Visualizzazione post con etichetta letteratura contemporanea. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta letteratura contemporanea. Mostra tutti i post

martedì 30 giugno 2015

Uragano Roth: La macchia umana

Avvertenze: 
1) questa sarà una lunga, lunghissima - probabilmente sconclusionata - tirata, i miei due cent, su un signore che assomiglia spaventosamente ad Italo Calvino (e a Neri Marcorè). 
2) A me piacciono moltissimo gli avverbi e li uso spesso in maniera inappropriata. 
3) Non ho ricevuto una solida formazione critica e questo è solo il frutto di letture disordinate e un’inesauribile curiosità. 

Ho da pochi minuti terminato la lettura de “La macchia umana” di Philip Roth. 
Ci sono quei libri che si insinuano all’interno del tuo consolidato nido di credenze, idee, saperi, pregiudizi, convinzioni - che hai fortificato con fatica e scrupolosa dedizione in vent’anni di scuola, vita familiare, cadute e ripartenze sentimentali - e sai già che non c’è più nulla da fare. Arrivano per scombussolare tutto, tocca ricostruire il castello di carta della tua identità da capo. 
Sono libri alteri, sdegnosi. Non smetterai mai di consigliarli, di parlarne, di instaurare confronti e soprattutto li rileggerai. Probabilmente subito dopo averli terminati, li ricomincerai.  Questo è il destino fortunato di libri come “La macchia umana”. 
Il mio primo Roth. Considerato uno dei più grandi scrittori viventi, vittima felice del totoNobel praticamente ogni anno, scatenato, chiacchieratissimo Roth. Ho sempre nutrito un timore reverenziale (vi rassicuro: non c’è ragione) verso queste figure della letteratura. Acquistano un’aria familiare, il loro nome - dappertutto letto, dappertutto udito - diventa quasi una sagoma. Roth, in particolare, con le sue consonanti finali, due arroganti fricative dentali, me lo immagino sempre con una giacca di lana cotta, modello coloniale, con le sopracciglia aggrottate, propenso verso di me come un grosso rapace ma dallo sguardo ironico. 
Si dia il caso che l’autore Roth sembri (e badate, sembrare è un verbo spietato) rassomigliare straordinariamente ai personaggi che raffigura. Vi avverto, prima di scrivere non ho cercato informazioni biografiche, né recensioni né alcun tipo di materiale a supporto di questa tesi. Semplicemente sembra così. Da lettrice, vedo che Coleman Silk è simile al suo artefice e l’autore si limita, come dire, a quest’opera di svelamento e occultamento continuo dello specchio. è così vicino, così vicino all’essenza del personaggio che dev’essere lui. Sappiamo che lo scrittore deve essere un abilissimo fingitore ma siccome io non credo ad un’abilità portentosa nel dissimulare che sia completamente disinteressata, devo pensare che il demone a cui risponde il signor Roth sia di natura personale. Non esiste che si vada così a fondo ad un personaggio senza che ci sia qualcosa di tuo. E tutta quella storia sulla necessità del testimone - perché il resoconto della faccenda qui ci viene fornito dallo scrittore Nathan Zuckerman - è una grossa panzana e qui si sta parlando di un meraviglioso alter ego. Anzi di due: Nathan Zuckerman, narratore degli eventi, e il coetaneo Coleman Silk, nella parte del povero viveur. La testimone unica è la scrittura. L’autore per proteggersi deve inventarsi delle maschere ma sappiamo tutti che razza di narcisi egocentrici siano, con noi non attacca.
D’altra parte, non credo che lavorando di fantasia il signor Roth sarebbe stato in grado di arrivare a tali vette di autenticità. Il protagonista dunque è una personalità formidabile e così il suo creatore. Ora possiamo addentrarci nel fitto della foresta nera. 
L’evidenza è che il romanzo - ma forse tutta l’opera dell’autore - si giochi su un crudele tiro alla fune. L’agone si tiene tra l’audace individualismo, l’autoaffermazione del sé al di là di qualsiasi vincolo sociale (persino familiare!) e dall’altro lato i dispositivi della società - il meccanismo del decoro, brutta bestia per Roth - che tentano di ricondurre lo scandaloso fluire della vita in fredde categorie, rigide convenzioni, etichette restrittive.
Nello specifico, Coleman Silk è un professore universitario sulla settantina la cui carriera impeccabile si macchia irrimediabilmente quando viene accusato di razzismo. Coleman usa la parola spooks per riferirsi a due studenti di colore. Il termine ha due accezioni: la prima è spettri, intenzionalmente utilizzata dal professore, facendo riferimento all’assenteismo dei due studenti (che lui non ha mai visto!); la seconda invece è un insulto spregiativo, negro. La prima sfumatura di significato appartiene al vocabolario, alla lingua codificata, il significato originario. La seconda appartiene allo slang, la lingua corrente che modifica e manipola i significati, si adatta alla mutevole contingenza della vita, alle congiunture della storia e vive di contraddizioni. La lingua è biforcuta, ambivalente, cela sempre un paradosso, un’opposizione. 
Una sola parola, pronunciata da un uomo di lettere (lettere antiche, lettere classiche), si rivela rovinosa. Diventa infatti il pretesto per infamare una figura rispettabile, eppure odiosa. Coleman infatti è apparentemente inserito nella convenzionalità - un distinto accademico, benestante, una famiglia numerosa, un aspetto piacente, un fisico ancora agile - eppure è scomodo, all’interno della comunità. Perché eccessivamente brillante, una sorta di despota, dalla mente tumultuosa. Ha trascinato fuori dalle secche intellettuali il campus, tagliando via i rami secchi (licenziando le cariatidi nullafacenti). Ironicamente potremmo dire, per usare un termine logorato dalla cronaca politica, che la sua opera di rottamazione ha fatto esplodere un sistema farraginoso per inaugurare un nuovo corso, più meritocratico, più dinamico. Un professore tanto illuminato quanto detestabile, per la sua arroganza, i suoi azzardi, la sua titanica personalità. 
L’accusa di razzismo non cadrà immediatamente - come vorrebbe il buon senso - nessuno infatti si schiererà apertamente dalla parte di Coleman che così dovrà sottostare a dei processi farsa, interrogatori, indagini interni al campus che sono più una beffa che una condanna. L’intento dei colleghi non è quello di rovinarlo bensì di mantenerlo sulla graticola, di vederlo rosolare, che mostri un po’ di umiltà. Ma Coleman Silk non riesce ad accettare l’onta subita, e proprio quando tutti stanno per dimenticarsi del piccolo scandalo, il professore decide di dimettersi, ritirandosi in uno sdegnoso e rabbioso esilio. Due anni dopo, riesce a liberarsi del rancore che l’ha quasi soffocato, abbandonandosi ad una relazione con Faunia, una silvestre creatura di trentaquattro anni, che risveglia una forza invisibile ed incontrollabile, quasi più dell’odio che per anni lo ha imprigionato: il desiderio. Il perbenismo della piccola comunità lo attacca nuovamente con ferocia accresciuta. Ogni atto commesso da Coleman sembra suscitare una condanna, ormai è macchiato, è l’appestato con la campanella.  


