lunedì 24 dicembre 2012

Al cinema si leggono i romanzi parte II

Sembra che al cinema le sceneggiature originali si siano estinte, la letteratura continua ad essere il bacino più importante da cui attingere soggetti e idee. Quali sono gli adattamenti cinematografici più interessanti in uscita e i romanzi da recuperare prima di vedere il film? 
Qui la prima parte


Lo Hobbit

Devo ammetterlo. Tolkien non mi ha mai conquistata. Ci ho provato in mille modi a farmelo piacere (contravvenendo alle regole d'oro di Pennac ma io quando mi fisso, mi fisso), senza risultati. Per me è uno di quei ragazzi fin troppo perfetti, che ti apre la portiera, ti regala fiori, ti riempe di attenzioni, ti regala libri ma che non riesce a far breccia nel tuo piccolo cuore di pietra. In poche parole, sono sempre crollata all'altezza di Granburrone (in questo caso, ruzzolata giù dal dirupo), senza possibilità di ripresa. I canti elfici mi hanno sempre fatto addormentare. Questo è successo prima. Prima che Peter Jackson raccogliesse tutto il materiale ciccione di Tolkien e lo trasformasse in una saga cinematografica su cui ho consumato tutte le mie lacrime, i miei sospiri e le mie corde vocali. Se non fosse stato per Peter, non avrei dato un'altra chance al tomo più abbandonato di sempre, per poi ri-abbandonarlo ma questa volta mettendoci una bella pietra definitiva sopra, senza rimorsi. Cosa ci dimostra tutto questo cincischiare? Che il libro NON è sempre meglio del film, per alcuni. Cosa ci dimostra lo Hobbit (attualmente ancora nelle sale cinematografiche)? Che Peter Jackson è un mostro, e che DI NUOVO il film è meglio del libro. Sì, lo confesso. Il libro mi ha fatto schifo. Ho dato 3 stellette diplomatiche su aNobii ma la verità è che l'avrei voluto rispedire al mittente (per fortuna me l'hanno prestato) dopo venti pagine. Non che sia brutto. Tuttavia. Non riesco ad immedesimarmi in nessun personaggio, la storia è fin troppo spensierata e soprattutto cantano. Sembra un musical. So di poter risultare gretta per l'affermazione che sto per fare ma: la musica lasciamola alla radio o al cinema. Infarcire un romanzo di canzoni di cui non conosceremo mai la melodia per me non ha senso. Non fa presa. Il film, invece, è una meraviglia. I nani sono molto più caratterizzati che nel libro, le loro storie sono più avvincenti ( hanno ben pensato di pescare a piene mani dalle appendici dell'opera tolkeniana) e la visione è un'estasi. Il 3D HFR, per quanto di gran lunga superiore al normale 3D ciofeca, è comunque bocciato dalla sottoscritta che si ostina con convinzione a passare metà film senza occhiali, per non dover assistere all'omicidio dei colori e della fotografia e non farsi venire un gran mal di testa.    

Il Grande Gatsby

Jay Gatsby è il mio alter ego letterario. Ci ho provato ad immedesimarmi anche in altri personaggi ma non sono riuscita,nonostante io legga in maniera vorace e compulsiva, a trovare ancora qualcuno che mi rispecchi così tanto come questo gangster vestito di rosa, perso nel suo "orgiastico" passato mitico, pieno di speranze. Quando ho saputo che Baz Luhrman ne avrebbe fatto un adattamento cinematografico, il primo pensiero è stato: baracconata. Diciamo che Baz non è famoso per la sua sobrietà (Moulin Rouge e Romeo+Juliet). Ero in seria apprensione. Quella nostalgia, quel velo di amarezza, quella poesia bella ma ruvida che c'è in quel favoloso romanzo di Gatsby, dove sarebbe andata a finire? Dopo ho visto il trailer. C'era Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan. C'era Leonardo Di Caprio che sorrideva con quella smorfietta un po' malinconica che è così...Gatsby. C'era lo sfarzo, il lusso gretto, c'era la musica che, come al solito nei film di Baz, non fa nessun tentativo per essere adatta al momento storico ma che miracolosamente e inspiegabilmente ci sta. C'era Leonardo Di Caprio. L'ho già detto che c'era Leonardo? Mancava solo Martin Scorsese e avreste fatto di me una donna felice. La cotta che ho io per Leonardo non è quella che colpisce una brufolosa ragazzina random che vede Titanic. No. è una di quelle folgorazioni che non ti abbandonano più. Ma non dilunghiamoci. Insomma, non vorrei far squillare le trombe prima di constatare che non è venuto nessuno alla festa, né impensierire i vicini mentro improvviso cori di felicità con megafoni e vuvuzela ma, attendo con elefantiache aspettative questo film. Se mi deluderà, non mi riprenderò più. Esce tra due secoli e mezzo, sempre per il ragionamento che tutto ciò che c'è di bello a questo mondo ti fa crogiolare nell'attesa (Estate del 2013).  

Grandi Speranze 

Uscito nelle sale cinematografiche il 6 Dicembre, in sordina. Talmente tanto che io me lo sono perso. Distribuito male, malissimo. In più, non avevo nemmeno tanta voglia di andarlo a vedere. Prima di tutto perché volevo aspettare di leggere il romanzo ( che alla fine non ho letto perché non credo sia tra gli imperdibili di Dickens e io ho veramente una caterva di libri tra cui scegliere e finisce sempre che vince qualcun altro, a discapito di questi classici belli ma deboli e soprattutto deprimenti) poi la colpa è anche di Helena Bonham Carter. Sì, lei. Insomma, non è che mi allettasse molto l'idea di andare a vedere l'ennesimo film in cui lei recita lo stesso ruolo da quindici anni a questa parte: la stronza, leggermente psicopatica. Sai già come va a finire ancor prima che inizi. Per me è No. La vita è troppo breve per guardare film insipidi. E i due personaggi principali mi sembrano due bambolotti. Se invece a voi è piaciuto, ditemelo. Magari ci ripenso. E dirmi che c'è Ralph Fiennes non è una carta valida da giocare bensì un colpo basso. Non posso credere che vi fidiate di questa locandina photoshoppata dal mio parrucchiere Gigi. Lo sceneggiatore però è David Nicholls (One Day), se può consolarvi. Per me, rimane No.

Beautiful Creatures

Tratto dal romanzo omonimo di Kami Garcia e Margaret Stohl, in uscita per Febbraio 2013, diretto da Richard LaGravanese (sembra il nome di un ristorante nella campagna toscana, o sbaglio?).  Il romanzo è stato tradotto in Italia con il titolo stravolto (come al solito) de La sedicesima Luna. Notate l'analogia, no? Sul romanzo non so nulla di nulla. Ad intuito, credo sia il solito young adult carino, venato da fantasy, ma nulladipiù. Gli daremo una possibilità. FORSE. Nel film ci sono Jeremy Irons e Emmy Rossum, ciò significa che ci sono pure io.

