, non ho mai letto nulla. Inizierò dal meglio. Appena finirò il tomone di Dostoevskij che giace sul comodino, m'imbarcherò nell'impresa titanica di provare a leggerlo. Naufragherò come Pi?
Il film è in realtà l'adattamento del musical (io odio i musical ma questo, a detta del mondo, è bello) basato sul romanzo. A noi non importano queste sottigliezze. C'interessa solo che ci sarà da soffrire. 
In Italia il film arriverà il 25 Gennaio 2013, mentre gli americani se lo godranno già dal 14 Dicembre. Io, corrosa dalla gelosia e dall'impazienza, lo guarderò in streaming, disperata. Questo film è una di quelle cose troppo belle per cui non si può proprio aspettare ma gli devi correre incontro più veloce che puoi a braccia aperte. Chi ha detto che l'attesa rende le cose migliori mentiva. Il TRAILER è già leggenda ma se servissero altri incentivi il cast è così composto: Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Eddie Redmayne, Aaron Tveit, Samantha Barks, con Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen.

Anna Karenina, romanzo di Lev Tolstoj, pubblicato nel 1877

Anna Karenina è uno dei miei romanzi preferiti, ho adorato ogni pagina e, come tutti, avrei voluto strozzare Aleksei Aleksandrovič Karenin. La mia furia omicida non si è placata nemmeno con l'evoluzione del personaggio nel corso del romanzo con la notizia che fosse Jude Law ad interpretarlo.
La pellicola mi lascia abbastanza perplessa, per non dire che già la detesto, ancor prima di guardarlo. Perché le iniziali di Anna, argentate e luccicanti, campeggiano sullo sfondo della locandina? Non è una lezione di pool dance.  
È pacchiano, volgare, pomposo e retorico, sgargiante come l'enorme insegna luminosa di un motel. Nessuno dei personaggi rispecchia l'idea che mi ero fatta di loro (o meglio, che Tolstoj aveva descritto).
Anna dovrebbe essere sensuale, una donna dalla statura minuta ma voluttuosa, affascinante, matura, complessa. Keira, per quanto bellissima, è più adatta ad altri ruoli (magari dove non deve recitare). Inoltre non mi convince né in coppia con il marito Aleksei, un imbruttito Jude Law che sembra più lo zio bono giovanile  che si è travestito da Babbo Natale per far felici i nipotini, nè con Vronskij, interpretato da Aaron Johnson. A me Aaron piace moltissimo ma non potete tingere di biondo (anche se quello non è biondo) i capelli di un attore, lasciando le sopracciglia castane. Anche lui uno degli invitati ad una festa di Carnevale. Lev sembra una scopa con un mocio in testa, è bidimensionale, moscio. E questo sarebbe un personaggio lacerato e redento? A me sembra un surfista vestito bene.
In generale, è tutto poco credibile, poco accurato. Manca l'atmosfera del romanzo, sostituita da un'impalcatura teatrale, inquadrature dall'alto a bizzeffe e cori da stadio in sottofondo.
Quel che più mi preoccupa, però, è il sottotesto della locandina: "an epic story of love". Gli sceneggiatori l'hanno letto il romanzo? O vogliono ridurre Anna Karenina ad una storia d'amore tormentata per colpa del marito bacchettone? Mi sono stancata di spiegare ai profani che il romanzo di Tolstoj non è Cime tempestose ma una storia tragica di fede, redenzione, amore impuro, amore puro, passione e morte.
Vi prego, qualcuno li stronchi.  Per i più coraggiosi, il TRAILER.  La pellicola è diretta da Joe Wright (famoso per gli adattamenti cinematografici dei film di Jane Austen e il bellissimo Espiazione di McEwan, si sarà ubriacato a sto giro). Già uscito in UK il  7 Settembre mentre le uscite statunitensi e italiane sono previste rispettivamente per il 9 Novembre e il 21 Febbraio 2012.