In un primo momento, dunque, la tenzone interna alla narrazione è tra la libertà dell’individuo (specialmente l’individuo eccezionale) di affermarsi con tutto il peso della sua persona (è interessante il fatto che in latino persona voglia dire maschera, ma ci torneremo dopo) al di là della morale comune, al di là delle etichette di giusto e sbagliato (spesso non coincidenti con bene e male) e la brutalità, la forza schiacciante della società che tenta di ricondurre la volontà particolare alla cieca volontà generale della storia con i suoi meccanismi culturali disciplinanti e disciplinati. 
Coleman è scandaloso, Coleman va punito. Questo professore che non si rassegna, che vuole smaccatamente vivere al di fuori della decenza.   





Da un lato, abbiamo la raffigurazione di questi grandi narcisi con la loro fitta retorica del sé e i loro slanci virtuosistici della Parola e dell’ingegno. Dall’altro abbiamo un continuo infierire su di loro con le armi affilate della calunnia e del pettegolezzo e il conseguente disonore per il nostro protagonista. Le personalità formidabili si ricollegano ad un elemento fondante della società americana: l’individualismo. Un individualismo però sempre teso come un dardo verso una realizzazione del sé, frustrata dal perbenismo e dall’ipocrisia della comunità.  
Non cedete all’autoinganno, non fatevi stregare dal fingitore. Non è un duello ad armi pari. Non c’è una vittoria morale dello spirito del protagonista, superuomo che si rivale sulla grettezza e la mediocritas della società americana. 
La grande lezione di Roth è che tutta la grande importanza data alla personalità, all’individuo, è infine sempre sbilanciata (a suo sfavore) dal memento riguardo la sua insignificanza. “Non eravamo più romanzeschi di quanto gli animali fossero mitologici o impagliati”. 






Il discorso di Roth non si limita a criticare quel costrutto per cui “tutti sanno”.  L’inconscio collettivo, quella lava vischiosa di pregiudizi e ideo precostituite che abbiamo sull’umanità. Perché un vecchio di settantuno anni non si vergogna di andare a letto con una illetterata bidella di trentaquattro? La donna sarà certamente vittima di  una manipolazione, di uno sfruttamento. Perché un professore non porge delle scuse ufficiali a due studenti di colore che ha denigrato verbalmente? è un razzista, è un arrogante tiranno. Ripeto, Roth non si limita a ribaltare quel “tutti sanno” in “nessuno sa” e a dileggiare la presunzione di avere qualcosa in più di una conoscenza parziale, fallace di ogni individuo. In altre parole, il protagonista non è un agnello sacrificale. Coleman Silk non è il fulmine che spezzerà la quercia della tradizione - per usare una metafora dell’epica lucanea - e per questo condannato come moderno Cesare, pagando il dazio della sua eccezionalità. 
Se fosse così il romanzo si sarebbe rivelato soltanto interessante, il classico, confortante relativismo zoppo sulla società meschina e il suo Ercole frustrato dalle invidie. Questo tipo di romanzi che siamo abituati a leggere troppo spesso non arriva ad abbracciare una visione più ampia. Se vogliamo scomodare un eroe, mettiamo in gioco Icaro, più che Ercole. 
Infatti, il romanzo trova la sua forza nella natura paradossale del protagonista. L’ambiguità si gioca a più livelli. Abbiamo visto che il protagonista è già sdoppiato in uno scrittore (Nathan Zuckerman, protagonista ricorrente nei romanzi di Roth ed ennesimo suo alter ego). Quel che non sappiamo è che il protagonista custodisce un segreto molto ingombrante, una sorta di identità negata. Un ennesimo sé, sebbene sia un sé rinnegato. In altre parole, più scaviamo, più vediamo la macchia di Coleman. La vera macchia, non quella fasulla, appiccicatagli addosso dalla società ma quella inconfessabile, il segreto ignominioso che Coleman non può rivelare.
Il paradosso non sta nel fatto che una parola così piccola e anche un po’ ridicola - spooks - possa generare una valanga di conseguenze spiacevoli ma nel fatto che l’unica verità che può riscattarlo pienamente dall’accusa, è impossibile da pronunciare perché cela una vergogna molto più grande. 
Riflettevamo prima sulla persona. In latino, il termine è strettamente connesso al volto, tant’è vero che etimologicamente possiamo risalire al significato di “individui mascherati”. Ebbene, il volto che Coleman mostra  è sempre una costruzione, sempre una maschera. Che libertà c’è nel nascondersi? 
Il paradosso è ovunque in questo romanzo. Non si ferma all’ambiguità del linguaggio - la lingua biforcuta di cui parlavamo prima - ma si insinua ad ogni strato. è paradossale il modo in cui tutti credano - in maniera quasi inconscia - alle calunnie sul conto di Coleman, persino i suoi figli. Lo sforzo fatto per educarli, per trasmettergli tutta quella cultura, comprensione e tolleranza, risulta vano. Sono disposti a credere alle più fuorvianti sciocchezze sulla vita del padre “come se fosse una soap opera vittoriana”. La fragilità del buon senso contro forze più grandi di noi, forze dell’inconscio, il nostro “sentire comune”. La febbre del pettegolezzo che contagia anche gli animi più saldi, quella presunzione di conoscere il prossimo, le sue gioie ma ancor di più le sue nefandezze. "Tanta istruzione non serve a nulla, nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero". Quel “tutti sanno” che in realtà è sempre “nessuno sa”.  
Il paradosso sta nel fatto che tutti condannano Coleman per le ragioni sbagliate, e la frustrazione è maggiore. Forse la pena risulta doppiamente atroce per Coleman proprio perché è schernito da ragioni misere e grette, anziché essere smascherato per la sua vera empietà. Perché nessuno conosce la vera macchia di Coleman. A questa paradossale miopia della società corrisponde invece la lucida e precisa prospettiva multifocale di Roth che ci offre una varietà di personaggi e di punti di vista, la molteplicità e l’ambiguità dei loro desideri. Roth profana il mito della purezza e del decoro. Ci mostra le nostre eresie, i nostri sotterranei illeciti, la nostra inevitabile corruzione. 






