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mercoledì 9 dicembre 2015

Leggere non solo con gli occhi

Vi siete mai soffermati su che cosa voglia dire “leggere”? Dimenticate l’aforisma di Kafka (“un libro deve essere l'ascia che rompe il mare ghiacciato che è dentro di noi”) o le frasi slogan che fanno vendere tanto merchandising all’interno delle Feltrinelli (“Leggo perché sono libera” e affini). Mi riferisco alla prassi, all’azione concreta della lettura. Aprire un libro, sfogliarlo, visualizzarne ogni singola parola, seguire con gli occhi le frasi da un capo all’altro della pagina. Il canale di comunicazione: dagli occhi alla mente. Avete mai pensato al fatto che ci sono persone che non possono “leggere” in questo modo perché questo canale gli è precluso? Probabilmente no. Raramente ammetto di averlo fatto io. La realtà è che spesso ignoriamo del tutto che le stesse storie che amiamo possono essere conosciute in maniera completamente diversa, diventare accessibili attraverso altre strade, che non partono dagli occhi per arrivare a noi. 
Sapevate che le persone non vedenti e ipovedenti sono tra i lettori più forti in Italia? Eppure non godono di “parità” effettiva per ciò che riguarda la lettura, almeno non ancora. 
Ho conosciuto uno spicchio del loro mondo, attraverso un reading al buio, organizzato dalla Fondazione LIA (Libri Italiani Accessibili), tenutosi nella cornice del Laboratorio Formentini per l’editoria. 
Cos’è un reading al buio? è l’incontro con la quotidianità dei lettori non vedenti. L’occasione per scoprire come si legge un libro, non attraverso gli occhi. In condizioni di semioscurità, Paolo Colagrande - autore di “Senti le rane” (edito da Nottetempo), tra i finalisti del Campiello di quest’anno - con l’aiuto di Antonino Cotroneo, lettore ipovedente, ha letto alcuni passi del suo romanzo. 


Antonino, al termine del reading, ha spiegato davanti alla classe di ragazzi chiamata all’ascolto, i diversi strumenti utilizzati per la lettura. Oggi la tecnologia permette di leggere in maniera più rapida e semplice, addirittura attraverso lo smarthphone (e i suoi processi di sintesi vocale), non soltanto in braille. Sapete quanto è difficile (e costoso) realizzare un libro in braille? Pensate che la saga di Harry Potter potrebbe occupare un’intera stanza di carta. La Fondazione LIA, coordinata dall’AIE e finanziata dal Ministero dei Beni Culturali, si occupa appunto di sfruttare le nuove tecnologie per realizzare ebook (il loro catalogo è di oltre 9 mila e-book accessibili) che rendano possibile la lettura alla comunità di lettori italiani con disabilità visive.
Personalmente, il modo in cui ho “letto” il testo di Paolo Colagrande ha suscitato sensazioni diverse rispetto alla mia solita esperienza di lettura. Ha dato un’altra dimensione alle parole, quasi più concreta. Le frasi assumevano una sostanza sonora, non si limitavano ad esistere solo nella mia immaginazione. Il reading al buio non è servito semplicemente a sensibilizzare su una realtà “difficile” ma, al contrario, ha dimostrato prima di tutto come accessi diversi alle stesse risorse (le storie) non diano come risultato la stessa esperienza. L’uguaglianza (parità di accesso, stesse possibilità di leggere per tutti) non è sinonimo di omologazione. L’ascolto non è lo stesso senso della vista, così come il tatto - decifrare ogni puntino con le dita (per chi legge in braille) - non equivale al seguire ogni frase con lo sguardo. Per tale motivo non si parla di sostituibilità ma di accessibilità. Sono due mondi diversi, due linguaggi diversi, due traduzioni diverse della stessa storia.


