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sabato 20 giugno 2015

L'eterna sera di Silvio D'Arzo


C'è questa espressione che non mi va più via dalla testa: "spolveriamoci il cuore e non pensiamoci più". Sembra una di quelle frasi simpatiche, ironici inserti colloquiali che gli scrittori usano spesso.  Io invece credo che racchiuda tutta la tristezza del mondo. E D'arzo ci avverte: "quando ci si mette il mondo sa ben essere triste, però. Ha perfino intelligenza in questo". I racconti provano a sussurrarci le cose che si possono dire solo al buio, che non si ha il coraggio di riportare del tutto alla luce. Come la signora Nodier. Una vedova che, senza morire, ha arrestato il corso della sua esistenza. Quando un soldato le riporta a casa l'amata cagnolina del marito defunto, non riesce a sopportarne la forza della vita e la fa imbalsamare.
La dimensione di questi brevi racconti è quella di un'infelice (ma sopportabile) quiete, quella di un'eterna sera. I personaggi sono quasi tutti senili, ipnotizzati dagli spettri dei ricordi. Attendono. Più che le parole (per cui i protagonisti provano addirittura vergogna), parlano i colori del cielo di montagna: il viola, il blu, il grigio, l'ottone. Stiamo sospesi, non nella malinconia, né nel dolore né nel rimorso (come ci avverte il protagonista alla fine del racconto principale). Bensì in un grande vuoto. "Qualcosa era successo, una volta, e adesso era tutto finito". 
Per fortuna Henry James si fa sentire a distanza di molte lune (che D'Arzo ama tanto). La sua influenza, sebbene ovvia, non è ingombrante e questa raccolta è una gemma. Lo stesso non si può dire per l'edizione Einaudi del 1980. Capisco tutte le vicissitudini editoriali che ha passato questo piccolo libriccino però non si può trovare nel testo "Cecof" al posto di Cechov, e una cascata di virgole messe a caso, due punti ripetuti come se fosse uno scritto in codice morse ecc.. Noto con piacere che è stata fatta una nuova edizione (in biblioteca purtroppo era disponibile solo una copia malconcia dell'edizione trapassata) e spero che sia stata corretta (o quanto meno, rivista!) la singhiozzante punteggiatura. Mi rifiuto di credere che D'Arzo la usasse in maniera così scellerata.
Ad ogni modo, leggetelo, amici.

lunedì 16 marzo 2015

Annientamento di Jeff Vandermeer. Luoghi non segnati sulle mappe.


“L’osservazione di tutto questo ha soffocato le ultime ceneri del mio irresistibile impulso a conoscere ogni cosa…”.

Quattro donne senza nome si avventurano per scopi scientifici all’interno dell’Area X. Si tratta della dodicesima spedizione all’interno della zona: un’area disabitata sulla costa americana che la natura ha iniziato a reclamare per sé. Un luogo altro, in cui le leggi fisiche sembrano rispondere ad altri dettami, in cui opera una Forza che altera l’ambiente in modi imprevedibili e innaturali. La Southern Reach, segreta agenzia governativa, è incaricata di indagare sulle anomalie del luogo attraverso cicliche missioni di scienziati, il cui compito principe è l’osservazione. Scrivono i risultati della loro esplorazione su un diario (e sono proprio le pagine del diario della Biologa che leggeremo). Sono vietate le comunicazioni verso l’esterno così come l’uso di strumenti tecnologici. 

Annientamento è caratterizzato dal ritorno al primitivo. Jeff Vandermeer ci introduce in un contesto selvaggio, primordiale, fitto di mistero, al confine con il paranormale. Adesso che siamo così immersi nella cultura tecnologica, in cui si ingigantiscono le ombre degli incubi proiettati dalla fantascienza, Hal 9000 e leggi della robotica sono messi da parte. 
La lotta ingaggiata in Annientamento non riguarda l’uomo e le sue creature. Più vicino è forse Alien e il suo predatore dall’intelligenza spietata. Tuttavia il senso incombente di minaccia inevitabile - così ben reso dalll’autore - non proviene dall’esterno, nello Spazio sconfinato. L’attenzione è rivolta al nostro pianeta. Perché cercare altrove se così poco percepiamo e conosciamo del nostro mondo, di cui ci crediamo i padroni? 

Tutto ciò che succede nell’Area X è infatti oltre la capacità dei sensi umani di capire e orientarsi. Figuriamoci di controllarne l’ambiente. Apprendiamo che l’Area si è formata a seguito di un disastro ecologico, causato dall’azione umana. La zona contaminata è la risposta della Natura agli effetti devastanti dell’umanità. Anziché considerare il nostro pianeta come qualcosa di dato ed immutabile, Vandermeer ci apre gli occhi su come la Natura sia sempre in fase di mutazione, imprevedibile, adattivo. E se la Terra avesse creato una forza superiore all’Uomo, che possa contrastarlo, assimilarlo, annientarlo? 

La narrazione è investita da una grande attenzione alla percezione. L’autore possiede un’intensa consapevolezza di quanti mondi nascosti vi siano al di sotto dei paesaggi naturali e sulla fallacia dei sensi umani di percepirli. Gioca su questa mancanza.  
La protagonista di Annientamento vede ribollire l’inspiegabile, tenta di risolvere l’enigma dell’ignoto con mezzi razionali (con quanta sicurezza all’inizio si aggrapperà al suo microscopio!). Chi meglio di lei? Biologa, esperta degli ecosistemi in transizione, figlia unica ed esperta negli usi della solitudine, un’osservatrice perfetta, che si mimetizza, si confonde con il paesaggio. Il suo soprannome è uccello fantasma
Probabilmente proprio grazie a queste sue capacità di adattamento, subisce da subito l’influenza dell’Area X, ne è infettata. Diventa quindi una narratrice inaffidabile: la sua percezione dell’ambiente è amplificata, distorta. Il suo è un viaggio incubo che la porterà ad un mutamento totale, una metamorfosi.

Vandermeer sembra andare oltre al genere del body horror alla Cronenberg. Annientamento è un lavoro che fa dell’ibridazione una cifra stilistica, non solo il nucleo narrativo. La contaminazione è presente nell’ambiente, nei personaggi, nello stile. è possibile creare dei parallelismi con Lost, Alien, Stalker e autori come Lovecraft, China Mieville, Clive Barker. Le influenze sono tante, la rielaborazione che ne fa Vandermeer si rifiuta di essere etichettata. 

La corrente è quella del new weird che accoglie autori anti-tolkeniani, impegnati nella creazione di mondi ibridi, al confine tra fantasy e fantascienza, originali e rigorosamente verosimili. Altra caratteristica è quella di arricchire la narrazione di un tessuto simbolico fitto e donare una complessità psicologica ai personaggi che permetta di superare le distinzioni canoniche tra bene e male. Proprio questo elemento aggiunge ancora più ambiguità alla storia. Viene in mente la citazione di Lorne Malvo in Fargo (serie tv): “There are no saints in animal kingdom. Only breakfast and dinner”. Non ci sono santi nel regno animale: solo colazione e cena. L’Area X è un luogo ancestrale, l’orientamento (soprattutto morale) è reso vano dalla più micidiale delle tecnologie: il mimetismo. Distinguere la realtà dai suoi camuffamenti è decisivo per la sopravvivenza. 

Annientamento è una fionda tesa. La fascinazione verso il mistero insondabile non basta, ciò che dona bellezza inquietante alla storia è la vena immaginifica dello scrittore, le brillanti riflessioni sui limiti del sapere e soprattutto l’indagine nella mente della protagonista. Che cosa l’ha condotta davvero nell’Area X? Qual è la sua storia?
Il romanzo è un’angosciosa apnea, disturbante e contorto, ti lascia in uno stato di indeterminatezza. Le risposte sono poche ma non inesistenti o incoerenti (qualcuno ha citato Lost una volta di troppo). La filosofia è questa: “Quando siamo troppo vicini al cuore di un mistero, non c’è modo di riallontanarsi per vederlo nel suo insieme”.
Dobbiamo, come la Biologa, accontentarci di indizi, deduzioni, approssimative e parziali.

“Mi rendo conto che tutti questi ragionamenti sono incompleti, inesatti, imprecisi, inutili. Se non ho vere risposte è perché non sappiamo ancora cosa chiederci. I nostri strumenti sono inutili, i nostri metodi approssimativi, le nostre motivazioni egoistiche”. 