Avvertenze, parte seconda 
Da qui in poi consiglio la lettura solo alle persone che hanno letto il romanzo, sebbene io ritenga davvero una sciocchezza leggere Roth preoccupandosi di eventuali “spoiler”. Sarebbe come precludersi di leggere Anna Karenina perché sai già che fine farà la fiamma della candela(1) 

Non si può giudicare il romanzo prescindendo dalla Grande Bugia di Coleman perché essa è lo specchio che riflette tutta l’azione del protagonista. è una strana legge del contrappasso. Coleman si arruola nei Marines fingendosi ebreo, un ebreo bianco. Un nero che non può aspettare che la società sia pronta per accettarlo, che vuole “forzare la serratura del meccanismo” della storia, che vuole piegare quel grande dispositivo disciplinante che è la società, inserendosi a forza in una categoria “giusta”, rispettabile, decorosa. 



L’iconoclastia di Coleman Silk arriva a rinnegare la sua famiglia, la sua stessa madre per sviluppare il suo io, in piena libertà. Comprendiamo Coleman. Ma il suo gesto è eroico? Forse è tutto qui il romanzo di Roth: "l’indivisibilità dell’eroismo dalla vergogna". La sua potrebbe sembrare una giustizia riparatrice (ai suoi occhi, certamente lo è). Potrebbe sembrare legittimo sfuggire ad una categoria per sviluppare la sua piena personalità. Ma innanzi tutto ci si può chiedere, quale persona si sia formato Coleman, balzando metaforicamente fuori dalla sua pelle originaria. Ha sviluppato il suo vero sé al di là dei pregiudizi della società o ne ha soltanto creato un altro, per quanto inattaccabile  nella sua versione rispettabile? Il Coleman nero e il Coleman bianco, chi dei due è quello più valido o meno valido? Dopo anni trascorsi nella convenzione, il professore bianco ebreo - per lungo tempo auto assoltosi - viene improvvisamente ricatturato dal meccanismo della storia, di cui siamo prigionieri. Viene colto in fallo da una parola - o meglio, dal suo significato contingente, storico, gergale -  e per ironia della sorte viene accusato di razzismo. Proprio lui, che è nero, che ha fatto di tutto (persino l’inimmaginabile Rifiuto della Madre) per sfuggire a quel pregiudizio che ora gli rinfacciano! Tanto più minuscolo è l’errore, tanto più rovinoso il suo fallimento. 
Siamo "bestie carnali" immerse in un gioco beffardo, da cui è impossibile esimersi. L’estenuante sforzo di Coleman, la sua smania di liberarsi da quel “noi” di appartenenza alla cultura afroamericana, alla sua negritudine, è annullato da una parola (che è naturalmente solo la miccia). In altre parole, la brutalità del tempo presente - della storia che ancora non è storia - è di mille volte superiore alla nostra, seppur eccezionale, individualità e ai suoi tentativi di elevazione. E qui ritorniamo all’inizio, al primo punto, al gioco alla fune tra l’individuo (il suo narcisismo, la sua ambizione di forgiarsi uno storico destino) e il costante monito alla sua insignificanza. "La libertà è pericolosissima, e non esiste nulla che rispetti per molto tempo le tue condizioni".  Quel “Noi” da cui Coleman vorrebbe sfuggire, non permette fuga alcuna. 

Un ultimo spunto di riflessione appare d’obbligo. Con tutti questi interrogativi sulla verità, sulla storia e le sue convenzioni, sulla fallacia del sapere, del linguaggio e della parola - c’è una bellissima citazione da poter sfoderare ad una cena che è questa: “la verità sul proprio conto non è conosciuta da nessuno e spesso meno di tutti da se stessi” -  che via d’uscita c’è, se c’è?  

Prima abbiamo parlato di prospettiva multifocale, a proposito di come Roth voglia renderci partecipi dei retroscena, di più personaggi, non solo il traditore della razza, il figlio senza cuore, il grande narciso Coleman. Per ciò quello di Roth aspira ad essere un romanzo totale (vd. punto tre delle avvertenze iniziali), non tanto impegnato nella vertigine della lista che sembra la smania del nostro tempo (sono piuttosto ambivalente su questo punto perché amo Donna Tart ma detesto Murakami e Jumpha Lahiri - ci sarebbe da aprire un’altra parentesi ma sono clemente). Bensì nel restituirci un’immagine il più possibile meticolosa e nitida della multiforme natura della vita. Tutto questo spiegare incessantemente fin nel più piccolo dettaglio ogni svolta del labirinto della mente dei personaggi, come possiamo definirlo se non totale?
Su tutto per altro domina una vena d’umorismo, da giocoliere relativista che salta continuamente tra ciò che è rivelabile e ciò che non lo è. La letteratura quindi è testimone fedele e inaffidabile, allo stesso tempo. Non è certamente consolatoria ma anzi pone un argine al nichilismo perché si spiega, è il mezzo di rappresentazione del sé meno indulgente, più spietato. L'arte che si avvicina di più a scoprire se dietro le mere azioni, dietro i fattori sociali che ci definiscono, c’è ancora spazio per pensare all’individuo come qualcosa di separato da tutto questo. E per pensare alla “vita come un concetto il cui fine è nascosto”, sfuggente. 
Infine, “su tutte le nobili giustificazioni, cala il martello di Faunia”.
Se c’è qualcosa che può salvare Coleman, che può ridargli dignità e senso, è il desiderio, l’unica forza incontrollabile e tumultuosa che si può opporre al logorio del rancore. Roth d’altronde decide di chiamare questa caricaturale salvatrice, Faunia, come il fauno/satiro della mitologia antica, simbolo del vitalismo, della frenesia e dell’ebbrezza dei sensi. Tanti sono i richiami al mondo classico (Coleman è un professore di letteratura latina e greca) ne La macchia umana, che può essere in un certo senso definito una tragedia postmoderna (2), libertina, indecorosa, nell’accezione più bella del termine. “Ha qualcosa in comune con l’Iliade, libro preferito di Coleman sullo spirito barbaro dell’uomo”.

Insomma, ho detto molto ma non è ancora abbastanza esaustivo come commento per un romanzo di tale portata, davvero magnifico. Dopo questo primo round, mi aspetta Goodbye Columbus e poi molti altri ancora. Non ho nessuna intenzione di uscire dall’uragano Roth. 

NOTE:
(1) Un mužicjòk, dicendo intanto qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.
(2) "Il grande dramma dell’uomo che è saltar su e andarsene. Per diventare un nuovo essere umano. Per biforcarsi". 

sabato 25 aprile 2015

Stalin + Bianca, Iacopo Barison. Il balletto meccanico dell'apocalisse.