Nel prossimo post, vi parlerò di Lo Hobbit, Il Grande Gatsby e Grandi Speranze

Note sparse: Spero di poter leggere i romanzi da cui sono tratti i film prima della visione ma dubito di riuscirci in tempo per alcuni. 
Da questo breve elenco commentato sono esclusi Breaking Dawn parte 2 e The host, per evidenti ragioni.
 

domenica 18 novembre 2012

La bellezza è una ferita - Suttree, McCarthy


Mi sono fidata di Stanley Booth, interprete, non per sua colpa, del commentatore ruffiano che alletta il lettore da quel pericolante e spoglio balconcino che è il retro copertina. Booth definisce Suttree "l'opus magnum di McCarthy...Con ogni probabilità il suo libro più esilarante e insopportabilmente triste".

Ho iniziato con lui ad adorare McCarthy, con Cornelius "Buddy" Suttree. Quest'uomo mesto e invincibile allo stesso tempo, derelitto che si tiene in piedi per puro orgoglio, rissaiolo, ingrato e solitario, sbronzo fino alla radice dei capelli ma dal pensiero lucido. E pensatore instancabile è Suttree, oltre che un mancato maratoneta macina chilometri.

Knoxville, Tennessee, 1951 (non è esatto, la mente di Suttree ci trasporterà avanti e indietro negli anni, senza sosta). Qui, Cormac, ha trascorso la sua infanzia. La scrittura inevitabilmente è contaminata: il luogo è affollato da spettri sensoriali, reminescenze, frammenti, echi autobiografici.
Un posto disgraziato, Knoxville, scavata dal fiume putrido e limoso, che raschia "le sponde come polvere d'ossa, pregno di passato, sogni in qualche modo sparsi tra le acque, niente si perde mai per sempre".
Knoxville con il suo carico di miseria e vergogna, fosca, fredda e inospitale, sterile.
"Eccoci arrivati in un mondo dentro il mondo (...). Deformi o neri o folli, fuggiaschi di ogni risma, stranieri in ogni contrada".  
Questo è il mondo di Suttree. Circondato da ladri, puttane, paria e balordi. Un palcoscenico raccapricciante, squallido, alla periferia dei buoni sentimenti.
Buddy è un pescatore, un mestiere difficile soprattutto se il fiume che ti dà lavoro è paragonabile solo allo Stige. Ma a Suttree non interessano i soldi, vive in una baracca e sembra essere disinteressato alla sua condizione di morto di fame. Come se non volesse cambiarlo, come se l'avesse scelto. 
Il protagonista è avvolto dalla foschia, il suo passato è lacunoso, i contorni non verranno mai definiti del tutto. Quello che sappiamo è che è diverso da tutti i suoi sodales disperati. Il romanzo si concentra su altro. Viviamo con Suttree la quotidianità: la pesca con lo "schifo", la sua imbarcazione mal messa, le lunghe passeggiate sotto la pioggia, il suo manipolo di amici sciagurati. La sua storia, quindi, dobbiamo faticosamente ricostruirla noi, attraverso stralci di conversazioni, intuizioni, piccoli indizi sparsi.  
Chi è in realtà Cornelius Suttree? Di estrazione borghese, colto, ha deciso di rinnegare la famiglia, ha lasciato tutto:  casa, lavoro, moglie, figlio e sicurezze. Un San Francesco maledetto, o meglio, "un bastardo a diciotto carati". Ma questa non è la storia di un irresponsabile che abbandona la sua famiglia come l'ultimo degli stronzi. Almeno, non solo.
Le motivazioni che hanno spinto Suttree a trascinarsi negli abissi dell'alcool, dello squallore, risucchiato dal fiume e dai rimorsi, non sono chiare. Apparentemente non ce ne sono.
Soltanto scavando a fondo, riusciamo ad intuire cosa muove Suttree. Motivazioni esistenziali, non logiche, non razionali. Un' irrequietezza di fondo lo spinge.
Quando con grande sforzo va a trovare sua zia Martha, sfoglia un album di foto della sua famiglia, da lui rinnegata. "Richiuse la copertina su questa galleria di infelici. Sollevando una leggera polvere gialla. Via questi primati dalle mascelle di pietra e i loro annali di vie senza sbocchi e definitiva oscurità. Quale divinità nei regni della demenza, quale feroce dio generato da lobi fumanti di rabbia avrebbe potuto concepire una custodia per anime meschina quanto questa carne".
Suttreee non riesce a sopportare tutto questo dolore. Non riesce ad accettare la sua storia già scritta, il suo vicolo cieco.  Si è ripiegato su se stesso. Così si giustifica anche il rapporto quasi panico che intrattiene con la natura. Si muove in tutt'uno con il paesaggio, a tratti, è il paesaggio stesso. "Che gli elementi della terra mi avvolgano, sarò sempre più granitico. La mia faccia dirotterà la pioggia come le pietre". 
Quasi volesse raggiungere l'atarassia, fondendosi con la natura. Chissà se McCarthy ha mai letto "Uno, nessuno e centomila" di Pirandello. Ma Suttree non riuscirà mai a rinunciare alla sua umanità, non riuscirà mai a "lasciarsi vivere". Consapevole della sua condizione umana, si dibatte alla ricerca di senso. Vorrebbe raggiungere una sorta di stoicismo, ma è costretto a girovagare, condannato all'irrequietezza.