Annientamento è un luogo non segnato sulla mappa: difficile inquadrarlo; inoltrarsi al suo interno può essere azzardato ma, una volta entrati, la curiosità avrà la meglio. 

Note a margine:
L'aspetto che mi ha più colpito del romanzo è l'attenzione meticolosa al mimetismo. Io ho delle teorie riguardo alle misteriose creature della storia che si rifanno precisamente a questa capacità naturale che trovo stupefacente e pericolosissima. Attendo di parlarvene prossimamente in un post zeppo di spoiler.
Qui potete trovare un elenco di tutti i libri che hanno aiutato l'autore alla composizione del romanzo. Domani, 17 Marzo, sarò a Torino per partecipare ad un incontro con l'autore, insieme ad altri blogger, giornalisti e scrittori. Non vedo l'ora.
Annientamento è il primo romanzo della trilogia dell'Area X che uscirà nel corso di quest'anno, sempre per Einaudi.
La bellissima copertina è opera di LRNZ (autore di Golem, Bao). Si è occupato anche delle copertine degli altri due volumi della trilogia a cui potete dare una sbirciata qui.

venerdì 24 ottobre 2014

Come finisce il libro? E i lettori?


Come finisce il libro? Questo è la questione del saggio di Alessandro Gazoia, noto già ai lettori del web con il nome di jumpinshark, edito da minimum fax  quest'anno. Ottime riflessioni sull'editoria trendy e sulla retorica trionfalistica con la quale accogliamo inconsapevolmente pericolosi monopoli come Amazon. La disamina coinvolge temi che animano da tempo il mondo dell'editoria come l'autopubblicazione, la pirateria digitale e il dibattito culturale sul web. La scrittura di Gazoia riesce ad essere acuta e pungente, senza mai cedere allo snobismo provocatorio o all'antipatica compiacenza delle elite culturali ma, anzi, muovendosi disinvolto tra i campi della cultura pop. In linea con un approccio concreto e vivace, l'autore decide di fare appello costante al lettore. L'interrogatio, oltre a rendere la lettura più partecipativa, sottolinea l'importanza e l'unicità del ruolo del lettore nel mondo editoriale oggi. Non la scambiate per una ruffianeria. La lettura è in nuce un atto che ormai assume pratiche diverse e uniche per ogni soggetto. Tutte da valutare ed interpretare. "Come finisce un libro" lo raccomando per un consumo consapevole della literary fiction, soprattutto a chi si sente soffocato da promozioni commerciali e opzioni di acquisto volte al Cliente e non al Lettore. Consiglio anche un altro saggio complementare (oltre a quelli già citati nelle note del libro): "Rete padrona - Amazon, Apple, Google & co. 
Il volto oscuro della rivoluzione digitale" di Federico Rampini, edito da Feltrinelli (2014).  

La lettura di questo libriccino è avvenuta a ridosso dell'uscita di questo video in cui espongo il mio parere sulla rincorsa del successo facile da parte di editori poco lungimiranti. Ma parlo anche, come fa Gazoia, del cambiamento nella fruizione dei prodotti culturali (dovuto in parte allo sviluppo di sempre più accessibili interfacce) e sul destino dell'entertainment. 



Sotto il video si è sviluppato un interessante confronto di idee che vi invito a leggere, almeno per farvi un'idea più chiara riguardo la mia opinione, che in video spesso è intrecciata alla mia verve, per alcuni troppo infuocata. Un commento tra i molti, ho giudicato particolarmente fertile. 

Enrica:
"Il punto è che la sempre crescente immediatezza dei mezzi di comunicazione non viene sfruttata nel modo giusto. Se invece di utilizzarla per bombardare i lettori (o come giustamente dici, i consumatori) con informazioni e promozioni, venisse usata per creare momenti di condivisione, di confronto, di scambi di idee, la lettura sarebbe maggiormente interpretata come un'esperienza e un'esperienza si individuale, ma anche collettiva. Non è un caso che la gente ti scriva che guardando i tuoi video ha riscoperto l'amore per la lettura! proprio perché si crea quel momento di aggregazione e anche di crescita che la "letteratura di consumo" (come ignobilmente la si definisce) non potrà mai dare. Alla fine di cosa di tratta? Semplicemente di scegliere tra un beneficio di brevissimo termine e uno che potrebbe produrre i suoi effetti anche per il resto della vita. Solo che spesso le persone non sanno proprio che ciò che cercano e di cui hanno bisogno esiste già. In questo senso apprezzo che molte librerie si stiano evolvendo in café letterari: perché se anche la motivazione di fondo è economica, non è in contrasto con una visione strategica ( e quindi di lungo periodo) del modo di concepire la letteratura, come appunto momento di condivisione tra persone accomunate dalla stessa passione, prima che razionali consumatori".

A proposito dei café letterari, ultimamente mi ritrovo a frequentare sempre più spesso una libreria, la Gogol&Co a Milano, dove per altro ho acquistato il libro di Gazoia. Io mi reco lì per studiare, ma tra una pausa e l'altra ne approfitto per leggiucchiare e per origliare i discorsi del librario con fornitori e altri personaggi. Vi giuro che è vero! Ogni giorno che mi sono recata lì, l'ho sentito discutere animatamente di editoria, di librerie indipendenti e di come si possa sopravvivere in questo mondo di squali, facendo un lavoro corretto e soddisfacente dal punto di vista umano e culturale. Io ero appollaiata al piano di sopra e pensavo: "Allora si può fare!". 


(Qui trovate una mia incursione nella libreria milanese, insieme ad altri posti dedicati alla lettura che ho esplorato) 


Credo fermamente nel fatto che le persone siano disposte a spendere per la letteratura tanto quanto sia il valore ad essa riconosciuto. Se attribuiamo al libro un prezzo al ribasso - come qualsiasi altra merce - nessun lettore vorrà spendere più di quel valore fissato (magari da un bollino, a 9,90 euro). Se escludiamo dall'equazione la variabile artistica e umana, qualsiasi libro costerà sempre troppo ed è così che abbiamo iniziato a perdere i lettori. 

giovedì 18 settembre 2014

Milano, i libri, le valigie e il tram

Mi è capitato di rileggere dei post che ho scritto negli ultimi settant'anni, evidentemente sotto una cattiva stella. Si aprivano tutti con una domanda retorica. Un'orrenda, inelegante e inadeguata domanda retorica. Indi per cui farò uno sforzo sovrumano e cercherò di NON iniziare con tale sgradevolezza. Andiamo dritto al punto. Ho cambiato città. Mi sono immessa anch'io nella genia degli studenti fuori sede. Un'altra meridionale a Milano.



Saltiamo la riflessione socio-economica-storica-psicologica da servizio di Studio Aperto, e passiamo alle cose allegre. Ancora le lezioni non sono iniziate. Sono libera di scorrazzare per la città, perdermi, prendere i tram sbagliati, mangiare in posti troppo costosi per le mie tasche, camminare fino a farmi venire il mal di schiena e le vesciche ai piedi.

 Da una settimana faccio la turista. Solo che al posto delle calamite per il frigo, compro quaderni, in vista della mia entrata trionfale all'università. No, davvero, ho una malattia grave. Ne ho comprati sette in cinque giorni. Non dovete farmi visitare il reparto cartoleria, divento indomabile. Siete mai entrati in posti come Muji o Tiger? Ecco, allora potete capire. Seguono a mena dito l'antica arte dell'ipnotismo per sedurti, convincerti di avere un disperato bisogno di oggetti inutili e leziosi, spremerti come un limone e abbandonarti poi sul ciglio della strada come il più miserevole dei clochard, provvisto altresì di un portabanane e otto chili di incenso.



Il paradosso è che ho la netta sensazione che tra poco conoscerò meglio Milano che la mia città natale. Mi ha fatto riflettere il commento di una ragazza alla mie peregrinazioni: "Io vivo a Milano da un po' e pare che tu in una giornata abbia visitato più posti di me in quattro anni". La verità è che ho sempre sentito parlare di Milano, è uno di quei poli d'attrazione che non puoi fare a meno di subire, almeno per me è stato così. E ora che ci sto, mi sento come risucchiata. Ne voglio assaggiare ogni pezzetto. Ho tutta la foga di una turista che ha a disposizione solo una settimana per godersi una città. Ho lasciato a casa la pigrizia (qui sto usando un'iperbole, signori) e mi è rimasta solo tanta voglia di esplorare.