Dopo il reading, Antonino Cotroneo ha fatto un esempio illuminante. La classe di ragazzi che hanno partecipato all’incontro frequenta un istituto tessile. Antonino ha chiesto loro: “E se improvvisamente foste costretti a cucire solo vestiti della stessa taglia? O della stessa fantasia?”. 
Sarebbe un mondo piatto, privo di immaginazione. E così è per i libri. Leggere è diverso per i lettori non vedenti o ipovedenti, non migliore o peggiore. Dipende solo da noi rendere per loro l’esperienza della lettura facile o molto difficile. La Fondazione LIA si occupa proprio di questo e spero che possiate seguirla e supportarla nel suo percorso (sempre in crescendo) verso l’uguaglianza. 
Ormai è strabusato l’esercizio di retorica superficiale su quanto la lettura ci renda migliori, più felici, più bravi, più belli. Suggerisco di abbandonare gli slogan e di concentrarsi su cosa la lettura sia prima di tutto: un diritto. Facciamo in modo che sia accessibile a tutti.  

giovedì 26 marzo 2015

La verità capovolta, Jennifer duBois



Ma quanto è brutta la copertina italiana?

"Da bambino era stato paziente con le domande, sicuro che un giorno sarebbero arrivate le risposte. E adesso che era cresciuto si voltava a guardare e ritrovava tutte le domande là dove le aveva lasciate: coperte di polvere, forse, ma straordinariamente ben conservate. Le domande duravano più di ogni altra cosa, in realtà; le domande e gli oggetti. Tutto il resto andava verso la distruzione". 


Se il romanzo d'esordio della scrittrice ("Storia parziale delle cause perse") rappresenta l'esempio di una narrazione eccezionale  - soprattutto, ma non solo - per merito della storia, la seconda opera della Dubois ("La verità capovolta") è un libro sorprendentemente ben riuscito nonostante la storia. 
Un episodio di cronaca nera è l'ispirazione per il romanzo, un caso di omicidio piuttosto conosciuto e sfruttato in tutti i modi possibili (dal becero intrattenimento televisivo al sensazionalismo della stampa, al libro verità, al docu-film ecc..). La scelta,  all'apparenza molto scaltra, di riaccendere i riflettori sul delitto di Perugia, l'omicidio di Meredith e il conseguente circo mediatico su Amanda Knox, ricade invece nella categoria: mancanza d'immaginazione. Non che un omicidio non sia interessante. Tuttavia la scelta di questo particolare caso non può che evocare l'immagine di una carogna servita ad un sontuoso ricevimento. Lo spettro del cattivo gusto aleggia su questo romanzo, soprattutto in virtù del fatto che è stato riaperto il processo (e sta per giungere una sentenza proprio in questi giorni!). La letteratura certamente non deve avere argomenti tabù. Eppure non si può dire che la duBois provi a ribaltare certe bassezze compiute all'interno della narrazione dei media tradizionali: lo strisciante sessismo, l'elemento scabroso, la morbosità del connubio erotismo e violenza. 
La cronaca nera gioca da sempre sul giudizio preventivo, sull'apparenza, sul processo alle intenzioni, sul "mai chiarito", che però non è una categoria del pensiero ma un pretesto per poter scegliere da soli il proprio colpevole, il proprio movente, la propria preferenza. 
La duBois è infinitamente più raffinata del grossolano e crudele carosello mediatico. Sì, condanna la superficialità dei giudizi, il cannibalismo dei sentimenti, la parzialità delle storie. Ma in fondo fa tanto meglio? Il suo romanzo è un gioco: sulla fallibilità delle percezioni, sulla verità, sulla psicologia di personaggi nebulosi(forse fin troppo), cerebrali, annosi. Ed ecco perché si resta tanto male alla fine. La desolazione delle ultime trenta pagine ci sorprende e mal si adatta al resto. Tutto il romanzo è ludico, enigmatico, quasi mai drammatico. Siamo affascinati, mai pienamente coinvolti. Capiamo Lily,  apprezziamo il suo carattere ambivalente, egocentrico e inconsapevole, di un’inconsapevolezza fatale che ti porta a cacciarti nelle situazioni più spiacevoli per quell’assurda convinzione che il male non ti tocchi.  Sviluppiamo empatia, soprattutto perché sappiamo che Lily è una persona come noi, reale, possibile, complessa.  è una ragazza che fa la ruota durante un interrogatorio.  Il perché però è lasciato all’interpretazione. Questo è il problema. Il fatto che nel romanzo della duBois, esattamente come in un servizio di cronaca nera trasmesso al telegiornale, tutto si trasformi alla fine in un gioco delle parti. E ti senti anche tu uno spettatore idiota che magari ci ha creduto alla buona fede del sospettato x e invece che peccato dovrai pagare la scommessa al tuo barbiere che invece aveva puntato sull’altro, quello innocente. 
Il punto è che non c’è una morale più profonda di questa. è un romanzo straordinariamente buono nella misura in cui tutti i personaggi hanno una voce distintiva, bella, potente. è un romanzo riuscito perché nonostante la storia si trascini più del dovuto verso volute davvero non necessarie, resti lì a leggere perché la duBois è così brava nell’avvincere il lettore alle sue parole, così lontane dall’ordinario, dal prosaico. è un bel romanzo perché ti lascia sperare che ci sia qualcosa di più rispetto al gioco vero/falso e in effetti c’è: nel groviglio di storie e ricordi e malinconie che sparpaglia intorno la scrittrice, nei dettagli sommersi del resoconto dei personaggi. Al centro però c’è una storia evitabile, brutale senza essere null’altro che questo. 