"Questo è il supplizio dei mortali. Speranze distrutte, amore naufragato. Guarda il dolore di una madre. Come tutto ciò su cui mi avevano messo in guardia, è accaduto"
McCarthy racconta la sofferenza atavica, ci fa gustare il senso del tragico, il sapore salato del dolore. La sua scrittura è magniloquente, epica. Ogni dettaglio è suggestivo, potente e ci incatena ad una storia che non ha svolte ma soltanto salite ripide.

Accanto al pescatore esistenzialista, c'è Gene Harrogate, il suo opposto, completamente inconsapevole, immerso nella sua follia. Suttree lo incontra nella casa di correzione, dove Harrogate è finito per aver stuprato delle angurie. Avete capito bene. Una sorta di Huckleberry Finn. Un ribelle, in lotta contro il mondo."Sornione, un muso da ratto, un criminale pervertito con inclinazioni botaniche. Che tornato a piede libero avrebbe fatto di peggio. Garantito. Eppure in lui c'era qualcosa di così trasparente, qualcosa di vulnerabile".
Ecco, quel qualcosa di trasparente e vulnerabile è quello da cui siamo sopraffatti.
Il fatto è che Suttree, nonostante racconti le (dis)avventure di un'America sprofondata in  una "melma cieca", è un romanzo pieno di bellezza, è un romanzo luminoso. La prosa sontuosa, poetica, a tratti epica, con stralci di crudissima meraviglia, lo grida con voce roca. Nonostante si accenni alla "disaffezione congenita" del protagonista, in realtà, Suttree si prende cura degli ultimi, suoi compagni di sorte: Harrogate, il cieco, il capraio, il vecchio ferroviere. Quasi a sottolineare che Suttree non ha perso quel senso paterno, perdendo suo figlio.
 La bellezza la ritroviamo ovunque, anche nelle azioni più basse, più comuni. Il rapporto tra Gene Harrogate e Suttree, in particolare, è meraviglioso. Il modo in cui si cercano, il fatto che non si lascino morire di fame (sì, questo è il massimo che puoi chiedere in questa valle di lacrime che è Knoxville) è struggente. Niente riesce a darti la misura dell'affetto tra un padre e un figlio come quando Suttree va a raccattare letteralmente Gene dal pavimento ghiacciato e lo porta a mangiare qualcosa in una squallida mensa il giorno di Capodanno. Altro che partite di baseball.  
Booth l'ha definito il romanzo più esilarante di McCarthy perché in tutta questa disperazione, non c'è pietismo o rassegnazione silenziosa. Al contrario, non stonano gli elementi carnevaleschi: il grottesco Gene Harrogate, con la sua folle caccia ai pipistrelli, i siparietti comici degli ubriachi, la saggezza e l'astuzia popolare: "Gesù pianse per Lazzaro, disse il capraio. Non c’è scritto, ma suppongo che anche Lazzaro deve aver pianto quando si ritrovò di nuovo in questa valle di lacrime dopo essere stato bello morto per quattro giorni".
È il tono, lo spirito di Suttree ad essere vitale, magmatico. Intendiamoci, è pur sempre un macigno che ti arriva addosso, un pugno in pieno volto, ti procura agonia prolungata insopprimibile mal d'anima. Ma è bellissimo. 
Suttree è come un treno dirottato, in fiamme. Uno spettacolo magnifico e terribile.  