Menzione speciale per Educazione Siberiana di Nicolai Lilin, che, nonostante mi tenti ogni santa volta che entro in Chiesa (ergo libreria) non mi decido ancora a comprare. Il film è previsto per il 2013, regia di Salvatores con John Malkovich (tra gli altri). Si preannuncia qualcosa di favoloso. Qui, il trailer.

venerdì 14 dicembre 2012

Guida su come NON far trovare il libro sbagliato sotto l'albero

 
Regalare libri per Natale è una faccenda complicata. A giudicare dai regali ricevuti gli scorsi Natali, mi rendo conto di essere tra le poche che ancora se ne preoccupa. Vi risparmio i titoli imbarazzanti che mi sono trovata tra le mani, i conseguenti tentativi di darmi un contegno e stamparmi un bel sorrisone in volto. Chi di noi non ci è passato?
Credo che il problema sia a monte: consigliare un libro è un'impresa ardua. Bisogna conoscere a fondo una persona, le sue sfumature, le sue passioni. Un libro in fondo è un contenitore. Dentro c'è la vita. La maggior parte dei lettori lo sa. Ma la maggior parte delle persone non è un lettore, ahimè, e non lo sa. Crede che la letteratura sia un mondo noioso e impegnativo, pieno di nozioni e calcoli incomprensibili, un universo accessibile solo a pochi eletti, dove si comunica per sofismi e sillogismi e il contenuto sia impossibile da decifrare. Oppure crede il contrario, che la letteratura sia semplice quotidianità, che la prosaicità e la banalizzazione, la semplificazione di qualsiasi storia siano elementi caratterizzanti e ci si buttano a capofitto, senza aggiungere nulla se non dettagli di vuoto alla loro mente. Ecco spiegato il successo di storie zeppe di clichè, stereotipi e intrecci che strizzano l'occhio alle peggiori soap.
Come uscire da questo ingorgo?
No, in realtà non c'è soluzione. Il consiglio che posso dare è quello di NON seguire i consigli delle librerie. Già è difficile per noi orientarci in questa giungla di romanzi-ciofeca, autori sopravvalutati e le biografie dei calciatori tanto che le librerie stanno diventando sempre più simili ad ipermercati. Se poi ci si mettono anche le loro "proposte" patetiche come i miliardi di libri della Parodi, le sfumature di Twilight e la letteratura rosa, amici miei, c'è un grave pericolo di crollo neuronale.
Se proprio volete regalare un libro, assicuratevi di conoscere bene il vostro pollo, altrimenti, chiedete pure! Giuro che noi lettori non ci offendiamo!
Quali sono i libri "meno graditi" che vi hanno regalato? Oppure siete tra i pochi fortunati ad aver ricevuto sempre ciò che desideravate?

domenica 25 novembre 2012

Al cinema si leggono i romanzi.

La fine del 2012, oltre che per la fine del mondo per i Maya (e per Giacobbo), si caratterizza per l'uscita di numerosi adattamenti cinematografici di romanzi più o meno celebri ma tutti degni di nota. A prescindere dalle riflessioni sul fatto che i soggetti cinematografici non siano più originali (discorso che si potrebbe ricollegare benissimo al concetto di originalità del postmoderno) vorrei soffermarmi su quelli che mi hanno colpito di più. Il post sarà diviso in due parti per motivi di incontinenza verbale della sottoscritta, chiedo venia.
  
Cloud Atlas, romanzo di David Mitchell del 2004

Cloud Atlas è uno tra gli ambiziosi scritti moderni che si ripropone di trovare una conciliazione tra i romanzi d'appendice ottocenteschi e i contemporanei. Dare quindi ampio respiro all'intreccio, una sorta di grandiosità ed epicità che non susciti obiezioni ma senza rinunciare alla narrazione svelta e più varia della modernità.
Sei storie parallele, diverse per ambientazione e tecnica di narrazione, s'intrecciano in questo romanzo caleidoscopico. La magia della letteratura fa sì che possano convivere in una stessa storia esploratori che attraversano il Pacifico, giornalisti nell'era di Reagan, editori in fuga dalla mafia e diseredati che affrontano la guerra in Belgio. La curiosità di scoprire se l'esperimento fosse riuscito c'era. Mi sono data da fare per recuperarlo, in vista del film. Peccato però che il romanzo sia introvabile. I volponi della Frassinelli hanno deciso di ristamparlo, con un nuovo titolo (non più "L'atlante delle nuvole" ma Cloud Atlas, omonimo del film) e una nuova copertina (naturalmente tamarra, con i volti degli attori), sarà disponibile dal 27 Novembre.  
Il film, diretto da quei mattacchioni dei fratelli Wachowski, famosi per il loro amore verso universi da ricreare a loro piacimento, è uscito negli Stati Uniti il 26 Ottobre, mentre in Italia uscirà il 13 Gennaio 2013. Il trailer è molto denso, forse un po' caotico, il rischio è che il film risulti troppo frammentato. Al momento però sono entusiasta, le immagini parlano da sole. Attendo impaziente.



 Vita di Pi, romanzo di Yann Martel del 2001

Yann Martel è uno scrittore canadese a cui piace l'India. Il protagonista del suo romanzo, pluripremiato e acclamatissimo, è Pi, un ragazzo indiano, che naufraga con uno zoo nell'Oceano Atlantico mentre cercava di trasferirsi in Canada con la sua famiglia. Perso in mare, come se la situazione non fosse già abbastanza desolata, si ritrova a condividere la scialuppa con una tigre del Bengala, un orango, una iena e una zebra ferita. Siete confusi? Bene. Questo è l'obiettivo. Mi viene in mente un aggettivo semplice (fin troppo) per descrivere l'immaginario del romanzo: colorato. Uno di quei romanzi cult da avere assolutamente nella libreria, che ridanno vita alla tua fantasia. Me lo sono procurata in fretta e furia (era già nella mia wishlist da molto tempo), conto di leggerlo quanto prima, almeno, prima dell'uscita dell'adattamento cinematografico nelle sale. L'uscita italiana del film è prevista per il 21 Dicembre. Il TRAILER promette benissimo, il regista è Ang Lee (Brokeback Mountain, Hulk, Ragione e sentimento, La tigre - ah, che ironia!- e il dragone).