MOMENTO INTELLETTUALE Sto girando tantissimi musei, li scelgo attraverso un semplice criterio: devono essere gratuiti. Almeno, all'inizio cercherò di trattenermi perché potete comprendere il fatto che mi sono appena trasferita e devo ammortizzare certe spese. No, non ho un lavoro, ahimè. Mi ha sorpreso notare che in effetti la scelta non manca. Il Museo del Novecento (personalmente non mi ha elettrizzato) e le splendide Gallerie d'Italia, ad esempio. Le riduzioni di prezzo sono comunque onnipresenti. Le mie prossime tappe sono: il museo Poldi Pezzoli e il museo di scienze naturali. La meta più ambita rimane la Pinacoteca, che però attendo di visitare la prima Domenica di Ottobre. Se non lo sapeste già, vi ricordo che in quella data, tutti i musei sono aperti gratuitamente al pubblico. Milano comunque non manca di esempi di magnifica arte anche en plein air. A parte la monumentale architettura, ci sono tantissimi artisti di strada (specie Corso Vittorio Emanuele).
FINE MOMENTO INTELLETTUALE
Allego speciali foto della mia esperienza al museo, coronata dalla sirena assordante dell'allarme fatto scattare da me medesima accidentalmente, cercando di aprire una porta che avrebbe dovuto portarmi alla toilette ma che evidentemente conteneva le sacre reliquie di qualche nobile briccone.





Il lato più curioso della vicenda è che ho modo di privilegiare un aspetto delle esplorazioni in città aliene che spesso viene del tutto trascurato, appunto per mancanza di tempo. I libri. Ho sempre pensato che uno dei tanti modi di giudicare una città fosse legato al rapporto di quest'ultima con la lettura, i librai, le biblioteche, i lettori e persino i non-lettori. è difficile che Milano non riesca a soddisfare le esigenze di un lettore onnivoro. C'è tutto ciò che avete sempre sognato. Le librerie sono tantissime, da quelle più grandi (come la Hoepli, vicinissima al centro che offre anche tantissime letture in lingua) a quelle più piccine; dalle grandi catene alle librerie indipendenti, librerie tematiche (la libreria del mare e della montagna!), diversi punti vendita Libraccio, e non dimentichiamo le bancarelle di libri usati per le strade.
Adelphi al 40% in Piazza Fontana
La trovate a Cairoli, è adorabile




















Solo da una settimana sono arrivata e già ne ho girate parecchie. Dei piccoli eden per noi lettori. Potevo non approfittarne? Sì, a Milano da pochi giorni e ho già comprato un libro. Qualcosa mi dice che costruirò casa mia, usandoli come mattoni.


Come ci insegnano i peripatetici, passeggiare è ottimo per riflettere e partorire idee. A me ne è venuta in mente una semplice. E se vi portassi con me? Visitiamo insieme Milano, piena di angolini nascosti e paradisiache oasi per noi lettori. Suggerimenti? Consigli? Ricordate che sono solo una principiante, guidatemi voi. Una volta raccolto il materiale, filmerò tutti i miei viaggi in questa città di carta e spero di superare la mia goffaggine e il mio imbarazzo tecnologico per montare un video con i fiocchi. Spero che l'idea vi entusiasmi. Io m'impegnerò a filmare tutto decentemente. Vi assicuro che riprendere in pubblico è più imbarazzante di quanto crediate. Ma ho l'alibi della turista, sicché.
Vi risparmio i dettagli sul vero e unico tour che sto facendo: quello culinario. Pensate che sono riuscita a mangiare persino pane e panelle (quelle buone, quelle vere!)quassù. Chi l'ha detto che si mangia male? Forse i milanesi. Ma fin ora io di milanesi non ne ho visti, secondo me non esistono. Milano, New York d'Italia?
Antica Focacceria San Francesco, Via San Paolo

domenica 22 giugno 2014

Considerazioni (lunghe e noiose) su La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro


Il futuro si è deteriorato, sembra che non ci attenda niente di buono, su questo sono tutti d'accordo, quando ero piccolo non era così: il futuro aveva qualche problema ma complessivamente era radioso, lucente, interplanetario, interstellare, intergalattico, trans-spazio-temporale.

Per Ivo Brandani, un soggetto residuale fuori dal ciclo riproduttivo (un vecchio ingegnere di sessantanove anni), le uniche dimensioni temporali possibili sono il passato e il presente. 
L’intero romanzo è giocato sull’alternanza tra questi due tempi narrativi. L’arco di una giornata - il ventinove Maggio 2015 - è lo spazio riservato alla disamina di una nauseante contemporaneità. I capitoli sono scanditi dall’orologio: dalle 9:07 A.M a 7.47 P.M. Un’interminabile giornata trascorsa con la debordante contrarietà del protagonista. Ivo attende all’aeroporto di Sharm-el-Sheik il volo di ritorno a casa. Si trova in Egitto per ricostruire con materiali sintetici la barriera corallina. In questo speciale limbo, l’unica dinamicità è offerta dalle sue associazioni mentali - echi di Proust e di Celine - che generano un torrenziale monologo, un feroce attacco al presente.

Il presente che descrive Pecoraro è in realtà un futuro prossimo, appena ad un anno di distanza dal nostro. Un anno che nel secolo accelerato in cui viviamo può anche significarne dieci. I riferimenti a questa realtà sono assoluti: le città sono indicate come Citta di Dio (Roma) o Città di Mare. Con le maiuscole anche i luoghi del potere, freddi, distanti: il Governatorato, l'Amministrazione, i Distretti. I luoghi decisionali sono lontani dall'individuo, vuoti. Tale descrizione di una burocrazia spersonalizzante ricorda Saramago (il Centro nel romanzo La Caverna, in particolare). E non è in ogni caso per niente lontana dal senso di smarrimento, solitudine e inerzia che appartiene al nostro tempo.  

Il fiume straboccante di parole contro la contemporaneità non è solo il risultato dell’IMS (Irritable male syndrome anche conosciuto come il ronzante rosicamento dei vecchiardi, a cui tutti noi siamo abituati). Ma è una disamina acutissima della realtà coeva. Il quadro è fosco. 
Un presente fasullo, vuoto e privo di bellezza. Il pianeta è ormai per metà in decomposizione e per metà plastificato, popolato da non-morti continuamente rigenerati dalle sostanze chimiche, risollevati dalla chirurgia, sempre più lucidi, artificiali. La vita ancora più lunga, quasi eterna, dove tutto è una copia di una copia di una copia. Persino il cibo è assemblato artificialmente. Un fake planet, devitalizzato ma in cui è quasi impossibile morire. Anzi, si direbbe che morire sia faccenda d’altri tempi.  
Stiamo lentamente transitando dal naturale al post-naturale, una surrealtà dove tutto è immagine di un originale scomparso. 
E Ivo - con il Rifacimento dei fondali marini in sintetico - contribuisce alla ricostruzione di un mondo fantoccio, alterato, imitazione di una realtà ormai perduta. Il tema della distruzione e della ri-costruzione si intrecciano: Ivo fabbrica un mondo nuovo mentre porta alla rovina quello vecchio, assume il doppio ruolo di homo faber e homo destruens. 
La sua carriera di ingegnere strutturista infatti non l'ha portato a progettare proprio un bel niente. Che contribuisca al disastro, allora. 

Io sto al gioco, mi piace l'Apocalisse, mi ci trovo bene, ci godo...

I toni apocalittici con cui viene descritta la contemporaneità sanciscono il collasso del mondo in cui è cresciuto. L’ingegnere si trova in una realtà dal volto irriconoscibile, da cui si sente già scollato, lui e la sua mentalità novecentesca. Vorrebbe passare gli ultimi stralci di tempo a sua disposizione assistendo ad un grandioso disastro - qualcosa di veramente emozionante, finalmente - è ossessionato dal senso della catastrofe. Non si inverte la freccia del tempo , gli direi a questi qui dietro il banco. Tutto deve andare a male, marcire, degradarsi, rovinarsi, fottersi definitivamente. Ma non ci sarà nessuna esplosione, solo un lento deteriorarsi che cambierà il volto del mondo. E Ivo si si sente già prossimo alla fine. Come i soldati che muoiono l’ultimo giorno di guerra, come a quei bambini che presero la poliomielite quando il vaccino era già in distribuzione. Sulla soglia di una nuova era. 