"Uno che sputa sangue per arrivare, per esempio. Che pensa che quando sarà arrivato andrà tutto alla grande. Ma non arriva mai. Non importa chi siamo. Una mattina ti guardi e sei vecchio (...) Quello è stato il mio primo contatto con la furia della vita. Ormai sono quaranta fottuti anni che dura e ancora non ha nessun senso"


Suttree prosegue nell'oscurità, cammina, corre, prende treni, va avanti, anche se mal ridotto. Suttree è sempre e solo di passaggio. Bisogna andare. Bisogna continuamente domandarsi. Quante cose condividono il buon vecchio blasfemo Suttree e il pastore di Leopardi che interroga la Luna! Entrambi condividono il rapporto panico con la natura, entrambi erranti, presi dalla quest, dalla ricerca di senso. La domanda stessa commuove e muove le fila della narrazione (in senso filosofico, la vita stessa) e non la risposta (che non arriverà mai). 

Insomma, la bellezza è una ferita pulsante. E Suttree è bello da morire.

Note sparse: mi sono dimenticata di citare quel gigantesco personaggio che, ahimè, appare poco, pochissimo nel romanzo: Ab Jones, in lotta contro i pregiudizi razziali, la polizia e l'ingiusta giustizia dell'ordine costituito.

giovedì 1 novembre 2012

Espiazione, McEwan. La verità non importa, infine. Se tutto è sofferenza.

Sono nella fase di innamoramento. La peggiore. Quella in cui non riesci a vedere altro che l'oggetto desiderato. Ma anche la fase in cui il minimo accenno di scortesia può irritarti tanto intensamente da risultare ridicolo. In uno di questi momenti di crisi, mi sono allontanata dalla mia adorata letteratura americana contemporanea (a cui pian piano mi sto avvicinando sempre più, vi renderò partecipe degli sviluppi) per una piacevole incursione nel mondo anglosassone.
Al fortunato appuntamento al buio ho incontrato Ian McEwan, celebre narratore, classe '48, da anni nell'olimpo degli scrittori britannici insieme a Martin Amis e a Cristopher Hitchens. Di lui, non avevo letto nemmeno la biografia. Era il caso di rimediare. Durante piovosi pomeriggi di Ottobre si è consumata la nostra passione. “Galeotto fu il libro”: Espiazione.

Un romanzo a tre intervalli: la pace, la guerra, quel che rimane.