I miserabili, capolavoro di Victor Hugo, pubblicato nel 1862
 Non vi racconterò la trama. D'accordo, qualcosina: Francia del XIX secolo, criminali in cerca di redenzione, anime misere, sporcizia, ingiustizia e amori impossibili. Insomma, romanzoni dell'Ottocento in cui annegare di piacere. Di Hugo, ahimè, non ho mai letto nulla. Inizierò dal meglio. Appena finirò il tomone di Dostoevskij che giace sul comodino, m'imbarcherò nell'impresa titanica di provare a leggerlo. Naufragherò come Pi?
Il film è in realtà l'adattamento del musical (io odio i musical ma questo, a detta del mondo, è bello) basato sul romanzo. A noi non importano queste sottigliezze. C'interessa solo che ci sarà da soffrire. 
In Italia il film arriverà il 25 Gennaio 2013, mentre gli americani se lo godranno già dal 14 Dicembre. Io, corrosa dalla gelosia e dall'impazienza, lo guarderò in streaming, disperata. Questo film è una di quelle cose troppo belle per cui non si può proprio aspettare ma gli devi correre incontro più veloce che puoi a braccia aperte. Chi ha detto che l'attesa rende le cose migliori mentiva. Il TRAILER è già leggenda ma se servissero altri incentivi il cast è così composto: Hugh Jackman, Russell Crowe, Anne Hathaway, Amanda Seyfried, Eddie Redmayne, Aaron Tveit, Samantha Barks, con Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen.

Anna Karenina, romanzo di Lev Tolstoj, pubblicato nel 1877

Anna Karenina è uno dei miei romanzi preferiti, ho adorato ogni pagina e, come tutti, avrei voluto strozzare Aleksei Aleksandrovič Karenin. La mia furia omicida non si è placata nemmeno con l'evoluzione del personaggio nel corso del romanzo con la notizia che fosse Jude Law ad interpretarlo.
La pellicola mi lascia abbastanza perplessa, per non dire che già la detesto, ancor prima di guardarlo. Perché le iniziali di Anna, argentate e luccicanti, campeggiano sullo sfondo della locandina? Non è una lezione di pool dance.  
È pacchiano, volgare, pomposo e retorico, sgargiante come l'enorme insegna luminosa di un motel. Nessuno dei personaggi rispecchia l'idea che mi ero fatta di loro (o meglio, che Tolstoj aveva descritto).
Anna dovrebbe essere sensuale, una donna dalla statura minuta ma voluttuosa, affascinante, matura, complessa. Keira, per quanto bellissima, è più adatta ad altri ruoli (magari dove non deve recitare). Inoltre non mi convince né in coppia con il marito Aleksei, un imbruttito Jude Law che sembra più lo zio bono giovanile  che si è travestito da Babbo Natale per far felici i nipotini, nè con Vronskij, interpretato da Aaron Johnson. A me Aaron piace moltissimo ma non potete tingere di biondo (anche se quello non è biondo) i capelli di un attore, lasciando le sopracciglia castane. Anche lui uno degli invitati ad una festa di Carnevale. Lev sembra una scopa con un mocio in testa, è bidimensionale, moscio. E questo sarebbe un personaggio lacerato e redento? A me sembra un surfista vestito bene.
In generale, è tutto poco credibile, poco accurato. Manca l'atmosfera del romanzo, sostituita da un'impalcatura teatrale, inquadrature dall'alto a bizzeffe e cori da stadio in sottofondo.
Quel che più mi preoccupa, però, è il sottotesto della locandina: "an epic story of love". Gli sceneggiatori l'hanno letto il romanzo? O vogliono ridurre Anna Karenina ad una storia d'amore tormentata per colpa del marito bacchettone? Mi sono stancata di spiegare ai profani che il romanzo di Tolstoj non è Cime tempestose ma una storia tragica di fede, redenzione, amore impuro, amore puro, passione e morte.
Vi prego, qualcuno li stronchi.  Per i più coraggiosi, il TRAILER.  La pellicola è diretta da Joe Wright (famoso per gli adattamenti cinematografici dei film di Jane Austen e il bellissimo Espiazione di McEwan, si sarà ubriacato a sto giro). Già uscito in UK il  7 Settembre mentre le uscite statunitensi e italiane sono previste rispettivamente per il 9 Novembre e il 21 Febbraio 2012.


Nel prossimo post, vi parlerò di Lo Hobbit, Il Grande Gatsby e Grandi Speranze

Note sparse: Spero di poter leggere i romanzi da cui sono tratti i film prima della visione ma dubito di riuscirci in tempo per alcuni. 
Da questo breve elenco commentato sono esclusi Breaking Dawn parte 2 e The host, per evidenti ragioni.
 

domenica 18 novembre 2012

La bellezza è una ferita - Suttree, McCarthy


Mi sono fidata di Stanley Booth, interprete, non per sua colpa, del commentatore ruffiano che alletta il lettore da quel pericolante e spoglio balconcino che è il retro copertina. Booth definisce Suttree "l'opus magnum di McCarthy...Con ogni probabilità il suo libro più esilarante e insopportabilmente triste".

Ho iniziato con lui ad adorare McCarthy, con Cornelius "Buddy" Suttree. Quest'uomo mesto e invincibile allo stesso tempo, derelitto che si tiene in piedi per puro orgoglio, rissaiolo, ingrato e solitario, sbronzo fino alla radice dei capelli ma dal pensiero lucido. E pensatore instancabile è Suttree, oltre che un mancato maratoneta macina chilometri.