Il finale è doppiamente malvagio: da un lato, ti fa stare male quasi fisicamente perché hai vissuto nella mente di personaggi brillanti ma non così tanto da sfuggire alla bestialità del mondo. Dall’altro, ti lascia l’amarezza di  aver letto un romanzo di una brava scrittrice che ha deciso di prendere una scorciatoia.  No, non ci sono beceri colpi di scena o scivoloni disastrosi ma rimane un romanzo che sfiorisce in fretta. 

Note a margine: titolo in italiano decente, peccato che in inglese il senso è decisamente meno banale e si riferisce alla ruota che la protagonista esegue mentre è interrogata dalla polizia. Gesto che getta sospetti e ambiguità sulla protagonista: fredda calcolatrice o ingenua vittima delle circostanze?
La copertina italiana invece non mi piace, la trovo asettica. Molto meglio l'originale.


venerdì 24 ottobre 2014

Come finisce il libro? E i lettori?


Come finisce il libro? Questo è la questione del saggio di Alessandro Gazoia, noto già ai lettori del web con il nome di jumpinshark, edito da minimum fax  quest'anno. Ottime riflessioni sull'editoria trendy e sulla retorica trionfalistica con la quale accogliamo inconsapevolmente pericolosi monopoli come Amazon. La disamina coinvolge temi che animano da tempo il mondo dell'editoria come l'autopubblicazione, la pirateria digitale e il dibattito culturale sul web. La scrittura di Gazoia riesce ad essere acuta e pungente, senza mai cedere allo snobismo provocatorio o all'antipatica compiacenza delle elite culturali ma, anzi, muovendosi disinvolto tra i campi della cultura pop. In linea con un approccio concreto e vivace, l'autore decide di fare appello costante al lettore. L'interrogatio, oltre a rendere la lettura più partecipativa, sottolinea l'importanza e l'unicità del ruolo del lettore nel mondo editoriale oggi. Non la scambiate per una ruffianeria. La lettura è in nuce un atto che ormai assume pratiche diverse e uniche per ogni soggetto. Tutte da valutare ed interpretare. "Come finisce un libro" lo raccomando per un consumo consapevole della literary fiction, soprattutto a chi si sente soffocato da promozioni commerciali e opzioni di acquisto volte al Cliente e non al Lettore. Consiglio anche un altro saggio complementare (oltre a quelli già citati nelle note del libro): "Rete padrona - Amazon, Apple, Google & co. 
Il volto oscuro della rivoluzione digitale" di Federico Rampini, edito da Feltrinelli (2014).  