A queste amare invettive, si alternano capitoli dedicati alle reminiscenze del suo passato. Sgorgano dalla mente di Ivo ricordi a ritroso, da quelli più recenti all’infanzia, fino ad un finale fuori dal tempo. Dunque mentre la giornata del ventinove Maggio procede in senso orario - dalla mattina alla sera - il passato di Ivo si ripropone in senso antiorario, dalla vecchiaia alla sua nascita. La narrazione procede perfettamente  su questi due binari temporali, alternando questi due ritmi. La struttura del romanzo fa sì che la fine di Ivo - sappiamo dal primo capitolo cosa lo ucciderà - coincida con l’inizio della sua vita. Un motivo circolare che si ripresenta costantemente: il viaggio di ritorno dall’Egitto, il ritorno con la mente alla casa d’infanzia, al nucleo familiare d’origine e soprattutto al padre, paradigma tirannico e irrefutabile. 
Se inoltre il 2015 aveva caratteristiche vaghe, un contesto futuristico, il passato di Ivo al contrario ripercorre la Storia d'Italia. Un contesto a noi familiare, che viene però riletto con una nuova chiave da Pecoraro.
Queste immersioni nel passato - alcune rappresentano dei perfetti racconti autoconclusivi - danno una giustificazione al cinismo dell’attuale Brandani. Il suo vissuto è segnato dall’inadeguatezza e dai fallimenti. La vita lo ha attraversato, e lui l’ha subita. 

EFFETTO CORIOLIS: ogni traiettoria subisce una curvatura, talvolta fino ad avvitarsi su se stessa...Non sei mai dove avresti voluto essere, non arrivi mai nel punto dove hai messo la prua, ma sempre da qualche altra parte e ti dice bene se riesci a finire nei pressi del tuo obiettivo...Io, ammesso che avessi un obiettivo, non solo l'ho mancato in pieno, ma da qui nemmeno lo vedo più

La vita di Ivo scorre in tempo di Pace ma in realtà è un susseguirsi di conflitti meschini da cui uscirà sempre sconfitto. 
Il conflitto Originario è quello con il Padre, figura ostile e fascista, fedele a due unici Valori: Coraggio e Orgoglio. Due qualità che sfortunatamente Ivo sembra non avere. Padre costruisce per lui un mondo non-alla sua altezza, di fatto castrandolo e rendendolo un inadeguato-a-vita. Ivo così chiuso nel suo invernale voler restar dentro è spinto a forza fuori. Un fuori barbarico e primitivo: il mondo dei ragazzini, in cui si riproducono le dinamiche sociali della prevaricazione e della violenza. Ivo è persino una pippa a giocare a calcio, qualità invalidante. Nonostante il dopoguerra, il boom economico e l’ottimismo degli anni Cinquanta, il microcosmo della Città di Dio nasconde una realtà vile e brutale.  La lotta sociale è spietata, l’unico modo per galleggiare è menare. Farsi riconoscere come uno che mena garantisce lo status di dominante
La giovinezza di Ivo squarcia subito qualsiasi illusione. Il grande Male della Pace è la lotta per emergere, per imporsi sugli altri. Un conflitto eterno. Il Tempo di pace è la lotta di tutti contro tutti, la violenza è del tutto privata, egoistica. Non c’è una guerra - e quindi una violenza imposta, obbligata - che ti costringa a definirti secondo valori civili condivisi come quelli di Patria o che ti spinga a fare i conti con la sopravvivenza, con la parte più intima di te stesso. L’alternativa vertiginosa tra vita o morte non esiste nel tempo di Pace. La Pace ti cuoce lentamente ti culla con antidepressivi, ansiolitici e ti confonde, ti istupidisce, ti isola. 
In questo caos in cui Ivo fatica ad imporre la sua individualità (se lo ripete sempre:Brandani tu non sei un combattente, non sei un competitore…) il protagonista cerca un ordine alternativo alla crudeltà del comandamento homo homini lupus. Tenta con la rigidità del Pensiero: si iscrive alla facoltà di Filosofia. è coinvolto nelle lotte del 68’ e gli basta poco per capire che qualsiasi gruppo -persino quelli che propugnano idee di uguaglianza e di fraternità - nascondono la stessa ossatura, naturale negli uomini,  gli stessi meccanismi di dominanza e sottomissione, lo stesso gregarismo. 
E d’altronde Ivo capisce di essere inadatto alla lotta politica, qualsiasi scenario di battaglia lo atterrisce. 
Sono un non-eroe, un non-coraggioso, un non-dominante, uno che non ci crede, che non crede a niente, che non ha mai creduto a niente…sono uno-che-molla, uno che per lui niente conta, se non restare in vita nelle migliori condizioni possibili    
Durante un viaggio in Inghilterra, si trova davanti al Firth of Fourt Bridge. Ha un’illuminazione. 
Se la Natura lo ha tradito, se è inadatto a qualsiasi contesto di selezione naturale - e quindi inevitabilmente di prevaricazione fascista e violenta - allora, la Scienza, la costruzione, possono essere usate contro la Natura. La filosofia non aveva portato ordine, non aveva dato un Senso ma soprattutto non aveva dato un risultato visibile. La Scienza, al contrario, opponendosi ai diktat naturali permette di unire ciò che è separato, può creare dei ponti.
A seguito dell’epifania, abbandona la facoltà di Filosofia (ma non gli Ideali di sinistra, per quello c’è tempo) e si iscrive ad Ingegneria. Finalmente, eliminata la variabile umana, Brandani ha un mestiere. 
Il mondo del lavoro si rivelerà ancora più mortificante di quello adolescenziale e universitario. Non ci si fa la guerra né con le bombe né con i cazzotti come nel quartiere, ma con mezzi assai più subdoli. Il suo capo De Klerk è un manager di successo, aderisce al mondo così com’è e non come dovrebbe essere, al contario di Ivo ancora ancorato alla chimera dell'idealità. Questo capitolo è un piccolo capolavoro di narrativa: Pecoraro fornisce attraverso il racconto di un viaggio in barca una perfetta allegoria della fortissima pressione che esercita il capitalismo su di noi. De Klerk è tutto ciò che Ivo odia: maschilista, predatore, tirannico, un dominante. Brandani coltiva infatti nei confronti della mentalità borghese e materialista - tutto ciò che De Klerk rappresenta - un retro pensiero infantile: non mi avrete mai. Eppure De Klerk è più forte di lui, il suo modello prima lo affascina, poi lo avvince e infine lo schiaccia. Ivo non può niente. 
Di fatto ti collocasti nella grande Catena dei Sì. (...)Ti consegnerai nelle mani del capitale, sarai un ingranaggio del profitto. 
La sua blanda riserva mentale - “non mi avrete mai” - è una vana resistenza. Tutto è dentro la logica di mercato, senza scampo. Sembra di leggere le pagine profetiche di Cosmopolis (di Don DeLillo): “non esiste niente fuori dal mercato”.
La Grande Classe Media Uniforme dell'Occidente Democratico, quella che ha divorato e inglobato in sé tutte le altre classi, compresa quella operaia, dedita alla ragione passiva. I nativi del capitalismo mediatico non conoscono la nozione di opposizione, di alternativa.

Ha ragione Cortellessa quando parla di Pecoraro come scrittore di guerra. La guerra dei “sessant’anni di pace, nei tanti inferni del fare umano”. è questa la grande forza del romanzo: la sua potenza demistificatrice, il pessimismo lucido, la coscienza della complicità e della colpa. Ma anche la rassegnazione al caos dell'esistenza, alla non forma delle cose. Come pretendiamo che ci sia ordine se viviamo, anzi, siamo ciò che resta di un'esplosione? 

Il delirio lucido di Brandani sgorga fuori con aggressività, una lingua corrosiva, senza tabù. Seguendo gli stilemi del modernismo, Pecoraro redige un romanzo verboso -  come gli anziani Brandani è puntiglioso, si ripete senza sensi di colpa - contaminato da nozioni scientifiche, architettoniche, storiche, biologiche.  Il suo è un epos rovesciato, senza eroismi né imprese. Può darsi che La vita in tempo di pace sia la perfetta anti-epica, l’uomo senza qualità del nostro Tempo. 
Indubbio è che questo romanzo per gli scrittori italiani rappresenti - già - una tappa obbligata. 


Niente tornerà più, nessuna promessa è stata mantenuta: Dio non c'era, il mondo non ti stava aspettando, nessuno ti cercava, di là dal mare ci sono solo altri ristoranti di fritto misto e il mestiere, che prometteva, alla fine si è negato. O forse tu eri negato per farlo bene, Ivo...”.

venerdì 10 gennaio 2014

Educazione alla gentilezza: Dieci Dicembre di George Saunders

Dieci Dicembre è l’ultima raccolta di racconti di George Saunders, uno degli scrittori più influenti del nostro tempo. Vi ho intimoriti?