Tra i candidati del Premio Strega 2015 (poi escluso dalla cinquina)
Edito da Tunué, collana Romanzi, pag. 175, 9,90 


Un ragazzino con una videocamera in uno stadio vuoto. Accanto a lui, Bianca - una ragazza cieca e bellissima - di cui è innamorato. Stalin, lo chiamano. Per via dei suoi folti baffi. Soffre d’improvvisi attacchi d’ira che riesce a tenere a bada ingurgitando pillole da un blister che porta (quasi) sempre con sé. Sta per compiere diciotto anni (anche se non vorrebbe). Sta per commettere un’azione a cui non potrà più porre rimedio (anche se non vorrebbe). Sono entrambi giovani e soli. Questa è la storia della loro fuga, attraverso un mondo contaminato e freddo che sembra non avere più molto da offrirgli. 

“Il mondo è arrivato ad un punto morto”

La provincia da cui fuggono è gelida e quasi disabitata, una “palette di grigi” da cui tutti tentano di allontanarsi. Verso dove? “Dove non c’è la neve”. La realtà immaginata da Barison è infatti cupa, dagli accenti apocalittici. Il mondo è irrimediabilmente contaminato, guasto, al capolinea. Eppure la morte descritta di Barison non è fatta di violenza, brutalità, panico. è una disperazione sorda, avvolgente, pigra. La foschia circonda tutto, il lento deteriorarsi del pianeta è uno spettacolo malinconico.
 La società occidentale ha perso colore e autenticità ma non i suoi comfort. D’altra parte, “il mondo è sull’orlo del baratro ma non è ancora caduto”. La Capitale è lasciva, squallida, irreale. I paesaggi metropolitani sono marchiati da una nuova fase del capitalismo, non più sgargiante e promettente ma conformista e grigio. Il marketing si è ridotto all’osso, persino nel consumo ormai c’è ben poca scelta. Non è più uno svago ma il riflesso condizionato dei tempi andati. 
La Capitale (che non ha nome né coordinate geografiche precise) è un territorio esploso:  “L’orizzontalizzazione delle razze, la mescolanza di peculiarità etniche” hanno creato bizzarri risultati: fast food di cucina fusion, veg burger, e altri amalgami di culture disperse. Ogni quartiere assomiglia a quartieri lontani, situati addirittura in altri emisferi”
Non manca elettricità, né cibo, né acqua in questa triste apocalisse.  Ma le verdure sono liofilizzate, il mondo è sterile e spento. Stalin si chiede come mai non ci siano più arcobaleni, ogni traccia di bellezza sia stata risucchiata, così come ogni speranza per il futuro. 



“Respireremo la crisi di un’epoca che ha fatto il suo tempo”.
Tutto questo ci viene restituito attraverso frammenti, istantanee, esattamente come il corto che sta girando Stalin. Il protagonista infatti è percorso da due tensioni: una distruttrice (i suoi attacchi d’ira) e una creativa che lo porta ad esprimersi attraverso il racconto visivo del loro viaggio.  A fare da contrappunto alla “lunga parete nera” che è la vista di Bianca,  c’è l’obbiettivo della videocamera di Stalin. La narrazione è quindi estremamente visiva, ci restituisce un mosaico dei nostri tempi fatta di spezzoni incoerenti e spietati. Il romanzo procede come una puntata di Blob: sulle note di What a wonderful world, si susseguono accostamenti paradossali, immagini di giocolieri in una discoteca, scheletri che elemosinano droghe, individui che indossano maschere antigas come accessorio fashion.  Tutto danza attorno a noi come un balletto meccanico. C’è qualcosa di inspiegabilmente melanconico in questo romanzo: un movimento che simula l’organico ma non possiede lo stesso slancio, un movimento senza scopo, automatico. Come il viaggio dei due protagonisti, diretti verso il vuoto. 
La domanda che si pone Barison: cosa succede se anche i posti in cui fuggire sono finiti? 

Il romanzo s'indebolisce nella seconda parte, caratterizzata da una serie di banalizzazioni sul maledettismo giovanile. Anche lo stile risente di un’esasperata drammatizzazione, un’eccessiva sentenziosità. Per descrivere atmosfere così particolari funzionano meglio certe immagini come l’insegna al neon sgangherata della pensione che ospita i due giovani o la fontana di ghiaccio che diventa una grottesca attrazione turistica. Show, don’t tell. 
Quello che dovrebbe essere un viaggio di crescita in realtà è un’involuzione esacerbante del protagonista che, improvvisamente libero dal disturbo di cui soffre, si crogiola nel proprio ego, perde in umanità per diventare invece il grande eroe di una tragedia (senza pathos). 
I dialoghi si fanno artificiosi -  laddove nella prima parte erano essenziali e taglienti - dei giri a vuoto. Stalin e Bianca si ritrovano a vivere tra artisti di strada, pochi soldi, molti ideali e droga. L’intenzione dell’autore è quella di dipingere uno scenario d’apatia ma il talento artistico dei protagonisti più che sprecato sembra inconsistente. 
Infine Bianca. Dovrebbe essere la co-protagonista ma è un fantasma, riflesso di Stalin: irreale, piatta. L’ennesima figura femminile oggetto di sguardo e pressoché inerme. Bellissima e ininfluente. Nella narrazione, chiusa completamente nella soggettività (spesso ottusa) di Stalin, gli altri personaggi risultano opachi, inutili.  
Se si dovesse trovare una causa da imputare ai difetti di Stalin+Bianca, certamente, sarebbe la megalomania del protagonista principale. Un difetto che è possibile perdonare al romanzo di uno scrittore molto giovane (è quasi impossibile non trovare un eccesso di slancio retorico nelle prime opere, specialmente in quelle di autori ambiziosi). 
  
Una serie di campi lunghi, una storia crudele, dalla bellezza cupa che, sebbene traballi dal punto di vista narrativo (come racconto breve sarebbe stato perfetto), ci restituisce un’originale visione del mondo, suggestiva e intensa. 


Note a margine: se l’istinto non m’inganna, Barison è un lettore di DeLillo, che ritroviamo soprattutto nell’idea di Metropoli incoerente e labirintica. Mi sembra poi che gli artisti che vivono in un palazzone abbandonato siano un chiaro accenno ad Underworld

giovedì 26 marzo 2015

La verità capovolta, Jennifer duBois



Ma quanto è brutta la copertina italiana?

"Da bambino era stato paziente con le domande, sicuro che un giorno sarebbero arrivate le risposte. E adesso che era cresciuto si voltava a guardare e ritrovava tutte le domande là dove le aveva lasciate: coperte di polvere, forse, ma straordinariamente ben conservate. Le domande duravano più di ogni altra cosa, in realtà; le domande e gli oggetti. Tutto il resto andava verso la distruzione". 