Knoxville, Tennessee, 1951 (non è esatto, la mente di Suttree ci trasporterà avanti e indietro negli anni, senza sosta). Qui, Cormac, ha trascorso la sua infanzia. La scrittura inevitabilmente è contaminata: il luogo è affollato da spettri sensoriali, reminescenze, frammenti, echi autobiografici.
Un posto disgraziato, Knoxville, scavata dal fiume putrido e limoso, che raschia "le sponde come polvere d'ossa, pregno di passato, sogni in qualche modo sparsi tra le acque, niente si perde mai per sempre".
Knoxville con il suo carico di miseria e vergogna, fosca, fredda e inospitale, sterile.
"Eccoci arrivati in un mondo dentro il mondo (...). Deformi o neri o folli, fuggiaschi di ogni risma, stranieri in ogni contrada".  
Questo è il mondo di Suttree. Circondato da ladri, puttane, paria e balordi. Un palcoscenico raccapricciante, squallido, alla periferia dei buoni sentimenti.
Buddy è un pescatore, un mestiere difficile soprattutto se il fiume che ti dà lavoro è paragonabile solo allo Stige. Ma a Suttree non interessano i soldi, vive in una baracca e sembra essere disinteressato alla sua condizione di morto di fame. Come se non volesse cambiarlo, come se l'avesse scelto. 
Il protagonista è avvolto dalla foschia, il suo passato è lacunoso, i contorni non verranno mai definiti del tutto. Quello che sappiamo è che è diverso da tutti i suoi sodales disperati. Il romanzo si concentra su altro. Viviamo con Suttree la quotidianità: la pesca con lo "schifo", la sua imbarcazione mal messa, le lunghe passeggiate sotto la pioggia, il suo manipolo di amici sciagurati. La sua storia, quindi, dobbiamo faticosamente ricostruirla noi, attraverso stralci di conversazioni, intuizioni, piccoli indizi sparsi.  
Chi è in realtà Cornelius Suttree? Di estrazione borghese, colto, ha deciso di rinnegare la famiglia, ha lasciato tutto:  casa, lavoro, moglie, figlio e sicurezze. Un San Francesco maledetto, o meglio, "un bastardo a diciotto carati". Ma questa non è la storia di un irresponsabile che abbandona la sua famiglia come l'ultimo degli stronzi. Almeno, non solo.
Le motivazioni che hanno spinto Suttree a trascinarsi negli abissi dell'alcool, dello squallore, risucchiato dal fiume e dai rimorsi, non sono chiare. Apparentemente non ce ne sono.
Soltanto scavando a fondo, riusciamo ad intuire cosa muove Suttree. Motivazioni esistenziali, non logiche, non razionali. Un' irrequietezza di fondo lo spinge.
Quando con grande sforzo va a trovare sua zia Martha, sfoglia un album di foto della sua famiglia, da lui rinnegata. "Richiuse la copertina su questa galleria di infelici. Sollevando una leggera polvere gialla. Via questi primati dalle mascelle di pietra e i loro annali di vie senza sbocchi e definitiva oscurità. Quale divinità nei regni della demenza, quale feroce dio generato da lobi fumanti di rabbia avrebbe potuto concepire una custodia per anime meschina quanto questa carne".
Suttreee non riesce a sopportare tutto questo dolore. Non riesce ad accettare la sua storia già scritta, il suo vicolo cieco.  Si è ripiegato su se stesso. Così si giustifica anche il rapporto quasi panico che intrattiene con la natura. Si muove in tutt'uno con il paesaggio, a tratti, è il paesaggio stesso. "Che gli elementi della terra mi avvolgano, sarò sempre più granitico. La mia faccia dirotterà la pioggia come le pietre". 
Quasi volesse raggiungere l'atarassia, fondendosi con la natura. Chissà se McCarthy ha mai letto "Uno, nessuno e centomila" di Pirandello. Ma Suttree non riuscirà mai a rinunciare alla sua umanità, non riuscirà mai a "lasciarsi vivere". Consapevole della sua condizione umana, si dibatte alla ricerca di senso. Vorrebbe raggiungere una sorta di stoicismo, ma è costretto a girovagare, condannato all'irrequietezza.

"Questo è il supplizio dei mortali. Speranze distrutte, amore naufragato. Guarda il dolore di una madre. Come tutto ciò su cui mi avevano messo in guardia, è accaduto"
McCarthy racconta la sofferenza atavica, ci fa gustare il senso del tragico, il sapore salato del dolore. La sua scrittura è magniloquente, epica. Ogni dettaglio è suggestivo, potente e ci incatena ad una storia che non ha svolte ma soltanto salite ripide.

Accanto al pescatore esistenzialista, c'è Gene Harrogate, il suo opposto, completamente inconsapevole, immerso nella sua follia. Suttree lo incontra nella casa di correzione, dove Harrogate è finito per aver stuprato delle angurie. Avete capito bene. Una sorta di Huckleberry Finn. Un ribelle, in lotta contro il mondo."Sornione, un muso da ratto, un criminale pervertito con inclinazioni botaniche. Che tornato a piede libero avrebbe fatto di peggio. Garantito. Eppure in lui c'era qualcosa di così trasparente, qualcosa di vulnerabile".
Ecco, quel qualcosa di trasparente e vulnerabile è quello da cui siamo sopraffatti.
Il fatto è che Suttree, nonostante racconti le (dis)avventure di un'America sprofondata in  una "melma cieca", è un romanzo pieno di bellezza, è un romanzo luminoso. La prosa sontuosa, poetica, a tratti epica, con stralci di crudissima meraviglia, lo grida con voce roca. Nonostante si accenni alla "disaffezione congenita" del protagonista, in realtà, Suttree si prende cura degli ultimi, suoi compagni di sorte: Harrogate, il cieco, il capraio, il vecchio ferroviere. Quasi a sottolineare che Suttree non ha perso quel senso paterno, perdendo suo figlio.
 La bellezza la ritroviamo ovunque, anche nelle azioni più basse, più comuni. Il rapporto tra Gene Harrogate e Suttree, in particolare, è meraviglioso. Il modo in cui si cercano, il fatto che non si lascino morire di fame (sì, questo è il massimo che puoi chiedere in questa valle di lacrime che è Knoxville) è struggente. Niente riesce a darti la misura dell'affetto tra un padre e un figlio come quando Suttree va a raccattare letteralmente Gene dal pavimento ghiacciato e lo porta a mangiare qualcosa in una squallida mensa il giorno di Capodanno. Altro che partite di baseball.  
Booth l'ha definito il romanzo più esilarante di McCarthy perché in tutta questa disperazione, non c'è pietismo o rassegnazione silenziosa. Al contrario, non stonano gli elementi carnevaleschi: il grottesco Gene Harrogate, con la sua folle caccia ai pipistrelli, i siparietti comici degli ubriachi, la saggezza e l'astuzia popolare: "Gesù pianse per Lazzaro, disse il capraio. Non c’è scritto, ma suppongo che anche Lazzaro deve aver pianto quando si ritrovò di nuovo in questa valle di lacrime dopo essere stato bello morto per quattro giorni".
È il tono, lo spirito di Suttree ad essere vitale, magmatico. Intendiamoci, è pur sempre un macigno che ti arriva addosso, un pugno in pieno volto, ti procura agonia prolungata insopprimibile mal d'anima. Ma è bellissimo. 
Suttree è come un treno dirottato, in fiamme. Uno spettacolo magnifico e terribile.  

"Uno che sputa sangue per arrivare, per esempio. Che pensa che quando sarà arrivato andrà tutto alla grande. Ma non arriva mai. Non importa chi siamo. Una mattina ti guardi e sei vecchio (...) Quello è stato il mio primo contatto con la furia della vita. Ormai sono quaranta fottuti anni che dura e ancora non ha nessun senso"


Suttree prosegue nell'oscurità, cammina, corre, prende treni, va avanti, anche se mal ridotto. Suttree è sempre e solo di passaggio. Bisogna andare. Bisogna continuamente domandarsi. Quante cose condividono il buon vecchio blasfemo Suttree e il pastore di Leopardi che interroga la Luna! Entrambi condividono il rapporto panico con la natura, entrambi erranti, presi dalla quest, dalla ricerca di senso. La domanda stessa commuove e muove le fila della narrazione (in senso filosofico, la vita stessa) e non la risposta (che non arriverà mai). 

Insomma, la bellezza è una ferita pulsante. E Suttree è bello da morire.