Non credo di aver torto quando affermo che il clamore attorno a Dieci Dicembre - il New York Times l’ha definito “il miglior libro che leggerete quest’anno” - sia da imputare quasi interamente a questo signore. 

Saunders piace, anche parecchio. Prima ancora della sua scrittura, è proprio lui ad accattivarci. È un tipo garbato, autoironico. Con una caratteristica particolare, però. Ha negli occhi una bislacca convinzione: vuole migliorare il mondo con un sorriso. Appartiene a quella brutta razza in via d’estinzione: i sognatori. Con l’aggravante di avere una penna in mano. 
Comprensibile quindi l’effervescente entusiasmo che genera Dieci Dicembre e che è ancora più intensificato dalla lettura (Sì, ad un certo punto bisogna anche leggerli i libri, mica solo parlarne!). 

Anche se non arriverete a definire questa raccolta “il miglior libro dell’anno” - cosa che nemmeno io credo, d’altronde - comunque è difficile che non restiate almeno un po’ scossi dall’euforia creativa di Saunders. Tanto che, se non vi piacciono i libri troppo osannati, potete benissimo iniziare da altro. Per esempio, in questo momento, voglio appropriarmi de “Il megafono spento”, sempre edito dalla minimum fax e di cui ha parlato oggi su Internazionale, Giovanni De Mauro.

La raccolta contiene narrazioni molti diverse tra di loro, soprattutto a livello stilistico. Saunders è un camaleonte e adotta diversi registri e soluzioni formali, di modo che il lettore resti sempre spiazzato e debba “ri-sintonizzarsi” quando inizia un nuovo racconto.  
Nonostante quest’imprevedibilità, vi è una costante emotiva che fa da filo conduttore per la raccolta: la scelta tra l’avarizia dei sentimenti o la compassione, l’individualismo meschino o un atto di altruismo. 

Un motivo ricorrente è quello del salvataggio, di particolare rilevanza nel primo (“Giro d’onore”) e nell’ultimo racconto (“Dieci Dicembre”) - per me, i migliori dell’intera raccolta. I personaggi si trovano nella posizione di dover rinunciare alle proprio regole, al proprio ritmo di vita per soccorrere qualcuno, per aiutare uno sconosciuto. Saunders si interroga sulla possibilità di poter ancora compiere atti di disinteressata umanità in un mondo governato da mercati e dove le emozioni sono mercificate.   

Dieci storie originalissime che contengono immagini bizzarre e mondi fantasiosi che celano un intento morale ammirevole e per niente scontato. La satira del mondo moderno che fa l’autore texano ha una vena surreale e immaginifica, non ha i toni duri dell’indignatio ma un’ironia garbata. 
Ciò non vuol dire che sia innocuo o privo di spigoli. Quello che voglio dire è che non è mai disturbante (come invece è stata per me la lettura di quel meraviglioso romanzo che è Mattatoio n. 5 di Vonnegut a cui Saunders è stato spesso accostato).


È difficile costruire delle storie “assurde” che non si rivelino dei vuoti esercizi di stile, dei giochini cerebrali e autoreferenziali. Il rischio di quest’artificiosità è di lasciare tiepido il lettore. Devo ammettere che alcuni racconti, secondo me, sono freddi, non tutti hanno la stessa carica emotiva. Ma d’altra parte è anche normale il fatto che in una raccolta ci siano racconti più o meno belli. 
La possibile mancanza di cuore di alcune short stories è comunque compensata dalle buone intenzioni dell’autore. Insomma Saunders è troppo bravo per non piacerci, troppo anomalo per lasciarci indifferenti. Un libro che dà una chance all’altruismo e alla speranza, di questi tempi è più unico che raro. Sto dicendo che Dieci Dicembre è ruffiano? Probabilmente lo è ma Saunders non lo fa pesare.

Dirò la verità: secondo me, Dieci Dicembre non è un capolavoro. Ma è una sfida contro l’individualismo e gli egoismi del nostro tempo, ecco perché entusiasma (e meno male!).
Saunders ci dice che la disperazione del mondo è sopportabile. Non è buonista, non è mieloso, non è troppo rassicurante. 

“Il bambino si accostò alla recinzione. Se avesse potuto dirgli, solo con uno sguardo: Non è detto che sarà sempre così. All’improvviso la tua vita potrebbe diventare stupenda. Può succedere. A me è successo”.


Dieci Dicembre è un libro prezioso. Per me ha soprattutto un merito: quello di avermi dato una nuova visione della letteratura. Fin ora mi sono sempre accostata ad autori di rottura, immagino sia una fase, che riuscissero a sconvolgermi, a descrivere la brutalità e le contraddizioni del mondo. Ora penso che c’è ancora posto per una sorta di educazione alla tenerezza, al garbo e alla gentilezza nella letteratura, nell’arte. Ed è anche grazie a Saunders. 

giovedì 19 dicembre 2013

Saghe interrotte: soluzioni e fesserie -I granchi dell'editoria #8

Qualche tempo fa su Twitter è sbucato fuori l'hashtag #odioleserieinterrotte. Cliccando sulla parola chiave, vi sareste trovati di fronte ad un'ondata di indignazione, livore e scontento. Un gruppo di lettori italiani si stava (giustamente) lamentando del fatto che molte delle loro saghe fossero state interrotte nel corso della pubblicazione, a causa del poco successo di vendite.
Un fenomeno che diventa sempre più evidente nella letteratura di genere, soprattutto urban-fantasy. Da qui l'iniziativa legittima di far sentire la propria voce, di fare rimostranza nei confronti delle case editrici da cui si sono sentiti, in un certo senso, traditi. Oltre al disappunto, però, sono state fatte anche delle proposte per uscire dal pantano delle serie abbandonate, che potete trovare QUI e QUI.
Di seguito le riporto:
A. Pubblicare i numeri successivi a quelli già pubblicati esclusivamente in ebook ad un prezzo ragionevole tra i 2-4 euro
B. Non investire in cover costose, perché non sono quelle che ci interessano.
C. Rinegoziare i diritti d'autore: Spiegando agli agenti degli autori la situazione.
D. Traduzione: fare una sorta di asta tra i traduttori: chi offre la migliore traduzione al prezzo più basso ottiene il lavoro.
E. Commercializzazione dell'ebook: Per evitare di pagare percentuali a siti di vendita on line, perché non usare solo il sito della Casa Editrice?
Intelligente e fattibile la soluzione di pubblicare solo in digitale, attutendo così i costi di stampa e distribuzione. I vantaggi del digitale vanno sfruttati. Il prezzo però in base a quali criteri è stabilito? Purtroppo c'è sempre il problema dell'IVA al 22% e inoltre ebook non è sinonimo di nessun lavoro editoriale. Ci sono sempre molti costi. Direi che ci avviciniamo di più ai 4 euro che ai 2.odioleserieinterrotte-586x199
L'idea di usare solo il sito della Casa Editrice, sarebbe buona anche se in questo caso bisognerebbe fare il doppio del lavoro di distribuzione (i siti di vendita si usano anche per la pubblicità che fanno). Anche qui, chi li paga questi costi? Dietro le case editrici ci sono delle persone che spesso sono sotto pagate e sobbarcate di lavoro. E qui arriviamo al nocciolo dell'intervento. Il discorso sulle traduzioni. Ritengo offensivo il fatto che si proponga ad una persona di lavorare GRATIS per poi svendere la propria fatica al prezzo più infimo. I traduttori non sono abbastanza mal pagati? Una traduzione scadente non è proprio ciò che ci infastidisce di più in un libro? Come si può parlare di “rispetto per il lettore” quando non c'è rispetto per chi lavora? È chiaro che con uno stipendio da fame nessuno si sentirà incentivato e motivato nel fare il proprio meglio. Specialmente se questa è l'idea che voi avete del lavoro altrui. Sgobbare per poi vedere il proprio prodotto venduto sottocosto, quando non direttamente liquidato.
Dietro queste soluzioni, per quanto alcune attuabili, vi è un'idea molto aleatoria e naive di quello che è l'attività di una casa editrice: “parlare con gli agenti spiegando la situazione”?
Comprensibili di certo sono lo scontento e la delusione dei lettori ma d'altronde anche la posizione della casa editrice non è condannabile più di tanto. È legittimo per un'azienda non pubblicare più una saga se non vende. Perché una casa editrice dovrebbe andare in perdita se non crede più nel progetto e gli stessi lettori non ci hanno creduto?
Parliamoci chiaro: nella maggior parte dei casi si tratta di libri commerciali sul quale o c'è un ritorno economico o altrimenti non vale la pena investire a livello intellettuale. Infatti – ahimè sempre meno spesso – una c.e. investe su un contenuto di qualità che non venderà ma che può dargli prestigio. Ma se bisogna investire anche su un contenuto di puro intrattenimento (sacrosanto!) anche quando non vende, siamo al paradosso.

giovedì 5 dicembre 2013

La bellezza è crudele. Dio di illusioni, Donna Tartt.