Se il romanzo d'esordio della scrittrice ("Storia parziale delle cause perse") rappresenta l'esempio di una narrazione eccezionale  - soprattutto, ma non solo - per merito della storia, la seconda opera della Dubois ("La verità capovolta") è un libro sorprendentemente ben riuscito nonostante la storia. 
Un episodio di cronaca nera è l'ispirazione per il romanzo, un caso di omicidio piuttosto conosciuto e sfruttato in tutti i modi possibili (dal becero intrattenimento televisivo al sensazionalismo della stampa, al libro verità, al docu-film ecc..). La scelta,  all'apparenza molto scaltra, di riaccendere i riflettori sul delitto di Perugia, l'omicidio di Meredith e il conseguente circo mediatico su Amanda Knox, ricade invece nella categoria: mancanza d'immaginazione. Non che un omicidio non sia interessante. Tuttavia la scelta di questo particolare caso non può che evocare l'immagine di una carogna servita ad un sontuoso ricevimento. Lo spettro del cattivo gusto aleggia su questo romanzo, soprattutto in virtù del fatto che è stato riaperto il processo (e sta per giungere una sentenza proprio in questi giorni!). La letteratura certamente non deve avere argomenti tabù. Eppure non si può dire che la duBois provi a ribaltare certe bassezze compiute all'interno della narrazione dei media tradizionali: lo strisciante sessismo, l'elemento scabroso, la morbosità del connubio erotismo e violenza. 
La cronaca nera gioca da sempre sul giudizio preventivo, sull'apparenza, sul processo alle intenzioni, sul "mai chiarito", che però non è una categoria del pensiero ma un pretesto per poter scegliere da soli il proprio colpevole, il proprio movente, la propria preferenza. 
La duBois è infinitamente più raffinata del grossolano e crudele carosello mediatico. Sì, condanna la superficialità dei giudizi, il cannibalismo dei sentimenti, la parzialità delle storie. Ma in fondo fa tanto meglio? Il suo romanzo è un gioco: sulla fallibilità delle percezioni, sulla verità, sulla psicologia di personaggi nebulosi(forse fin troppo), cerebrali, annosi. Ed ecco perché si resta tanto male alla fine. La desolazione delle ultime trenta pagine ci sorprende e mal si adatta al resto. Tutto il romanzo è ludico, enigmatico, quasi mai drammatico. Siamo affascinati, mai pienamente coinvolti. Capiamo Lily,  apprezziamo il suo carattere ambivalente, egocentrico e inconsapevole, di un’inconsapevolezza fatale che ti porta a cacciarti nelle situazioni più spiacevoli per quell’assurda convinzione che il male non ti tocchi.  Sviluppiamo empatia, soprattutto perché sappiamo che Lily è una persona come noi, reale, possibile, complessa.  è una ragazza che fa la ruota durante un interrogatorio.  Il perché però è lasciato all’interpretazione. Questo è il problema. Il fatto che nel romanzo della duBois, esattamente come in un servizio di cronaca nera trasmesso al telegiornale, tutto si trasformi alla fine in un gioco delle parti. E ti senti anche tu uno spettatore idiota che magari ci ha creduto alla buona fede del sospettato x e invece che peccato dovrai pagare la scommessa al tuo barbiere che invece aveva puntato sull’altro, quello innocente. 
Il punto è che non c’è una morale più profonda di questa. è un romanzo straordinariamente buono nella misura in cui tutti i personaggi hanno una voce distintiva, bella, potente. è un romanzo riuscito perché nonostante la storia si trascini più del dovuto verso volute davvero non necessarie, resti lì a leggere perché la duBois è così brava nell’avvincere il lettore alle sue parole, così lontane dall’ordinario, dal prosaico. è un bel romanzo perché ti lascia sperare che ci sia qualcosa di più rispetto al gioco vero/falso e in effetti c’è: nel groviglio di storie e ricordi e malinconie che sparpaglia intorno la scrittrice, nei dettagli sommersi del resoconto dei personaggi. Al centro però c’è una storia evitabile, brutale senza essere null’altro che questo. 

Il finale è doppiamente malvagio: da un lato, ti fa stare male quasi fisicamente perché hai vissuto nella mente di personaggi brillanti ma non così tanto da sfuggire alla bestialità del mondo. Dall’altro, ti lascia l’amarezza di  aver letto un romanzo di una brava scrittrice che ha deciso di prendere una scorciatoia.  No, non ci sono beceri colpi di scena o scivoloni disastrosi ma rimane un romanzo che sfiorisce in fretta. 

Note a margine: titolo in italiano decente, peccato che in inglese il senso è decisamente meno banale e si riferisce alla ruota che la protagonista esegue mentre è interrogata dalla polizia. Gesto che getta sospetti e ambiguità sulla protagonista: fredda calcolatrice o ingenua vittima delle circostanze?
La copertina italiana invece non mi piace, la trovo asettica. Molto meglio l'originale.


lunedì 16 marzo 2015

Annientamento di Jeff Vandermeer. Luoghi non segnati sulle mappe.


“L’osservazione di tutto questo ha soffocato le ultime ceneri del mio irresistibile impulso a conoscere ogni cosa…”.

Quattro donne senza nome si avventurano per scopi scientifici all’interno dell’Area X. Si tratta della dodicesima spedizione all’interno della zona: un’area disabitata sulla costa americana che la natura ha iniziato a reclamare per sé. Un luogo altro, in cui le leggi fisiche sembrano rispondere ad altri dettami, in cui opera una Forza che altera l’ambiente in modi imprevedibili e innaturali. La Southern Reach, segreta agenzia governativa, è incaricata di indagare sulle anomalie del luogo attraverso cicliche missioni di scienziati, il cui compito principe è l’osservazione. Scrivono i risultati della loro esplorazione su un diario (e sono proprio le pagine del diario della Biologa che leggeremo). Sono vietate le comunicazioni verso l’esterno così come l’uso di strumenti tecnologici. 

Annientamento è caratterizzato dal ritorno al primitivo. Jeff Vandermeer ci introduce in un contesto selvaggio, primordiale, fitto di mistero, al confine con il paranormale. Adesso che siamo così immersi nella cultura tecnologica, in cui si ingigantiscono le ombre degli incubi proiettati dalla fantascienza, Hal 9000 e leggi della robotica sono messi da parte. 
La lotta ingaggiata in Annientamento non riguarda l’uomo e le sue creature. Più vicino è forse Alien e il suo predatore dall’intelligenza spietata. Tuttavia il senso incombente di minaccia inevitabile - così ben reso dalll’autore - non proviene dall’esterno, nello Spazio sconfinato. L’attenzione è rivolta al nostro pianeta. Perché cercare altrove se così poco percepiamo e conosciamo del nostro mondo, di cui ci crediamo i padroni? 