Note sparse: mi sono dimenticata di citare quel gigantesco personaggio che, ahimè, appare poco, pochissimo nel romanzo: Ab Jones, in lotta contro i pregiudizi razziali, la polizia e l'ingiusta giustizia dell'ordine costituito.

giovedì 1 novembre 2012

Espiazione, McEwan. La verità non importa, infine. Se tutto è sofferenza.

Sono nella fase di innamoramento. La peggiore. Quella in cui non riesci a vedere altro che l'oggetto desiderato. Ma anche la fase in cui il minimo accenno di scortesia può irritarti tanto intensamente da risultare ridicolo. In uno di questi momenti di crisi, mi sono allontanata dalla mia adorata letteratura americana contemporanea (a cui pian piano mi sto avvicinando sempre più, vi renderò partecipe degli sviluppi) per una piacevole incursione nel mondo anglosassone.
Al fortunato appuntamento al buio ho incontrato Ian McEwan, celebre narratore, classe '48, da anni nell'olimpo degli scrittori britannici insieme a Martin Amis e a Cristopher Hitchens. Di lui, non avevo letto nemmeno la biografia. Era il caso di rimediare. Durante piovosi pomeriggi di Ottobre si è consumata la nostra passione. “Galeotto fu il libro”: Espiazione.

Un romanzo a tre intervalli: la pace, la guerra, quel che rimane.

La pace
La calura di un'afosa estate degli anni 30' avvolge i personaggi della storia che ci vengono presentati come se ci trovassimo in un romanzo della Austen (e a lei è dedicato il romanzo): campagna inglese, fuori dal tempo, sospesa in una dimensione altra, a metà strada tra prigione e idillio. L'atmosfera è onirica, il racconto del presente è compromesso, i personaggi sovrappongono alla realtà i loro ricordi d'infanzia. I piani temporali si intersecano. In questa realtà torpida, all'improvviso, si affaccia la violenza, l'ipocrisia, la menzogna, l'oltraggio. La complessità del reale irrompe ed infrange il sogno. Ad interrompere la nascente e travolgente passione tra Cecilia, insofferente e nervosa sorella maggiore, e Robbie, figlio della domestica, adottato con le migliori intenzioni dalla famiglia del padrone, arriva l'immaginazione sfrenata della sorella minore, Briony, alla ricerca esasperata di avventure. 
La bravura di McEwan è quella di dipingere un affresco familiare, complesso, mai banale, fatto di corrispondenze e parallelismi. E quindi in questa prima parte, vicina per atmosfere e stile alla saga familiare, ciò che cattura sono le crepe, le incrinature attraverso le quali vediamo cosa scuote i rapporti familiari: la madre Emily vede nella conturbante nipote Lola (felice omaggio a Nabokov), sua sorella Hermione, eterna rivale. Lo stesso conflitto si riflette nell'ostilità tra la figlia Briony e, appunto, la precoce e capricciosa cugina Lola. Le corrispondenze continuano, non si esauriscono nei rapporti tra consanguinei (come quello tra Leon, Cecilia e Briony, fratelli dalle caratteristiche divergenti) ma si estendono agli outsider Robbie e Marshall, in un racconto perfettamente disegnato, che non dimentica di scandagliare la psiche di nessuno.
La polifonia è il tratto distintivo del romanzo. Non solo elemento strutturale ma necessario pilastro che supporta la base tematica del romanzo: la frantumazione del reale. La verità cambia a seconda di chi la vede, di chi la racconta. Le stesse scene vengono riproposte, raccontate da diversi punti di vista. La tecnica dello scorcio è magistrale. Un romanzo di personaggi che guardano dalla finestra scene che distorcono, manipolano. L'illusione della realtà. Personaggi che vedono da lontano, da un punto di osservazione parziale, mal illuminato, da uno spiraglio, un brandello di verità. L'intreccio si sviluppa quindi in un coro di voci diverse, stonate, poco armoniche.

Briony stava già cominciando a raccontare l'accaduto, esattamente per come l'aveva visto

Scrittura come interpretazione della realtà, sempre diversa, sempre deformata dall'occhio di chi vede. La vista non è più affidabile, non è più conoscenza ma è valida solo come interpretazione, e quindi, spesso, solo come un gigantesco, imperdonabile, equivoco. Ecco, che si affaccia un altro tema cardine del romanzo, che si evolverà nelle restanti due parti: la colpa.

La guerra

Nella seconda parte del romanzo, l'ambientazione cambia, è rovesciata. Ci troviamo nel bel mezzo della seconda guerra mondiale.
Una questione privata, d'ambientazione austiana, diventa questione di tutti. Il concetto di colpa si evolve, o meglio, si allarga. Dalla colpa individuale di Briony, di passa alla colpa sociale, colpa civile. “Di questi tempi, chi non è colpevole?”. Lo scandalo è la guerra. Lo scandalo è morire. Una gamba mozzata sulla cima di un albero, è cosa normale. Accettata. Questo è lo scandalo. Il viaggio verso casa di Robbie è un viaggio deformato dal delirio, dalla sofferenza, dalla prostrazione morale e fisica. Anche a questo punto, siamo costretti a rimettere in discussione tutto quello in cui credevamo. Il volto di Cecilia assume contorni sfocati, la colpa di Briony si affievolisce di fronte all'orrore della guerra. Il viaggio di Briony è ancor più doloroso, nei meandri della memoria, della psiche, tra i letti di un ospedale di guerra, cerca di punirsi, cerca di espiare. La verità viene a galla, infine, ma non ha importanza. Se tutto è sofferenza.

Quel che rimane
L'ultima parte del romanzo è quella che fa più male. Restano le ceneri di un sogno. Le macerie delle città bombardate. I brandelli di una memoria fallace, infedele. La verità monca, come i soldati, ci è restituita. A quale scopo? Anche l'amore non è più lo stesso. E come potrebbe esserlo? Le cronache dei due poveri amanti sono una consolazione che non ci riscalda. E l'espiazione di Briony non è confortante ma straziante. Lo scrittore è responsabile solo dei personaggi sulla carta, non si può permettere di falsare la realtà senza conseguenze.

"Non c'è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. È sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo".