La letteratura è più efficace di un’arma da fuoco. Un proiettile segue una traiettoria breve. Colpisce in un istante. Ultimata la parabola, si conficca nel bersaglio e perde la sua efficacia. La letteratura invece ha un raggio d’azione potenzialmente infinito. Donna Tartt, ad esempio, nel 1992 ha scritto il suo Dio di illusioni (titolo originale: The secret history) e oggi nel 2013 le sue parole come frecce scagliate da un altrove lontano, hanno raggiunto e colpito il mio petto. Il potere strabiliante delle idee. 
Dio di illusioni è un romanzo formidabile. La storia è un susseguirsi di rivelazioni, ma non come potrebbe accadere in un thriller. La narrazione piuttosto si avvicina agli schemi della tragedia greca. E il dio di illusioni del titolo è proprio il dio greco Dioniso. “Maestro d’illusione, rende capaci i suoi devoti di vedere il mondo come non è”. 




La vicenda è ambientata in un elitario college nel Vermont in cui si reca Richard Papen, squattrinato e inquieto giovane, narratore degli eventi. Si lascerà affascinare da un gruppo di cinque brillanti ed eccentrici studenti di greco antico e dal loro professore, Julian, un esteta che esercita sugli allievi una forte seduzione spirituale. Julian contagerà i giovani discepoli con la sua passione per quel mondo antico e misterioso. Un mondo in cui l’irrazionale, il dionisiaco non erano tabù. “È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?”. Ma instillare queste idee di superamento del reale, in giovani ricchi e annoiati che si sentono onnipotenti non si limita ad essere una dissertazione filosofica. Si trasformerà in una sfida, un gioco pericoloso. Nelle vite dei ragazzi, tra gli stordimenti di alcol e droga, si affaccerà il fantasma della violenza e della depravazione. 

Il romanzo della Tartt si concentra su un’attenta riflessione sul male, condotta dall’interno. Il narratore infatti è un inside man. Richard Papen è un piccolo borghese californiano, un infiltrato nell’elitario circolo di Julian. La sua non appartenenza crea attorno al ristretto simposio una cortina di fascino e attrazione. Julian assume una statura mitica: mentore, figura paterna, ultimo baluardo di bellezza e grazia in una società prosaica e grigia. Henry, i gemelli Charles e Camilla, Francis e Bunny appaiono agli occhi di Richard inarrivabili. Ricchi, bellissimi, onnipotenti. Richard si lascia catturare dal magnetismo dei colti studenti di lingua e cultura greca. Il mondo classico si rivela essere una dimensione magica, di gran lunga più profonda della sua vita che percepisce come spenta e mediocre. Richard, apparentemente insensibile e apatico, si risveglia dal suo torpore e si avvicina grazie alle lezioni di Julian a questo “bellissimo e tormentoso paesaggio, morto da secoli”. Mentre però Richard è un turista ammirato di quel mondo, Julian e soprattutto Henry ne erano abitatori permanenti. Il mondo a noi noto, il mondo del presente, non era la loro vera casa. Studiando le forze incontrollabili che s’impadronivano degli antichi greci durante i baccanali, bramosi d’impadronirsi essi stessi di quelle forze, di raggiungere quello stato di estasi e di riconoscere il sentimento del sublime, i discepoli di Julian coltiveranno un’illusione. L’illusione di ricreare un’epoca remota, l’illusione di essere sganciati dai ritmi e dalla morale che regola il presente. Ingannati dalle loro stesse menti, accecate da un delirio di onnipotenza, i ragazzi si getteranno in dinamiche di gruppo degeneranti che sfoceranno in un atto di brutale violenza. 

The secret history è però un romanzo che non si concentra tanto sull’atto di depravazione, sulla malvagità, quanto su “l’infinità di trucchi grazie ai quali il male si presenta come bene”. Tanto più che i protagonisti hanno un’età vulnerabile (e quanto suona ironico questo aggettivo riferito a tali personaggi!) e sono incapaci di scorgere la trappola in cui sono finiti. La narrazione è estremamente soggettiva e poco lucida. Sia perché il narratore fa spesso uso di sostanze stupefacenti, sia perché egli stesso è continuamente ingannato dalla natura dei personaggi e delle loro azioni. Il racconto procede per ribaltamenti. Chi prima sembrava la vittima, si rivela il carnefice. Ciò che prima appare sublime e lirico, si trasforma in torbida scelleratezza. Le illusioni attorno alle personalità dei personaggi vengono squarciate. Lo stesso romanzo è una continua rivelazione. Sguscia via da qualsiasi definizione di genere. Ha molti elementi del giallo, del thriller, del romanzo psicologico, del romanzo di formazione. Sarebbe fare un torto alla scrittrice racchiuderlo in un’etichetta.

La Tartt intreccia l’interrogativo sul fascino del male con il rapporto tra moralità e denaro. 
Il fatto che i protagonisti appartengano a delle famiglie abbienti (nonostante non abbiano tutti lo stesso livello di agiatezza) è fondamentale. Perché l’azione che i protagonisti compiono è causata da una sorta di distanza dall’ordinario, la solida certezza di appartenere ad un genio superiore. Il denaro li inebria, li fa sentire diversi, migliori, onnipotenti. Ma soprattutto annoiati. Grazie ai soldi di Henry, che non dà alcuna importanza alle contingenze materiali proprio perché troppo ricco per preoccuparsene, i protagonisti diventano in un certo modo insensibili alla vita normale. Si sentono sempre più attratti dall’idea di trasgressione, di vitalità. Diventa un’ossessione: la ricerca di oblio, di un atto che possa ancora di più svincolarli dalla quotidianità e concedergli un singulto vero, difficile da trovare nelle alterazioni di farmaci e altre sostanze inebrianti, a cui ormai sono assuefatti.   

Quello che però potrebbe sembrare un romanzo nichilista (nel senso positivo e vitalistico che gli attribuiva Nietzsche) in realtà cova un severo giudizio morale. Il vero tema del romanzo non è un cinico atto superomistico bensì il senso di colpa. I protagonisti dalla loro perversione non troveranno altro che alienazione e sofferenza. Non quella terribile bellezza che gli antichi greci provarono nella liberazione di ogni istinto. Non reggono il fardello delle loro azioni (“Mi sentii addosso tutta l’amara, irrevocabile realtà della nostra azione, la sua malvagità”). Non superuomini, ragazzi dietro i cui atti si cela egoismo, marciume, perfidia. La bellezza è crudele, khalepà tà kalà. 

“Forse avrebbe considerato quei delitti come delle cose tristi folli tormentate pittoresche (Ho fatto tutto, si vantava il vecchio Tolstoj, anche uccidere un uomo) invece che atti fondamentalmente egoistici e malvagi quali erano”. 

La scrittrice statunitense costruisce un romanzo che è non solo una forte denuncia del vuoto, del potere alienante di una ricchezza, non supportata da altri valori ma anche un romanzo di disillusione e crescita. Descrive perfettamente il passaggio dalla nebulosità e irrequietezza dell’adolescenza ad uno stadio adulto. 


Analisi dei personaggi (solo per chi ha letto il romanzo!)