La lettura di questo libriccino è avvenuta a ridosso dell'uscita di questo video in cui espongo il mio parere sulla rincorsa del successo facile da parte di editori poco lungimiranti. Ma parlo anche, come fa Gazoia, del cambiamento nella fruizione dei prodotti culturali (dovuto in parte allo sviluppo di sempre più accessibili interfacce) e sul destino dell'entertainment. 



Sotto il video si è sviluppato un interessante confronto di idee che vi invito a leggere, almeno per farvi un'idea più chiara riguardo la mia opinione, che in video spesso è intrecciata alla mia verve, per alcuni troppo infuocata. Un commento tra i molti, ho giudicato particolarmente fertile. 

Enrica:
"Il punto è che la sempre crescente immediatezza dei mezzi di comunicazione non viene sfruttata nel modo giusto. Se invece di utilizzarla per bombardare i lettori (o come giustamente dici, i consumatori) con informazioni e promozioni, venisse usata per creare momenti di condivisione, di confronto, di scambi di idee, la lettura sarebbe maggiormente interpretata come un'esperienza e un'esperienza si individuale, ma anche collettiva. Non è un caso che la gente ti scriva che guardando i tuoi video ha riscoperto l'amore per la lettura! proprio perché si crea quel momento di aggregazione e anche di crescita che la "letteratura di consumo" (come ignobilmente la si definisce) non potrà mai dare. Alla fine di cosa di tratta? Semplicemente di scegliere tra un beneficio di brevissimo termine e uno che potrebbe produrre i suoi effetti anche per il resto della vita. Solo che spesso le persone non sanno proprio che ciò che cercano e di cui hanno bisogno esiste già. In questo senso apprezzo che molte librerie si stiano evolvendo in café letterari: perché se anche la motivazione di fondo è economica, non è in contrasto con una visione strategica ( e quindi di lungo periodo) del modo di concepire la letteratura, come appunto momento di condivisione tra persone accomunate dalla stessa passione, prima che razionali consumatori".

A proposito dei café letterari, ultimamente mi ritrovo a frequentare sempre più spesso una libreria, la Gogol&Co a Milano, dove per altro ho acquistato il libro di Gazoia. Io mi reco lì per studiare, ma tra una pausa e l'altra ne approfitto per leggiucchiare e per origliare i discorsi del librario con fornitori e altri personaggi. Vi giuro che è vero! Ogni giorno che mi sono recata lì, l'ho sentito discutere animatamente di editoria, di librerie indipendenti e di come si possa sopravvivere in questo mondo di squali, facendo un lavoro corretto e soddisfacente dal punto di vista umano e culturale. Io ero appollaiata al piano di sopra e pensavo: "Allora si può fare!". 


(Qui trovate una mia incursione nella libreria milanese, insieme ad altri posti dedicati alla lettura che ho esplorato) 


Credo fermamente nel fatto che le persone siano disposte a spendere per la letteratura tanto quanto sia il valore ad essa riconosciuto. Se attribuiamo al libro un prezzo al ribasso - come qualsiasi altra merce - nessun lettore vorrà spendere più di quel valore fissato (magari da un bollino, a 9,90 euro). Se escludiamo dall'equazione la variabile artistica e umana, qualsiasi libro costerà sempre troppo ed è così che abbiamo iniziato a perdere i lettori. 