Un grande romanzo di madri e di figli, cresciuti senza padri i quali recitano il loro ruolo inconsistente, in absentia.

domenica 21 ottobre 2012

L'epica postmoderna. Cosmopolis, Don DeLillo


 Esistono romanzi che non appartengono agli anni in cui sono stati concepiti. Appartengono al futuro. Cosmopolis di Don DeLillo è uno di questi. Il 2003 è l'anno in cui è stato scritto. Quasi dieci anni fa DeLillo ha caricato la pistola e ha sparato. Dieci anni dopo è arrivato il proiettile che ci ha perforato il polmone sinistro, a pochi centimetri dal cuore. Non è un caso che Cronenberg ne abbia tratto un film proprio in questo frenetico 2012 mentre l'economia barcolla e gli stati corrono ai ripari.
Ci sono diversi punti di contatto tra la parabola discendente che ha attraversato Eric Packer nella sua piccola Odissea in una labirintica New York futuristica e l'uragano doloroso che sta spazzando via la nostra realtà durante questi anni di crisi. È difficile non associare i rivoltosi, comparse distruttive nel romanzo di DeLillo, al movimento capillare di protesta, Occupy Wall Street, nato per denunciare gli abusi del capitalismo finanziario. Sembra aver già previsto tutto, Don DeLillo, persino la torta in faccia a Murdoch.
"Uno spettro si aggira per il mondo" è la cantilena che ringhiano i protestanti. Lo spettro del capitalismo. Lo slogan marxista non ha perso il suo fascino dal 1848. DeLillo ironicamente si chiede in che stato di decomposizione si trovi il corpo, allora. Ma il cadavere non c'è ancora. Potremmo farne una questione semantica: uno spettro in quanto fantasma? No. Proviamo a cercare un'accezione diversa, trasversale: uno spettro in quanto ombra, doppione, l'altra faccia della moneta, la metà di qualcosa. Infatti non sono i “topi” che distruggono le strade ad innescare l'apocalisse. Non saranno le rivolte dal basso a far collassare il capitalismo. Quelle fanno parte del sistema. Sono loro gli spettri, le proiezioni dello stesso mostro.
« – Tu sai cosa produce il capitalismo. Secondo Marx e Engels.
– I suoi seppellitori – disse lui.
– Ma questi non sono i seppellitori. Questo non è altro che il libero mercato. Questa gente è un’invenzione del libero mercato. Non esistono fuori dal mercato. Non possono starne fuori. Non esiste un fuori. […] – La cultura del mercato è totale. Questi uomini e queste donne sono un suo prodotto. E sono necessari al sistema che disprezzano. Gli forniscono energia e definizione. Sono manovrati dal mercato. Vengono scambiati sui mercati mondiali. E’ per questo che esistono, per rinforzare e perpetuare il sistema» .

Allora, chi sono “i seppellitori”? La domanda cruciale. Poiché, nonostante l'ampiezza e la complessità del viaggio, il romanzo è essenzialmente una spirale di morte. La morte metaforica non solo di un sistema economico ma di un'intera civiltà avida e vorace. “La cultura del mercato è totale”.

Chi è Eric?

Prima di capire, chi sarà a seppellire il capitalismo, dobbiamo rispondere ad una domanda più urgente: chi è davvero Eric Packer?
Il ventottenne multimiliardario è un concentrato di potenza. Incarna tutti i valori del cybercapitalismo: aggressivo, rapace, perfettamente efficiente, funzionale. Giovane, invincibile, avvenente. La personificazione dell'economia vincente del XXI secolo: il culto del giovanilismo, del pionierismo, del denaro. Ed è sempre affamato, vorace. Innumerevoli gli spezzoni narrativi che hanno come oggetto Eric che si nutre, senza mai saziarsi.
- È odore di fame, - disse lui. - Ho voglia di mangiare. Tu hai
voglia di mangiare. Siamo persone nel mondo. Abbiamo bisogno di mangiare e
parlare”.

Eric insomma è tutto ciò che deve essere ucciso. Il superuomo deve morire.
Eric non è solo una metafora impalpabile,incorporea. È un personaggio nudo, soggetto al cambiamento. La giornata che ci descrive DeLillo, un'unica giornata nell'Aprile 2000, rappresenta un momento di svolta nella vita di Packer. Cominciano ad apparire delle bollicine anomale sulla superficie perfetta dell'acqua. Al centro del romanzo infatti c'è il viaggio e ogni viaggio è un'evoluzione, per quanto tutto nelle narrazioni del Postmoderno sia ambiguo e virtuale.
Il vampiro dalla coscienza ipermaniacale, la gazza ladra attratta dal “bagliore del cybercapitale”, il santone devoto al progresso e all'accumulo, decide di tornare indietro.
Eric Packer decide di andare a tagliarsi i capelli dal barbiere di suo padre, a Hell's Kitchen, dall'altro lato della città. Un gesto quotidiano che si trasformerà in un'Odissea, e proprio con l'opera di Omero Cosmopolis instaura una relazione d'identità, a partire dalla struttura circolare: il viaggio di ritorno, all'inverso, il nostos. Già una prima anomalia nel sistema perfetto di Eric. Il mondo si precipita verso il futuro, lui torna indietro. Un viaggio regressivo che segnala la volontà di ricongiungersi al padre, morto quando Eric aveva appena cinque anni.
Il secondo elemento disarmonico è l'azzardato investimento di Eric sullo yen. Potrebbe sembrare coerente con il sistema scellerato della speculazione, a cui Eric è avvezzo, ma sembra più un gesto volontariamente distruttivo.
 Il percorso di Eric sarà costellato dalle discromie, dalle alterazioni, l'anomalia sarà la costante compagna del suo viaggio: è ossessionato dall'orrido, dal grottesco, dalla morte, tutto ciò che non appartiene all'invincibile Packer. Eppure, non riesce a distogliere lo sguardo dall'occhio devastato del suo autista né dalla menomazione di un uomo (“Eric osservò il moncherino, impressionante, una cosa seria, una rovina corporea che portava con sé storia e dolore”); Il video dell'assassinio del suo avversario Kaganovic è riprodotto ininterrottamente negli schermi della limousine.
"Eric provava piacere nel vederlo così, con innumerevoli ferite d'arma da fuoco al corpo e alla testa. Era un placido appagamento, la liberazione da un peso inspiegabile che gli opprimeva le spalle e il petto. Lo rilassava, la morte di Nikolajj Kaganovic. Non lo disse a Kinski. Poi cambiò idea. Perchè no? Era la sua esperta di teoria. che teorizzasse pure.

-Il tuo talento è sempre stato strettamente legato alla tua animosità, - disse lei. -La tua mente si nutre di ostilità verso gli altri”.