I personaggi del romanzo sono divisi tra due dimensioni: illusione e realtà. Man mano che la narrazione avanza (e quindi Richard prende coscienza di cosa succede attorno a lui) si accresce il divario tra come appaiono e chi sono realmente i cinque discepoli di Julian. Quello che dapprima gli sembra un circolo di geni superiori in cui è miracolosamente ammesso, si trasforma in un’associazione di capricciosi assassini. Persino dopo aver svelato l’omicidio compiuto, Richard tende a giustificare la loro azione, incolpando lo stato estatico e delirante in cui si trovavano (Henry, Francis e i gemelli organizzano un baccanale durante il quale uccidono per errore un uomo). E paradossalmente è Bunny che, agli occhi di Richard -  indottrinato da Henry e Francis - diventa il colpevole, il pericoloso e instabile traditore che, una volta scoperti, minaccia di rivelare il misfatto. Richard infatti anche in questa situazione si sente privilegiato, è stato scelto quale garante, membro insostituibile del gruppo, custode dell’inconfessabile delitto. Il segreto che condividono quindi è ciò che li unisce, che li legherà per la vita. Non lo sfiora neanche per un secondo, in un primo tempo, il sospetto che il fatto di essere stato reso partecipe, possa rappresentare per lui un danno. Non lo tocca il dubbio di poter essere stato manipolato. Ben presto però il segreto che avrebbe dovuto renderli amici per la vita e per la morte diventa una galleria buia e senza uscita. L’universo meraviglioso di Richard si trasforma in un universo terrificante. 

“Chi erano quelle persone? Quanto le conoscevo? Avrei potuto, al bisogno, fidarmi davvero di loro?”.

Prima di analizzare nel dettaglio gli altri personaggi, è necessario partire proprio da Richard. Uno degli interrogativi più importanti del romanzo è: perché Richard si lascia ingannare così? Perché è giovane? Perché è un ragazzo ordinario che si scontra con lo straordinario? Perché è povero? Probabilmente per tutte queste ragioni insieme. 
Richard sente un complesso d’inferiorità nei confronti del circolo di Julian. Tant’è che la sua infanzia grigia viene sostituita da un passato di ricco californiano, inventato di sana pianta, che riesca a renderlo più simile al club esclusivo. Entra in un universo da cui viene risucchiato e che esercita su di lui, provinciale dalla famiglia ottusa e dalle possibilità limitate, un effetto inebriante. 

“Forse che una cosa come il fatale errore,quell’appariscente cupa frattura che taglia a metà una vita  può esistere al di fuori della letteratura? Una volta pensavo di no. Ora sono dell’opinione contraria. E penso che il mio sia questo: un morboso, coinvolgente desiderio verso tutto ciò che affascina”.

Come non rimanere affascinato dai gemelli? Da Camilla, dalla bellezza di un altro tempo; da Charles, benvoluto da tutti. Come non farsi avvolgere dal carisma da dandy di Francis? E dall’intelligenza di Henry? Henry, cultore delle lingue morte, glaciale e scostante ma che prima gli salva la vita e poi lo reputa addirittura degno di conoscere il loro segreto. Naturalmente la verità viene a galla e Richard capisce che Henry e gli altri gli rivelano il segreto soltanto per anticipare Bunny (che avrebbe rivelato infatti di lì a poco il delitto a Richard, ormai però influenzato e “avvelenato” dalla versione di Henry e Francis). 
Ed è solo la consapevolezza che acquisisce Richard che riesce in un certo senso a salvarlo. Lui è l’unico personaggio che cresce, si allontana e riesce a superare l’esperienza del college mentre gli altri annegheranno nei loro sensi di colpa. Però all’inizio la sua mente è annebbiata, vinta completamente dalla colossale illusione costruita attorno al circolo. 

“Alcune cose sono troppo terribili per entrare a far parte di noi a primo impatto. Altre contengono una tale carica di orrore che mai entreranno dentro di noi. Solamente più tardi nella solitudine, nella memoria, giunge la comprensione: quando le ceneri sono fredde, la gente in lutto è andata via. Quando ci si guarda intorno e ci si ritrova in un mondo completamente diverso”.

Forse, per sua stessa ammissione, il vero peccato di Richard è stata la sua “tendenza a considerare buone le persone interessanti”.

Il nucleo vitale attorno al quale ruotano tutti gli altri personaggi è Henry. “Era l’autore di quel dramma e aveva atteso a lungo, dietro le quinte, il momento di salire sul palcoscenico e recitare il ruolo scritto per se stesso”. Di un’intelligenza sopraffina, ricco oltre ogni immaginazione, distante e freddo. Chiuso nel suo mondo dagli antichi ritmi, dalle lettere antiche e dalle lingue morte. Superiore a chiunque. Un perfetto manipolatore. è lui l’ideatore dell’idea del rito dionisiaco, lui che ha trascinato gli altri nella bufera di trasgressione e depravazione che li avvolgerà. E chi altri se non lui, da cui tutti dipendono economicamente ed emotivamente? Il fatto che lui sia il più agiato, non è un caso. Rientra in quel conflitto tra denaro e morale che la Tartt ha delineato così bene nel racconto. Henry addirittura accoglie con una sorta di perversa curiosità l’ipotesi di dover uccidere Bunny (“sento che si sta profilando per noi una serie di eventi in rapida progressione”). L’architetto di tante macchinazioni, dei cinque l’unico senza rimorsi. Henry arriverà ad ammettere a Richard che la sua vita è sempre stata scialba e stagnante, un luogo deserto, fino a quando non ha ucciso quell’uomo. E paradossalmente avrà la fine più tragica.

L’altro grande protagonista, per quanto nascosto e ai margini della narrazione, è Julian che da benefattore prodigioso passa a vigliacco che si dà alla fuga. Julian è un esteta vanitoso e distante che si gloria del fatto che abbia un’enorme influenza sui suoi allievi salvo poi abbandonare gli stessi quando i suoi discorsi edonistici si concretizzano in un progetto di morte. Da figura paterna amabile e affascinante ad opportunista noncurante e glaciale. 
Julian dimostra una grande freddezza, indossa una maschera di calore che non è altro che l’ennesima illusione di profondità. In realtà, è “rigido come uno specchio”

La cosa più triste è il rapporto tra l’allievo prediletto, Henry, e il vanaglorioso Julian che finirà per abbandonarlo. La loro relazione, che è anche - procedendo per sommi capi -  il motore dell’azione, è l’antitesi del rapporto maestro-allievo raffigurato nel film “L’attimo fuggente”. Il suicidio di Henry è da ricollegare alla spaventosa influenza del professore che è fuggito di fronte ai gesti sconsiderati del discepolo. Henry di certo non si riscatta però dimostra che la delusione che ha procurato a Julian è l’unica cosa che alla fine lo ha commosso, l’unica. 

“Non fu per disperazione né per paura che lo fece. Era la storia con Julian che gli aveva fatto una profonda impressione. Penso che sentisse il bisogno di compiere un gesto nobile, qualcosa che provasse a noi e a se stesso che era di fatto possibile mettere in pratica gli alti astratti principi insegnatici da Julian: dovere, pietà, lealtà e sacrificio. Ricordo il suo riflesso nello specchio mentre si puntava la pistola alla tempia; la sua espressione di folle concentrazione, di trionfo, quasi un tuffatore che corra verso la fine del trampolino: occhi stretti, felice nell’attesa del grande salto”. 

Henry rimane il modello superiore per gli altri, in peggio e in meglio. Un mostro ed un eroe.
Tutti noi abbiamo  bisogno di sentirci vivi e commettiamo gesti estremi. 

All’opposto dell’artificiosità menzognera di Henry, troviamo Bunny. Durante la lettura - ed è questa la bravura della Tartt - vi ritroverete ad odiarlo. Perché penserete che la combriccola di Henry in fondo abbia ragione e debba cavarsela. Il ricatto di Bunny è solo fastidioso ed insopportabile. Quando però insieme a Richard prendiamo coscienza di cosa c’è dietro alle nostre illusioni adolescenziali (il voler credere che una persona interessante sia anche buona e abbia in qualche modo una licenza sul resto del mondo) scopriamo l’amara, brutale realtà. E allora impariamo ad apprezzare il carattere fantomatico, la personalità fumettistica di Edmond. Toccava il cuore delle persone. Un ragazzetto arricchito e pieno di debiti non poteva competere con il fascino degli altri, ai nostri occhi ingenui. Lui era un ragazzo normale, non eccezionale. Sacrificabile. Non comprendeva il fascino del male. Era solo sfrontato, anche un po’ volgare. Non possedeva la fede necessaria per abbandonarsi al baccanale. Non aveva la forza necessaria per comprendere quegli atti di follia e crudeltà. Ha ceduto sotto il peso di un segreto troppo grande per le sue spalle. 