La pace
La calura di un'afosa estate degli anni 30' avvolge i personaggi della storia che ci vengono presentati come se ci trovassimo in un romanzo della Austen (e a lei è dedicato il romanzo): campagna inglese, fuori dal tempo, sospesa in una dimensione altra, a metà strada tra prigione e idillio. L'atmosfera è onirica, il racconto del presente è compromesso, i personaggi sovrappongono alla realtà i loro ricordi d'infanzia. I piani temporali si intersecano. In questa realtà torpida, all'improvviso, si affaccia la violenza, l'ipocrisia, la menzogna, l'oltraggio. La complessità del reale irrompe ed infrange il sogno. Ad interrompere la nascente e travolgente passione tra Cecilia, insofferente e nervosa sorella maggiore, e Robbie, figlio della domestica, adottato con le migliori intenzioni dalla famiglia del padrone, arriva l'immaginazione sfrenata della sorella minore, Briony, alla ricerca esasperata di avventure. 
La bravura di McEwan è quella di dipingere un affresco familiare, complesso, mai banale, fatto di corrispondenze e parallelismi. E quindi in questa prima parte, vicina per atmosfere e stile alla saga familiare, ciò che cattura sono le crepe, le incrinature attraverso le quali vediamo cosa scuote i rapporti familiari: la madre Emily vede nella conturbante nipote Lola (felice omaggio a Nabokov), sua sorella Hermione, eterna rivale. Lo stesso conflitto si riflette nell'ostilità tra la figlia Briony e, appunto, la precoce e capricciosa cugina Lola. Le corrispondenze continuano, non si esauriscono nei rapporti tra consanguinei (come quello tra Leon, Cecilia e Briony, fratelli dalle caratteristiche divergenti) ma si estendono agli outsider Robbie e Marshall, in un racconto perfettamente disegnato, che non dimentica di scandagliare la psiche di nessuno.
La polifonia è il tratto distintivo del romanzo. Non solo elemento strutturale ma necessario pilastro che supporta la base tematica del romanzo: la frantumazione del reale. La verità cambia a seconda di chi la vede, di chi la racconta. Le stesse scene vengono riproposte, raccontate da diversi punti di vista. La tecnica dello scorcio è magistrale. Un romanzo di personaggi che guardano dalla finestra scene che distorcono, manipolano. L'illusione della realtà. Personaggi che vedono da lontano, da un punto di osservazione parziale, mal illuminato, da uno spiraglio, un brandello di verità. L'intreccio si sviluppa quindi in un coro di voci diverse, stonate, poco armoniche.

Briony stava già cominciando a raccontare l'accaduto, esattamente per come l'aveva visto

Scrittura come interpretazione della realtà, sempre diversa, sempre deformata dall'occhio di chi vede. La vista non è più affidabile, non è più conoscenza ma è valida solo come interpretazione, e quindi, spesso, solo come un gigantesco, imperdonabile, equivoco. Ecco, che si affaccia un altro tema cardine del romanzo, che si evolverà nelle restanti due parti: la colpa.

La guerra

Nella seconda parte del romanzo, l'ambientazione cambia, è rovesciata. Ci troviamo nel bel mezzo della seconda guerra mondiale.
Una questione privata, d'ambientazione austiana, diventa questione di tutti. Il concetto di colpa si evolve, o meglio, si allarga. Dalla colpa individuale di Briony, di passa alla colpa sociale, colpa civile. “Di questi tempi, chi non è colpevole?”. Lo scandalo è la guerra. Lo scandalo è morire. Una gamba mozzata sulla cima di un albero, è cosa normale. Accettata. Questo è lo scandalo. Il viaggio verso casa di Robbie è un viaggio deformato dal delirio, dalla sofferenza, dalla prostrazione morale e fisica. Anche a questo punto, siamo costretti a rimettere in discussione tutto quello in cui credevamo. Il volto di Cecilia assume contorni sfocati, la colpa di Briony si affievolisce di fronte all'orrore della guerra. Il viaggio di Briony è ancor più doloroso, nei meandri della memoria, della psiche, tra i letti di un ospedale di guerra, cerca di punirsi, cerca di espiare. La verità viene a galla, infine, ma non ha importanza. Se tutto è sofferenza.

Quel che rimane
L'ultima parte del romanzo è quella che fa più male. Restano le ceneri di un sogno. Le macerie delle città bombardate. I brandelli di una memoria fallace, infedele. La verità monca, come i soldati, ci è restituita. A quale scopo? Anche l'amore non è più lo stesso. E come potrebbe esserlo? Le cronache dei due poveri amanti sono una consolazione che non ci riscalda. E l'espiazione di Briony non è confortante ma straziante. Lo scrittore è responsabile solo dei personaggi sulla carta, non si può permettere di falsare la realtà senza conseguenze.

"Non c'è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. È sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo".

Un grande romanzo di madri e di figli, cresciuti senza padri i quali recitano il loro ruolo inconsistente, in absentia.