martedì 25 marzo 2014

Il pezzo mancante - I granchi dell'editoria #10

Articolo originale, uscito per Youbookers 

ilenia 001
Uno dei molti problemi di noi lettori della nuova era consumistica è la mania del possesso. Mi ritrovo giornalmente a discutere (anche contro me stessa) sul valore della biblioteca e del prestito – poi del girone infernale creato appositamente per coloro che non restituiscono i libri parleremo un'altra volta. Cerco in tutti i modi di convincermi che possedere un libro non è indice del suo valore. Uno dei libri che mi ha cambiato la vita è stato: “La fabbrica di cioccolato” di Roald Dahl, letto a sei anni in biblioteca. Mai avuto una copia. Eppure, dopo molti anni, ancora riesco a citarlo con disinvoltura in un pezzo che non c'entra assolutamente nulla. Finiamo sempre a parlare dei nostri libri preferiti, non importa su cosa verte la discussione.
Tuttavia non posso negare che esista nella mente di noi lettori un tarlo materialista e vorace che ci spinge a divorare tutti i nostri risparmi, comprando, comprando, comprando libri. Tantissimi.
L'effetto più evidente di questo circolo vizioso (formato da quattro tappe: accumuli risparmi-bruci i risparmi-accumuli libri – muori sotterrato dai libri) è la ricerca spasmodica dell'edizione più economica. Sì, perché tanti libri equivale a tanti soldi. E siccome tanti soldi non si hanno nell'era della condivisione di tutto tranne che dei suddetti, allora ci si arrangia. Questa rubrica che curo da qualche mese, fondamentalmente dovrebbe convincervi di una verità inoppugnabile: l'edizione è importante. È meglio spendere di più per un lavoro svolto come si deve che spendere meno per un lavoro trasandato. Una verità che le vostre mamme - rifiutandosi di comprarvi qualsiasi cinesata,  in attesa di un dolcevita di lana vera anziché i fuseaux di Barbie (che bramavo più di ogni altra cosa) - vi avrebbero dovuto inculcare da piccini, insieme al culto della canottiera sotto la camicia. E invece no. Invece siamo venuti su male. Noi disperati pronti a raccattare qualsiasi prezzo straccione, vi ricordate la discussione sui Newton a 0,99 centesimi? Se non ve lo ricordate andate qui. Ma prima dei Newton a #menodizero  c'erano loro: i libri dell'edicola. I classici di Repubblica-L'Espresso a un euro. Le collane del Corriere. I raccontini del Sole 24 Ore. “Ce l'ho tutti”. Come le figurine all'asilo.
S'innesca un meccanismo pericoloso che non mi sento né di condannare in toto né di celebrarlo come la vittoria dei poveri lettori contro il malvagio e ingordo sistema editoriale. Dove ci rimette uno ci rimettono entrambi. Molto spesso ad un prezzo miserevole, corrispondono traduzioni scimmiesche o decrepite, o peggio ancora: le edizioni incomplete, il mio personale supplizio. Dopo Tenera è la notte  (ed. Dalai) e I demoni (ed. Newton) si aggiunge un altro nome alla triste lista: “Il carteggio Aspern”, edizione facente parte della collana “La biblioteca di Repubblica”, a cui  manca il capitolo finale. La narrazione s'interrompe in maniera repentina e brutale. Il lettore è dapprima spiazzato, poi incredulo, poi imbufalito.
Capisco che costi un euro e non è che si può pretendere il lavoro editoriale di un team di filologi. Capisco che è l'era del precariato e ogni azienda si raccapezza come può - proprio Lunedì la Feltrinelli ha scambiato il contenuto del mio pacco ordinato online con quello di un omino con dei gusti tremendi in fatto di gialli incolpando dello sciagurato errore proprio la mancanza di personale - ma questa è un altra storia.
Davvero, mi mostro molto comprensiva. Tuttavia il fatto che manchi il finale può essere semplicemente o 1) il risultato di una sbronza epocale – avete presente il miglio d'oro ne la fine del mondo? 2) il ritorno dalla Costa Crociere. Tra l'altro i viaggi in crociera veri sono molto più mesti e ti lasciano addosso una vaga sensazione di appiccicaticcio, non di certo un'irresistibile voglia di tornarci.
Cosa ci rimane da fare, a questo punto? Esatto, amici. Spendere il doppio per procurarci un'altra edizione. Nell'elenco di libri da ricomprare per un mio personale (e sbagliato) spirito da collezionista ho già sette libri che avevo comprato in una pessima edizione. Sto adocchiando (fissando per ore in libreria in attesa che mi venga il coraggio/la malsana idea di buttare altri soldi dalla finestra, comprandoli) quest'edizione e quest'altra. Tutta colpa della taccagneria. E per le suddette cantonate ora sarò costretta a spendere il doppio. Un lavoro editoriale non è facilmente sostituibile. Ci rimettono tutti. Ma adesso il quesito più urgente è: a chi rifilerò quest'edizione immonda, questo moncherino fetido?