Tutto ciò che succede nell’Area X è infatti oltre la capacità dei sensi umani di capire e orientarsi. Figuriamoci di controllarne l’ambiente. Apprendiamo che l’Area si è formata a seguito di un disastro ecologico, causato dall’azione umana. La zona contaminata è la risposta della Natura agli effetti devastanti dell’umanità. Anziché considerare il nostro pianeta come qualcosa di dato ed immutabile, Vandermeer ci apre gli occhi su come la Natura sia sempre in fase di mutazione, imprevedibile, adattivo. E se la Terra avesse creato una forza superiore all’Uomo, che possa contrastarlo, assimilarlo, annientarlo? 

La narrazione è investita da una grande attenzione alla percezione. L’autore possiede un’intensa consapevolezza di quanti mondi nascosti vi siano al di sotto dei paesaggi naturali e sulla fallacia dei sensi umani di percepirli. Gioca su questa mancanza.  
La protagonista di Annientamento vede ribollire l’inspiegabile, tenta di risolvere l’enigma dell’ignoto con mezzi razionali (con quanta sicurezza all’inizio si aggrapperà al suo microscopio!). Chi meglio di lei? Biologa, esperta degli ecosistemi in transizione, figlia unica ed esperta negli usi della solitudine, un’osservatrice perfetta, che si mimetizza, si confonde con il paesaggio. Il suo soprannome è uccello fantasma
Probabilmente proprio grazie a queste sue capacità di adattamento, subisce da subito l’influenza dell’Area X, ne è infettata. Diventa quindi una narratrice inaffidabile: la sua percezione dell’ambiente è amplificata, distorta. Il suo è un viaggio incubo che la porterà ad un mutamento totale, una metamorfosi.

Vandermeer sembra andare oltre al genere del body horror alla Cronenberg. Annientamento è un lavoro che fa dell’ibridazione una cifra stilistica, non solo il nucleo narrativo. La contaminazione è presente nell’ambiente, nei personaggi, nello stile. è possibile creare dei parallelismi con Lost, Alien, Stalker e autori come Lovecraft, China Mieville, Clive Barker. Le influenze sono tante, la rielaborazione che ne fa Vandermeer si rifiuta di essere etichettata. 

La corrente è quella del new weird che accoglie autori anti-tolkeniani, impegnati nella creazione di mondi ibridi, al confine tra fantasy e fantascienza, originali e rigorosamente verosimili. Altra caratteristica è quella di arricchire la narrazione di un tessuto simbolico fitto e donare una complessità psicologica ai personaggi che permetta di superare le distinzioni canoniche tra bene e male. Proprio questo elemento aggiunge ancora più ambiguità alla storia. Viene in mente la citazione di Lorne Malvo in Fargo (serie tv): “There are no saints in animal kingdom. Only breakfast and dinner”. Non ci sono santi nel regno animale: solo colazione e cena. L’Area X è un luogo ancestrale, l’orientamento (soprattutto morale) è reso vano dalla più micidiale delle tecnologie: il mimetismo. Distinguere la realtà dai suoi camuffamenti è decisivo per la sopravvivenza. 

Annientamento è una fionda tesa. La fascinazione verso il mistero insondabile non basta, ciò che dona bellezza inquietante alla storia è la vena immaginifica dello scrittore, le brillanti riflessioni sui limiti del sapere e soprattutto l’indagine nella mente della protagonista. Che cosa l’ha condotta davvero nell’Area X? Qual è la sua storia?
Il romanzo è un’angosciosa apnea, disturbante e contorto, ti lascia in uno stato di indeterminatezza. Le risposte sono poche ma non inesistenti o incoerenti (qualcuno ha citato Lost una volta di troppo). La filosofia è questa: “Quando siamo troppo vicini al cuore di un mistero, non c’è modo di riallontanarsi per vederlo nel suo insieme”.
Dobbiamo, come la Biologa, accontentarci di indizi, deduzioni, approssimative e parziali.

“Mi rendo conto che tutti questi ragionamenti sono incompleti, inesatti, imprecisi, inutili. Se non ho vere risposte è perché non sappiamo ancora cosa chiederci. I nostri strumenti sono inutili, i nostri metodi approssimativi, le nostre motivazioni egoistiche”. 

Annientamento è un luogo non segnato sulla mappa: difficile inquadrarlo; inoltrarsi al suo interno può essere azzardato ma, una volta entrati, la curiosità avrà la meglio. 

Note a margine:
L'aspetto che mi ha più colpito del romanzo è l'attenzione meticolosa al mimetismo. Io ho delle teorie riguardo alle misteriose creature della storia che si rifanno precisamente a questa capacità naturale che trovo stupefacente e pericolosissima. Attendo di parlarvene prossimamente in un post zeppo di spoiler.
Qui potete trovare un elenco di tutti i libri che hanno aiutato l'autore alla composizione del romanzo. Domani, 17 Marzo, sarò a Torino per partecipare ad un incontro con l'autore, insieme ad altri blogger, giornalisti e scrittori. Non vedo l'ora.
Annientamento è il primo romanzo della trilogia dell'Area X che uscirà nel corso di quest'anno, sempre per Einaudi.
La bellissima copertina è opera di LRNZ (autore di Golem, Bao). Si è occupato anche delle copertine degli altri due volumi della trilogia a cui potete dare una sbirciata qui.

domenica 22 giugno 2014

Considerazioni (lunghe e noiose) su La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro


Il futuro si è deteriorato, sembra che non ci attenda niente di buono, su questo sono tutti d'accordo, quando ero piccolo non era così: il futuro aveva qualche problema ma complessivamente era radioso, lucente, interplanetario, interstellare, intergalattico, trans-spazio-temporale.

Per Ivo Brandani, un soggetto residuale fuori dal ciclo riproduttivo (un vecchio ingegnere di sessantanove anni), le uniche dimensioni temporali possibili sono il passato e il presente. 
L’intero romanzo è giocato sull’alternanza tra questi due tempi narrativi. L’arco di una giornata - il ventinove Maggio 2015 - è lo spazio riservato alla disamina di una nauseante contemporaneità. I capitoli sono scanditi dall’orologio: dalle 9:07 A.M a 7.47 P.M. Un’interminabile giornata trascorsa con la debordante contrarietà del protagonista. Ivo attende all’aeroporto di Sharm-el-Sheik il volo di ritorno a casa. Si trova in Egitto per ricostruire con materiali sintetici la barriera corallina. In questo speciale limbo, l’unica dinamicità è offerta dalle sue associazioni mentali - echi di Proust e di Celine - che generano un torrenziale monologo, un feroce attacco al presente.