Sono tutti riflessi dell'asimmetria che percorre il profilo di Eric. Nel romanzo di DeLillo lo spazio esteriore non è che un'ombra del personaggio. Gli avvenimenti a tinte fosche, le prove a cui è sottoposto Eric/Ulisse si collocano in una dimensione onirica, proiezioni di un magmatico dinamismo interno.
Lo stesso senso di ambivalenza è sentito nei confronti della rivolta. Ormai hanno circondato la limousine, sono soggetti pericolosi, potrebbero mettere a repentaglio la sua vita ma la domanda è un'altra: “Eric li invidiava?”. Perché Eric Packer dovrebbe invidiare i dimostranti no-global? C'era qualcosa che lo attirava, la distruzione che stavano producendo, l'adrenalina che stavano provando. Eric è alla ricerca di un “sussulto vero”.
Sta cercando di dare un'altra direzione alla sua vita. Il suo stesso matrimonio è anomalo, alla luce della natura algida di Eric.
“Lì trovava bellezza e precisione, nei ritmi nascosti, nella fluttuazione di una certa moneta”.
Un uomo con questa mentalità perché dovrebbe sposare una poetessa (termine che viene costantemente ribadito nella descrizione di Elise Shifrin)? Per lo stesso motivo per cui vuole disperatamente avere un Rothko. Vuole appropriarsi, possedere qualcosa che non ha, che gli è estranea: l'arte. Il rapporto sessuale con Elise infatti è sistematicamente posticipato, Eric è costretto alla non-azione.
Sono spietatamente efficiente. Tutto questo talento. Questa grinta. Utilizzati”.
La sua consulente d'arte sembra aver capito che dentro Eric si sta insinuando il dubbio sulla sua identità.
Una parte di te è ricettiva i misteri (…) Il talento è più erotico quando è sprecato”.
Eric è alla ricerca di quello che Dostoevskij chiama “il rovinoso elemento fantastico”. La promessa di un “sussulto vero” si profila quando Eric viene informato che una minaccia incombente grava su di lui. Una minaccia di morte, qualcuno vuole ucciderlo. La rovina diventerà, da questo momento in poi, la vera meta del viaggio.
Temeva che la notte fosse finita. Lui cominciava a pensare che non sarebbe accaduto mai. Quella era la prospettiva più tetra di tutte, che là fuori non ci fosse nessuno (…) Indistinta rovina alle sue spalle ma nessun momento culminante”.
La pioggia era assolutamente perfetta, ma la minaccia era ancora meglio”.
Eric è percorso da irresistibili pulsioni di morte che lo porteranno a liberarsi man mano di tutte le sue difese in un climax ascendente di paranoie e ansie che culmineranno nell'uccisione della sua guardia del corpo, Torval, ultima barriera difensiva.
Ecco, chi è il seppellitore.
Nella narrazione, l'assassino di Eric porta il nome di Benno Levin. Ma noi sappiamo che in realtà si tratta di un suicidio indotto.

Chi è Benno Levin?

Benno Levin, che ci viene presentato attraverso una narrazione parallela - intitolata Le confessioni di Benno Levin e incastonata tra i capitoli dedicati al protagonista - è la nemesi di Eric. È il suo contrario ma ne è anche il doppio, l'ombra, lo spettro. Eric e Benno si equivalgono, si incastrano, si corrispondono. L'unica cosa che li congiunge è un dettaglio fisico: la prostrata asimmetrica, come a suggerire che condividono lo stesso corpo con due distinte anime. L'immagine è quella della lingua di fuoco biforcuta, nel ventiseiesimo canto dell'Inferno di Dante.
Se Eric è l'incarnazione del successo, Benno Levin è il ritratto del fallimento. Vive in un appartamento squallido, sporco, lurido, solo, senza famiglia, senza connessioni con il mondo, senza lavoro. Uno degli ultimi. Mentre Eric gode di ottima salute, Benno è ipocondriaco, oltre che folle. D'altra parte, anche Eric nella sua freddezza, è instabile. Il legame di Benno e Eric non è solo metaforico: Benno è un ex impiegato nell'impero di Eric. Dipendeva da lui ma è stato licenziato. Nel confronto finale la situazione è rovesciata, è Benno ad avere il controllo, ad avere tra le mani la vita di Eric.
In realtà, Benno si finge rivoluzionario, tant'è che usa uno pseudonimo (il suo vero nome è Richard Sheets), si protegge dietro un'ideologia anticapitalista ma è solo amareggiato e frustrato dal suo fallimento. Odia Eric perché vorrebbe essere come lui. Credeva che lui “l'avrebbe salvato”.
Entrambi sono personaggi in declino, alla deriva, decadenti. Ancora una volta, un'immagine speculare. Il fatto che uno abbia un enorme successo e l'altro non ne abbia alcuno non cambia nulla, l'esito è identico: “il dolore era il mondo”.
Una narrazione che procede per simmetrie, o meglio, asimmetrie ma che è comunque difficile ricondurre ad uno schema preciso, talmente è carica di suggestioni ed enigmi. DeLillo costruisce un intreccio labirintico, giocando con le categorie di tempo e spazio.

Lo spazio

Gli scenari che dipinge DeLillo sono fortemente caratterizzanti. La New York che ci descrive è tappezzata da schermi, dove scorrono i dati, vera cifra stilistica del nostro tempo: l'informazione. L'ambientazione principale, tuttavia, è la claustrofobica limousine, che è al tempo stesso rifugio per Eric ma anche il mezzo che lo condurrà verso l'autodistruzione, in uno dei tanti gironi dell'inferno, ironicamente il quartiere in cui risiede il barbiere è Hell's Kitchen (Hell in inglese significa, appunto, inferno).  Da un lato, l'automobile è in linea con il carattere del giovane multimiliardario: "voleva la macchina perché non solo era smisurata, ma lo era in modo aggressivo e sdegnoso, un enorme oggetto mutante che sovrasta ogni obiezione". Eric e la sua ossessione per la grandezza. Una delle regole fissate dalla New Economy ( Kevin Kelly in "New rules for a new economy") è "puntare al massimo". Dall'altro lato, la limousine è ciò che si avvicina di più ad una casa. Una casa galleggiante in una società "liquida" (acuto termine di Bauman). Tutto è mobile, fugace, scivoloso. I dati fluttuano, le monete oscillano, Eric viaggia. Altra regola della New Economy: "Niente armonia, tutto flusso". In questo senso, possiamo affermare che la limousine è a tutti gli effetti quel che in letteratura si definisce: cronotopo. Luoghi contaminati dal tempo.
Man mano che il percorso di Eric diventa più irrazionale, allucinato e paranoico anche i luoghi vengono deformati dalla sua soggettività. Si susseguono scene grottesche e oniriche come quella del funerale di un rapper Sufi, accompagnato da riti ancestrali e nenie ripetute ossessivamente (siamo precipitati in un Signore delle Mosche ambientato tra le strade di una New York sull'orlo del baratro?) o la fiumana di comparse nude durante la preparazione di un film.



Il tempo

Tutti corrono verso il futuro. Non a caso, Eric incontra la sua analista durante la sua corsa giornaliera. Lei interrompe il suo esercizio per entrare nella limousine. C'è uno scarto, quindi, tra il tempo esterno di un mondo frenetico, isterico, razionalmente organizzato, compresso, costretto in tempi rigidi e il tempo interno, estremamente dilatato e lento della giornata di Eric, quasi interamente trascorsa in viaggio, proprio all'interno della limousine. Il tempo non è solo una categoria essenziale di narrazione ma anche materia narrativa. La concezione del tempo nella società postmoderna emerge in maniera agghiacciante: "il tempo è un bene aziendale. Appartiene al sistema del libero mercato. Il presente è più difficile da trovare. Lo stanno risucchiando fuori dal mondo per far posto ad un futuro di mercati incontrollati ed enormi potenziali d'investimento".