giovedì 23 gennaio 2014

Il vostro potenziale libro preferito è al macero. Che fare? - I granchi dell'editoria #9

ilenia 001Cosa succede quando scoprite che il libro che agognavate è fuori produzione? Escludiamo per un attimo le reazioni fumantine, l'adozione di un linguaggio colorito e lo sciopero della fame. Come fare per recuperare il tomo dei nostri desideri?
Quando appare la dicitura: “non più disponibile sul sito”, una parte di noi lettori già si dispera e si arrende, pensando che non ci sia modo di recuperare il suo potenziale libro preferito. Sì, sono un'ottimista. Fingete che nessun romanzo si riveli mai una delusione: il fantastico mondo dell'irreale e della possibilità non ci delude mai (Gatsby mi ha traviato in giovane età).
Alcuni lettori più navigati (o più ostinati) invece andranno in un luogo mistico che ricorda, neanche troppo vagamente, la stanza delle necessità in Harry Potter: il mercatino dei libri usati.
Le più varie tipologie di lettori si muovono in questo universo meraviglioso: molti si limitano a spulciare negli anfratti più bui per poi accontentarsi di classici in edizioni rilegate (io non ci sputerei) ma senza trovare il romanzo contemporaneo per cui erano arrivati speranzosi. Altri (i bibliotecari) si limitano a catalogare nella loro mente ogni singolo tomino (compresa la posizione del banchetto – stile battaglia navale - e un bozzetto del volto del venditore) in attesa di tempi migliori. Pochi conquistano addirittura il titolo di pirata (tutto quello che vogliono lo conquistano con la forza a prezzi stracciati).
E poi ci siamo noi. La categoria degli sfigati. Quelli che non hanno un mercatino di libri usati nella propria città. E che hanno tre opzioni: traslocare in una città migliore; mettere tra i preferiti il sito del Libraccio o supplicare la casa editrice colpevole del misfatto di ristampare il vostro potenziale libro preferito.
Lo scorso mese, tuttavia, si è profilata per la sottoscritta – che cercava come un segugio Amore e morte a Varanasi – un'altra opzione: la strada del digitale. Il libro che è andato fuori commercio, per i motivi più disparati, può rientrare nel circolo dell'amore letterario grazie all'opportunità che offre l'edizione digitale. L'ebook costa di meno, permette di recuperare un romanzo fuori produzione e potete averlo senza fare il giro del mondo in ottanta camicie di sudore, ma con un semplice click. I vantaggi del digitale ancora una volta tornano utili a noi lettori (che troppo spesso demonizziamo questo miracoloso mezzo). Se il vostro potenziale libro preferito non è ancora stato digitalizzato, potreste chiedere voi stessi alla casa editrice di farlo e sono sicura che la possibilità sarà vagliata (al contrario della ristampa, ipotesi remota sulla quale è meglio non sperare troppo).
Insomma chi ci rimette? Sicuramente non la foresta amazzonica.
Articolo originale qui

venerdì 10 gennaio 2014

Educazione alla gentilezza: Dieci Dicembre di George Saunders

Dieci Dicembre è l’ultima raccolta di racconti di George Saunders, uno degli scrittori più influenti del nostro tempo. Vi ho intimoriti?