Sullo sfondo, i personaggi più enigmatici: i gemelli, Camilla e Charles. Due gocce d’acqua perturbanti, che nascondono una relazione incestuosa e possessiva. La loro rivelazione è forse quella più inaspettata. Charles, da ragazzo benvoluto e amabile si trasforma in un alcolizzato violento. Camilla, di cui tracciare un ritratto chiaro sembra ancora impossibile, da dolce e affascinante diventa una volubile giocatrice. Il suo personaggio rimane criptico. Forse rappresenta il vuoto della bellezza da cui la Tartt ha cercato di metterci in guardia per tutto il romanzo, quella bellezza di cui tutti s’invaghiscono ma che in fondo non ha niente da offrire. Infatti s’innamorano di lei pressoché tutti. E non posso fare a meno di ricollegare (anche) a lei queste righe: “Non c’è nulla di sbagliato nell’amore per la bellezza ma se non è sposata a qualcosa di più profondo  è sempre superficiale”. 

Francis,infine, è forse l’unico personaggio positivo del clan. Un omosessuale infelice che si lascia trasportare per amore nel delitto. Perché agisce? Probabilmente per il motivo per cui tutti sono nelle mani di Henry: si sentono accettati, accolti in una famiglia. Tutti loro infatti hanno delle situazioni familiari disastrose, ragion per cui Julian appare ai loro occhi così prezioso. Un padre eletto. 

Le domande non trovano risposte esaustive. Le dinamiche di gruppo hanno qualcosa di incomprensibile, una sorta di energia magica. Quelle che Durkheim, studiando i fenomeni religiosi, ha chiamato “effervescenze collettive”, correnti che nascono solo nel gruppo, che generano esaltazione e galvanizzazione degli spiriti, che trascinano e trasformano gli individui., 

Non sarebbe giusto ricondurre i comportamenti dei protagonisti ad una pura logica di istinto di branco, eppure è un’importante elemento psicologico nel romanzo della Tartt. Così Richard si sente coinvolto per il debito nei confronti di Henry e l’attrazione per Camilla, e Francis per l’amore verso Charles, e Camilla per l’amore verso Henry e ancora altre sottilissime dinamiche sotterranee che la Tartt tesse per noi. 

venerdì 11 ottobre 2013

I granchi dell'editoria: I like big books and I cannot lie

Fin da quando ero piccina, ho avuto un'ossessione per i libri massicci. Quei rassicuranti tomoni che ti promettono innumerevoli pagine da sfogliare, infinite avventure, lunghissime ore di apnea letteraria. Senza contare la soddisfazione di aver scalato una montagna a lettura conclusa, la possibilità di entrare dentro un mondo da cui uscirai soltanto dopo mille e mille pagine. I libri sottiletta spesso (e sì, sto generalizzando) sono troppo brevi per diventare dei veri rifugi. Che è quello che ci serve in questo momento. Ah, no, adesso sto parlando solo di me.
Ammettiamolo. Se pensate ad un libro, la prima cosa che vi viene in mente è un volumone polveroso e spesso almeno sei centimetri (sì, ho misurato Anna Karenina con il righello). images
Ahimè, il mondo superati i dodici anni non è più lo stesso. Lo spazio non è infinito e la libreria scricchiolante dietro di te ne è la prova conclamata. Il tempo per leggere si accorcia (anche se il tempo si deve trovare, mica ti viene a bussare alla porta). Ritagliarsi uno spazietto per leggere non è impossibile ma è meglio avere la possibilità di portare i libri con sé.
Ecco, l'unico difetto dei big books è proprio questo: la loro portabilità. Nell'era in cui tutto è sempre più piccolo, più trasportabile, più maneggevole, i libri mammut sono delle ingombranti e lentissime testuggini. Ok, basta con le metafore animali.
La società liquida, sempre più frenetica e indaffarata, sembra essere poco compatibile con le immersioni in romanzi alla infinite jest. Tutto è frammentario, la lettura non può che adeguarsi. La compressione del tempo e la velocità di fruizione sono diventate delle abitudini a cui purtroppo sacrifichiamo il piacere di una sana alienazione da una realtà fin troppo virtuale. Lo so, è un paradosso.
Ho notato anche in me stessa questo impulso a dare precedenza a libri più piccini e "veloci" da leggere per ultimarne effettivamente la lettura. Tendo ad abbandonare i miei adorati big books e a posticiparne la lettura specialmente in periodi molto impegnativi che mi permettono di leggere poco. Di questo ne parlò anche Nick Hornby, un uomo più interessante di me, ne La lettura, inserto del Corriere della Sera. Non vi linko l'intervista nella speranza che prima di googlarlo finirete di leggere il mio pezzo. Diamine, stiamo parlando proprio del bruttissimo vizio nelle società ipertecnologiche della dispersione!
 CONTINUA QUI 

domenica 29 settembre 2013

Jay Gatsby mi ha rovinato

Forse il personaggio di Jay Gatsby dovrebbe avere una categoria a parte in questo blog, me ne rendo conto. Questo piccolo spazietto web si sta trasformando in un fan-site. Cercherò di contenermi nei prossimi due secoli, lo prometto. Nel frattempo:


giovedì 25 luglio 2013

Una finestra su Yates e Carver


 Yates e Carver sono quei nomi che ti rimbombano in testa da sempre. Un rimando casuale da parte di uno scrittore, una citazione in un film, un riferimento in un articolo di giornale. Sono ovunque in letteratura. Negli scaffali, tra i critici, annoverati tra gli autori più influenti, più consigliati, più amati, più detestati. Ho questo assillo da molto tempo: non aver ancora letto nulla di questi due maestri. Ora il problema è smettere. 

Perché ve ne parlo nello stesso post? Perché entrambi scrivono racconti? Perché entrambi sono americani? Non ho bisogno di lanciarmi in voli pindarici sull'importanza dell'esperienza americana nell'arte della short story. Quel modo americano di raccontare: con quel realismo lucido, analitico, a tratti brusco. Perché breve non è mica sinonimo di "superficiale, vuoto, inconcludente", come purtroppo continuano a riferirmi i non lettori di racconti. Queste due raccolte sono pienissime, strabordanti, ti travolgono con il loro carico di angoscia e disperazione invisibile.
Ho letto America oggi, e folgorata, ho iniziato subito Undici solitudini. Indovinarne due di fila così, è veramente raro.  Sarà perché ne ho sempre sentito parlare insieme. Yates e poi Carver. E io prima ho letto Carver con i suoi finali che ti spezzano il fiato e poi Yates con i suoi personaggi fuori posto, rotti, cattivi. Questo loro modo di indagare nelle piccole e misere vite quotidiane, fatte di ricatti e silenzi, trucchi e maschere. Non avete idea di cosa c'è dietro la normalità. Di cosa c'è dentro una banale e tranquilla vita in provincia.
"Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non gliene frega più niente di quello che succede agli altri; due, qualsiasi cosa succede, succede agli altri (...) E, intanto, la gente intorno a te continua a chiacchierare e a comportarsi come se fossi la stessa persona che eri ieri, stanotte, cinque minuti fa, e invece tu stai attraversando una crisi profonda e ti senti il cuore a pezzi…"
Con tutta quell'acqua a due passi da casa , America oggi
"Tutti avevano il cuore spezzato, certo. Però, lo stesso". 
Limonata, America oggi 


L'indifferenza degli altri. Il loro maledetto andare avanti. E tu non puoi. La solitudine che si arrampica sulle costole, infetta le esistenze dei protagonisti. Delle monadi, stanze senza finestre, che però non hanno alcun innatismo, non rispondono a nessun ordine. Sono lì, e basta. Siamo qui, e basta. Alla ricerca che qualcuno si accorga. E si fermi. Lo scrittore non può essere soltanto un altro spettatore. Questi due scrittori si sono fermati, hanno raccolto la testimonianza, la narrano, la consacrano.  
Hanno portato la luce in queste esistenze, uno sguardo gettato su quello che gli altri ignorano. La tensione drammatica che percorre le pagine e che eleva il quotidiano, il prosaico a collante universale. Questa è la letteratura che ci insegna a guardare meglio, a cercare le finestre ma anche le crepe vanno bene. Anche dalle fessure entra la luce.  

 “E dove sono le finestre? Da dove entra la luce?
Bernie, vecchio amico, perdonami, ma per questa domanda non ho la risposta. Non sono neppure sicuro che questa particolare casa abbia delle finestre.
Forse la luce deve cercar di penetrare come puo’, attraverso qualche fessura, qualche buco lasciato dall’imperizia del costruttore. Se è così, sta’ sicuro che il primo a esserne umiliato sono proprio io. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.”
Costruttori, Undici solitudini


Note a pié di pagina: mi fate un favore? Leggete anche Fitzgerald dopo Yates. E capirete. Sì, capirete che cose straordinarie hanno fatto queste "autorità del fallimento".