Conclusioni:

Fin ora, semplificando, si è posto al centro del viaggio di Eric, il suo cambiamento. Non è del tutto onesto. Eric non cambia, Eric è già Benno Levin, solo che non lo sapeva ancora. Ecco perché è lui stesso a parlare di “cambiamento” ma in realtà intende la presa di coscienza, la rivelazione, l'epifania. Dialettica che soggiace all'intero romanzo e che permette un continuo alternarsi di opposizioni, conflitti, scontri che muovono la narrazione. È di questo che si nutre la civiltà occidentale, laddove ormai, il termine occidentale calza decisamente stretto. Concetto che ritorna costantemente nel romanzo, l'esempio che spicca su tutti è proprio il più estremo: la morte per conflitto. L'uccisione di Kaganovic profetizza (attraverso un'immagine riprodotta su uno schermo, indirettamente, come se fosse una premonizione) quella di Eric, i loro assassini sono spinti dalle stesse motivazioni. “È morto perché tu possa vivere”. Mors tua, vita mea. Lo stesso Benno Levin è sicuro di non poter vivere senza che Eric muoia: “Ma come posso vivere se lui non è morto?”. Una visione tragica, hegeliana della storia. “È l'atto di violenza che fa la storia e cambia tutto quello che c'è stato prima”.
Siamo così concentrati ad andare avanti che non ci accorgiamo cosa ci stiamo lasciando dietro, chi ci stiamo lasciando dietro. Così convinti della nostra razionalità, che rifiutiamo l'idea che essa sia così strettamente legata al concetto di violenza, di lotta. Si instaura un forte parallelismo tra la distruzione e il sistema, come se dipendessero l'una dall'altro.

Sai qual è il difetto della razionalità umana? Che finge di non vedere l'orrore e la morte con cui si concludono le sue macchinazioni”.

venerdì 19 ottobre 2012

Il monco: 1Q84, parte terza


Considerato per la sua fabula nuda e cruda, 1Q84 è una storia d'amore. Una romantica e sentimentale storia d'amore. Un amore inseguito, cercato, sperato, desiderato. Il classico modello "Un ragazzo incontra una ragazza". Per rendere le cose più interessanti, Murakami ha deciso di metterci in mezzo Orwell. Alla fine della fiera, io non ho capito che bisogno c'era di scomodarlo. Sì, perché io me lo ricordo ancora cosa pensai (e cosa scrissi) sulle prime due parti del voluminoso 1Q84: "se non ci fossero stati i Little People e i riferimenti alla distopia orwelliana avrei scartato questo romanzo fin dal principio, classificandolo come robetta per trentenni dissociati". Il problema è che i Little People Murakami ce li ha messi (e dovrebbe prendersi la responsabilità sia dei Little People sia di un titolo che pesa). 
Un altro problema, per certi versi, è che Murakami sa scrivere. Questo mi impedisce di bocciare del tutto il romanzo ma ne accresce anche la delusione (delusione che, intendiamoci,è nata già nella seconda parte del romanzo). Forse è proprio questo il mistero: riesce a tenerti incollato alle pagine (più nelle prime due parti che in quest'ultima) anche se in fondo, questo intreccio, nonostante gli sforzi di infarcirlo, risulta una crisalide d'aria. Un bozzolo vuoto. Né mother né daughter. Vuoto. Un universo mai del tutto indagato (e no, non parlo di spiegazioni perfettamente razionali, non sono interessata agli spiegoni) sacrificato per descrizioni feticiste, al limite del grottesco. Dal momento in cui ho ripudiato lo scaffale di letteratura di serie b, speravo di non dover mai più vedere stampata su carta la frase: "Fece pipì, si lavò i denti". 
Pagine e pagine che scorrono tra ripetizioni ossessive, descrizioni fisiche identiche, persino nel lessico, parole che si rincorrono come un serpente che si mangia la coda, ghirigori superflui che confondono il lettore che aspettava tutt'altro tipo di storia. 
Insomma, il motivo distopico è andato al macero. La storia d'amore è diluita in un mare di zuppa di miso, spaghetti e bevande varie. Il motivo poliziesco ,la vera novità di questa terza e conclusiva parte, è del tutto svuotato: che senso ha condurre un'indagine di cui il lettore sa già tutto? L'ennesima ombra, l'ennesimo déjà vu. Ushikawa stesso è un'ombra di quello che prometteva la sua apparizione inquietante e dark nella prima parte del romanzo. La trama si è ristretta, i personaggi appiattiti, l'universo alternativo sbiadito. 

A giudicare dagli accenni comici di cui è, in un tentativo ancor più straniante, riempito il romanzo (l'accoppiata Rasato e Coda di cavallo, parodia delle coppie di poliziotti americane; per non parlare del nomignolo “Testone” con cui viene apostrofato Ushikawa) è lo stesso Murakami ad aver tenuto in poca considerazione la trama generale, il disegno d'insieme, il filo rosso, il grande marchingegno che dovrebbe muovere la macchina narrativa. Murakami ha preferito concentrarsi sui personaggi: narcisisti fino alla nausea, si rimirano nello specchio, rincorrendo se stessi senza sosta, abbozzando appena nuclei tematici come la reincarnazione, il potere, l'estremismo. 

Murakami è uno scrittore della suggestione, ribatterebbe qualcuno. La suggestione, però, è un attimo, un momento, un'epifania. O una serie di epifanie. Al contrario, gli elementi "fantastici" di 1Q84, vengono indagati fin troppo per essere solo delle suggestioni e fin troppo poco per essere davvero sviluppati. Ecco, perché, il monco. La dialettica tra le due dimensioni, quella dei simboli, mitica, onirica e quella del reale, crudo, scarno, concreto, l'ha portato al successo ma in quest'ultima parte è disarmonica, scattosa. Fluttua lenta in un oceano di realismo di legno.

Uno degli ultimi paragrafi recita: “Siamo venuti in questo mondo per incontrarci. Non lo sapevamo, ma era questo lo scopo per cui siamo finiti qui dentro. Abbiamo dovuto affrontare tanti ostacoli, cose assurde, inspiegabili. Cose strane sanguinose, tristi. A volte anche belle. Ci è stato chiesto un giuramento, e l'abbiamo fatto. C'erano delle prove da superare e l'abbiamo superate”.

Davvero? Voi avete visto tutto questo in 1Q84? Un viaggio? Io ho letto solo tanti scorci sconnessi, che, alla fine, sono stati incollati insieme goffamente.