Non credo di aver torto quando affermo che il clamore attorno a Dieci Dicembre - il New York Times l’ha definito “il miglior libro che leggerete quest’anno” - sia da imputare quasi interamente a questo signore. 

Saunders piace, anche parecchio. Prima ancora della sua scrittura, è proprio lui ad accattivarci. È un tipo garbato, autoironico. Con una caratteristica particolare, però. Ha negli occhi una bislacca convinzione: vuole migliorare il mondo con un sorriso. Appartiene a quella brutta razza in via d’estinzione: i sognatori. Con l’aggravante di avere una penna in mano. 
Comprensibile quindi l’effervescente entusiasmo che genera Dieci Dicembre e che è ancora più intensificato dalla lettura (Sì, ad un certo punto bisogna anche leggerli i libri, mica solo parlarne!). 

Anche se non arriverete a definire questa raccolta “il miglior libro dell’anno” - cosa che nemmeno io credo, d’altronde - comunque è difficile che non restiate almeno un po’ scossi dall’euforia creativa di Saunders. Tanto che, se non vi piacciono i libri troppo osannati, potete benissimo iniziare da altro. Per esempio, in questo momento, voglio appropriarmi de “Il megafono spento”, sempre edito dalla minimum fax e di cui ha parlato oggi su Internazionale, Giovanni De Mauro.

La raccolta contiene narrazioni molti diverse tra di loro, soprattutto a livello stilistico. Saunders è un camaleonte e adotta diversi registri e soluzioni formali, di modo che il lettore resti sempre spiazzato e debba “ri-sintonizzarsi” quando inizia un nuovo racconto.  
Nonostante quest’imprevedibilità, vi è una costante emotiva che fa da filo conduttore per la raccolta: la scelta tra l’avarizia dei sentimenti o la compassione, l’individualismo meschino o un atto di altruismo. 

Un motivo ricorrente è quello del salvataggio, di particolare rilevanza nel primo (“Giro d’onore”) e nell’ultimo racconto (“Dieci Dicembre”) - per me, i migliori dell’intera raccolta. I personaggi si trovano nella posizione di dover rinunciare alle proprio regole, al proprio ritmo di vita per soccorrere qualcuno, per aiutare uno sconosciuto. Saunders si interroga sulla possibilità di poter ancora compiere atti di disinteressata umanità in un mondo governato da mercati e dove le emozioni sono mercificate.   

Dieci storie originalissime che contengono immagini bizzarre e mondi fantasiosi che celano un intento morale ammirevole e per niente scontato. La satira del mondo moderno che fa l’autore texano ha una vena surreale e immaginifica, non ha i toni duri dell’indignatio ma un’ironia garbata. 
Ciò non vuol dire che sia innocuo o privo di spigoli. Quello che voglio dire è che non è mai disturbante (come invece è stata per me la lettura di quel meraviglioso romanzo che è Mattatoio n. 5 di Vonnegut a cui Saunders è stato spesso accostato).


È difficile costruire delle storie “assurde” che non si rivelino dei vuoti esercizi di stile, dei giochini cerebrali e autoreferenziali. Il rischio di quest’artificiosità è di lasciare tiepido il lettore. Devo ammettere che alcuni racconti, secondo me, sono freddi, non tutti hanno la stessa carica emotiva. Ma d’altra parte è anche normale il fatto che in una raccolta ci siano racconti più o meno belli. 
La possibile mancanza di cuore di alcune short stories è comunque compensata dalle buone intenzioni dell’autore. Insomma Saunders è troppo bravo per non piacerci, troppo anomalo per lasciarci indifferenti. Un libro che dà una chance all’altruismo e alla speranza, di questi tempi è più unico che raro. Sto dicendo che Dieci Dicembre è ruffiano? Probabilmente lo è ma Saunders non lo fa pesare.