Il presente che descrive Pecoraro è in realtà un futuro prossimo, appena ad un anno di distanza dal nostro. Un anno che nel secolo accelerato in cui viviamo può anche significarne dieci. I riferimenti a questa realtà sono assoluti: le città sono indicate come Citta di Dio (Roma) o Città di Mare. Con le maiuscole anche i luoghi del potere, freddi, distanti: il Governatorato, l'Amministrazione, i Distretti. I luoghi decisionali sono lontani dall'individuo, vuoti. Tale descrizione di una burocrazia spersonalizzante ricorda Saramago (il Centro nel romanzo La Caverna, in particolare). E non è in ogni caso per niente lontana dal senso di smarrimento, solitudine e inerzia che appartiene al nostro tempo.  

Il fiume straboccante di parole contro la contemporaneità non è solo il risultato dell’IMS (Irritable male syndrome anche conosciuto come il ronzante rosicamento dei vecchiardi, a cui tutti noi siamo abituati). Ma è una disamina acutissima della realtà coeva. Il quadro è fosco. 
Un presente fasullo, vuoto e privo di bellezza. Il pianeta è ormai per metà in decomposizione e per metà plastificato, popolato da non-morti continuamente rigenerati dalle sostanze chimiche, risollevati dalla chirurgia, sempre più lucidi, artificiali. La vita ancora più lunga, quasi eterna, dove tutto è una copia di una copia di una copia. Persino il cibo è assemblato artificialmente. Un fake planet, devitalizzato ma in cui è quasi impossibile morire. Anzi, si direbbe che morire sia faccenda d’altri tempi.  
Stiamo lentamente transitando dal naturale al post-naturale, una surrealtà dove tutto è immagine di un originale scomparso. 
E Ivo - con il Rifacimento dei fondali marini in sintetico - contribuisce alla ricostruzione di un mondo fantoccio, alterato, imitazione di una realtà ormai perduta. Il tema della distruzione e della ri-costruzione si intrecciano: Ivo fabbrica un mondo nuovo mentre porta alla rovina quello vecchio, assume il doppio ruolo di homo faber e homo destruens. 
La sua carriera di ingegnere strutturista infatti non l'ha portato a progettare proprio un bel niente. Che contribuisca al disastro, allora. 

Io sto al gioco, mi piace l'Apocalisse, mi ci trovo bene, ci godo...

I toni apocalittici con cui viene descritta la contemporaneità sanciscono il collasso del mondo in cui è cresciuto. L’ingegnere si trova in una realtà dal volto irriconoscibile, da cui si sente già scollato, lui e la sua mentalità novecentesca. Vorrebbe passare gli ultimi stralci di tempo a sua disposizione assistendo ad un grandioso disastro - qualcosa di veramente emozionante, finalmente - è ossessionato dal senso della catastrofe. Non si inverte la freccia del tempo , gli direi a questi qui dietro il banco. Tutto deve andare a male, marcire, degradarsi, rovinarsi, fottersi definitivamente. Ma non ci sarà nessuna esplosione, solo un lento deteriorarsi che cambierà il volto del mondo. E Ivo si si sente già prossimo alla fine. Come i soldati che muoiono l’ultimo giorno di guerra, come a quei bambini che presero la poliomielite quando il vaccino era già in distribuzione. Sulla soglia di una nuova era. 

A queste amare invettive, si alternano capitoli dedicati alle reminiscenze del suo passato. Sgorgano dalla mente di Ivo ricordi a ritroso, da quelli più recenti all’infanzia, fino ad un finale fuori dal tempo. Dunque mentre la giornata del ventinove Maggio procede in senso orario - dalla mattina alla sera - il passato di Ivo si ripropone in senso antiorario, dalla vecchiaia alla sua nascita. La narrazione procede perfettamente  su questi due binari temporali, alternando questi due ritmi. La struttura del romanzo fa sì che la fine di Ivo - sappiamo dal primo capitolo cosa lo ucciderà - coincida con l’inizio della sua vita. Un motivo circolare che si ripresenta costantemente: il viaggio di ritorno dall’Egitto, il ritorno con la mente alla casa d’infanzia, al nucleo familiare d’origine e soprattutto al padre, paradigma tirannico e irrefutabile. 
Se inoltre il 2015 aveva caratteristiche vaghe, un contesto futuristico, il passato di Ivo al contrario ripercorre la Storia d'Italia. Un contesto a noi familiare, che viene però riletto con una nuova chiave da Pecoraro.
Queste immersioni nel passato - alcune rappresentano dei perfetti racconti autoconclusivi - danno una giustificazione al cinismo dell’attuale Brandani. Il suo vissuto è segnato dall’inadeguatezza e dai fallimenti. La vita lo ha attraversato, e lui l’ha subita. 

EFFETTO CORIOLIS: ogni traiettoria subisce una curvatura, talvolta fino ad avvitarsi su se stessa...Non sei mai dove avresti voluto essere, non arrivi mai nel punto dove hai messo la prua, ma sempre da qualche altra parte e ti dice bene se riesci a finire nei pressi del tuo obiettivo...Io, ammesso che avessi un obiettivo, non solo l'ho mancato in pieno, ma da qui nemmeno lo vedo più