Dirò la verità: secondo me, Dieci Dicembre non è un capolavoro. Ma è una sfida contro l’individualismo e gli egoismi del nostro tempo, ecco perché entusiasma (e meno male!).
Saunders ci dice che la disperazione del mondo è sopportabile. Non è buonista, non è mieloso, non è troppo rassicurante. 

“Il bambino si accostò alla recinzione. Se avesse potuto dirgli, solo con uno sguardo: Non è detto che sarà sempre così. All’improvviso la tua vita potrebbe diventare stupenda. Può succedere. A me è successo”.


Dieci Dicembre è un libro prezioso. Per me ha soprattutto un merito: quello di avermi dato una nuova visione della letteratura. Fin ora mi sono sempre accostata ad autori di rottura, immagino sia una fase, che riuscissero a sconvolgermi, a descrivere la brutalità e le contraddizioni del mondo. Ora penso che c’è ancora posto per una sorta di educazione alla tenerezza, al garbo e alla gentilezza nella letteratura, nell’arte. Ed è anche grazie a Saunders. 

venerdì 11 ottobre 2013

I granchi dell'editoria: I like big books and I cannot lie

Fin da quando ero piccina, ho avuto un'ossessione per i libri massicci. Quei rassicuranti tomoni che ti promettono innumerevoli pagine da sfogliare, infinite avventure, lunghissime ore di apnea letteraria. Senza contare la soddisfazione di aver scalato una montagna a lettura conclusa, la possibilità di entrare dentro un mondo da cui uscirai soltanto dopo mille e mille pagine. I libri sottiletta spesso (e sì, sto generalizzando) sono troppo brevi per diventare dei veri rifugi. Che è quello che ci serve in questo momento. Ah, no, adesso sto parlando solo di me.
Ammettiamolo. Se pensate ad un libro, la prima cosa che vi viene in mente è un volumone polveroso e spesso almeno sei centimetri (sì, ho misurato Anna Karenina con il righello). images
Ahimè, il mondo superati i dodici anni non è più lo stesso. Lo spazio non è infinito e la libreria scricchiolante dietro di te ne è la prova conclamata. Il tempo per leggere si accorcia (anche se il tempo si deve trovare, mica ti viene a bussare alla porta). Ritagliarsi uno spazietto per leggere non è impossibile ma è meglio avere la possibilità di portare i libri con sé.
Ecco, l'unico difetto dei big books è proprio questo: la loro portabilità. Nell'era in cui tutto è sempre più piccolo, più trasportabile, più maneggevole, i libri mammut sono delle ingombranti e lentissime testuggini. Ok, basta con le metafore animali.
La società liquida, sempre più frenetica e indaffarata, sembra essere poco compatibile con le immersioni in romanzi alla infinite jest. Tutto è frammentario, la lettura non può che adeguarsi. La compressione del tempo e la velocità di fruizione sono diventate delle abitudini a cui purtroppo sacrifichiamo il piacere di una sana alienazione da una realtà fin troppo virtuale. Lo so, è un paradosso.
Ho notato anche in me stessa questo impulso a dare precedenza a libri più piccini e "veloci" da leggere per ultimarne effettivamente la lettura. Tendo ad abbandonare i miei adorati big books e a posticiparne la lettura specialmente in periodi molto impegnativi che mi permettono di leggere poco. Di questo ne parlò anche Nick Hornby, un uomo più interessante di me, ne La lettura, inserto del Corriere della Sera. Non vi linko l'intervista nella speranza che prima di googlarlo finirete di leggere il mio pezzo. Diamine, stiamo parlando proprio del bruttissimo vizio nelle società ipertecnologiche della dispersione!
 CONTINUA QUI