La vita di Ivo scorre in tempo di Pace ma in realtà è un susseguirsi di conflitti meschini da cui uscirà sempre sconfitto. 
Il conflitto Originario è quello con il Padre, figura ostile e fascista, fedele a due unici Valori: Coraggio e Orgoglio. Due qualità che sfortunatamente Ivo sembra non avere. Padre costruisce per lui un mondo non-alla sua altezza, di fatto castrandolo e rendendolo un inadeguato-a-vita. Ivo così chiuso nel suo invernale voler restar dentro è spinto a forza fuori. Un fuori barbarico e primitivo: il mondo dei ragazzini, in cui si riproducono le dinamiche sociali della prevaricazione e della violenza. Ivo è persino una pippa a giocare a calcio, qualità invalidante. Nonostante il dopoguerra, il boom economico e l’ottimismo degli anni Cinquanta, il microcosmo della Città di Dio nasconde una realtà vile e brutale.  La lotta sociale è spietata, l’unico modo per galleggiare è menare. Farsi riconoscere come uno che mena garantisce lo status di dominante
La giovinezza di Ivo squarcia subito qualsiasi illusione. Il grande Male della Pace è la lotta per emergere, per imporsi sugli altri. Un conflitto eterno. Il Tempo di pace è la lotta di tutti contro tutti, la violenza è del tutto privata, egoistica. Non c’è una guerra - e quindi una violenza imposta, obbligata - che ti costringa a definirti secondo valori civili condivisi come quelli di Patria o che ti spinga a fare i conti con la sopravvivenza, con la parte più intima di te stesso. L’alternativa vertiginosa tra vita o morte non esiste nel tempo di Pace. La Pace ti cuoce lentamente ti culla con antidepressivi, ansiolitici e ti confonde, ti istupidisce, ti isola. 
In questo caos in cui Ivo fatica ad imporre la sua individualità (se lo ripete sempre:Brandani tu non sei un combattente, non sei un competitore…) il protagonista cerca un ordine alternativo alla crudeltà del comandamento homo homini lupus. Tenta con la rigidità del Pensiero: si iscrive alla facoltà di Filosofia. è coinvolto nelle lotte del 68’ e gli basta poco per capire che qualsiasi gruppo -persino quelli che propugnano idee di uguaglianza e di fraternità - nascondono la stessa ossatura, naturale negli uomini,  gli stessi meccanismi di dominanza e sottomissione, lo stesso gregarismo. 
E d’altronde Ivo capisce di essere inadatto alla lotta politica, qualsiasi scenario di battaglia lo atterrisce. 
Sono un non-eroe, un non-coraggioso, un non-dominante, uno che non ci crede, che non crede a niente, che non ha mai creduto a niente…sono uno-che-molla, uno che per lui niente conta, se non restare in vita nelle migliori condizioni possibili    
Durante un viaggio in Inghilterra, si trova davanti al Firth of Fourt Bridge. Ha un’illuminazione. 
Se la Natura lo ha tradito, se è inadatto a qualsiasi contesto di selezione naturale - e quindi inevitabilmente di prevaricazione fascista e violenta - allora, la Scienza, la costruzione, possono essere usate contro la Natura. La filosofia non aveva portato ordine, non aveva dato un Senso ma soprattutto non aveva dato un risultato visibile. La Scienza, al contrario, opponendosi ai diktat naturali permette di unire ciò che è separato, può creare dei ponti.
A seguito dell’epifania, abbandona la facoltà di Filosofia (ma non gli Ideali di sinistra, per quello c’è tempo) e si iscrive ad Ingegneria. Finalmente, eliminata la variabile umana, Brandani ha un mestiere. 
Il mondo del lavoro si rivelerà ancora più mortificante di quello adolescenziale e universitario. Non ci si fa la guerra né con le bombe né con i cazzotti come nel quartiere, ma con mezzi assai più subdoli. Il suo capo De Klerk è un manager di successo, aderisce al mondo così com’è e non come dovrebbe essere, al contario di Ivo ancora ancorato alla chimera dell'idealità. Questo capitolo è un piccolo capolavoro di narrativa: Pecoraro fornisce attraverso il racconto di un viaggio in barca una perfetta allegoria della fortissima pressione che esercita il capitalismo su di noi. De Klerk è tutto ciò che Ivo odia: maschilista, predatore, tirannico, un dominante. Brandani coltiva infatti nei confronti della mentalità borghese e materialista - tutto ciò che De Klerk rappresenta - un retro pensiero infantile: non mi avrete mai. Eppure De Klerk è più forte di lui, il suo modello prima lo affascina, poi lo avvince e infine lo schiaccia. Ivo non può niente. 
Di fatto ti collocasti nella grande Catena dei Sì. (...)Ti consegnerai nelle mani del capitale, sarai un ingranaggio del profitto. 
La sua blanda riserva mentale - “non mi avrete mai” - è una vana resistenza. Tutto è dentro la logica di mercato, senza scampo. Sembra di leggere le pagine profetiche di Cosmopolis (di Don DeLillo): “non esiste niente fuori dal mercato”.
La Grande Classe Media Uniforme dell'Occidente Democratico, quella che ha divorato e inglobato in sé tutte le altre classi, compresa quella operaia, dedita alla ragione passiva. I nativi del capitalismo mediatico non conoscono la nozione di opposizione, di alternativa.

Ha ragione Cortellessa quando parla di Pecoraro come scrittore di guerra. La guerra dei “sessant’anni di pace, nei tanti inferni del fare umano”. è questa la grande forza del romanzo: la sua potenza demistificatrice, il pessimismo lucido, la coscienza della complicità e della colpa. Ma anche la rassegnazione al caos dell'esistenza, alla non forma delle cose. Come pretendiamo che ci sia ordine se viviamo, anzi, siamo ciò che resta di un'esplosione? 

Il delirio lucido di Brandani sgorga fuori con aggressività, una lingua corrosiva, senza tabù. Seguendo gli stilemi del modernismo, Pecoraro redige un romanzo verboso -  come gli anziani Brandani è puntiglioso, si ripete senza sensi di colpa - contaminato da nozioni scientifiche, architettoniche, storiche, biologiche.  Il suo è un epos rovesciato, senza eroismi né imprese. Può darsi che La vita in tempo di pace sia la perfetta anti-epica, l’uomo senza qualità del nostro Tempo. 
Indubbio è che questo romanzo per gli scrittori italiani rappresenti - già - una tappa obbligata. 


Niente tornerà più, nessuna promessa è stata mantenuta: Dio non c'era, il mondo non ti stava aspettando, nessuno ti cercava, di là dal mare ci sono solo altri ristoranti di fritto misto e il mestiere, che prometteva, alla fine si è negato. O forse tu eri negato per farlo bene, Ivo...”.

sabato 24 maggio 2014

W la trance! - L'armata dei sonnambuli o lo leggete o sbrisga.

Con "L’armata dei sonnambuli" i Wu Ming hanno portato a compimento la pluridecennale riflessione sulla rivoluzione e il potere che da sempre ha contraddistinto i loro romanzi storici.
Il discorso si era aperto con Q, ambientato nella tempesta delle guerre di religione e della riforma protestante del Cinquecento, ed è proseguito con altri romanzi, tra cui Manituana in cui è narrata la guerra tra i rivoluzionari delle colonie americane e i lealisti inglesi, dal punto di vista dei nativi (e di cui troviamo un’eco proprio nell’Armata). 
L’ultimo romanzo invece abbraccia quella che per noi europei è forse il più romantico e terribile dei rovesciamenti storici: quello francese. Quando pensiamo alla rivoluzione, immaginiamo la testa di Luigi che cade per mano della ghigliottina. O a Lady Oscar. 
Come decidono di raccontarci questo sconvolgente spartiacque storico i Wu Ming? 

Come se fosse un’opera teatrale.

“I parigini erano sempre interessati al teatro, ma il teatro era divenuto grande quanto Parigi (…) Gli spettacoli più emozionanti erano quelli dove la gente perdeva la testa per davvero, i cannoni tuonavano e poteva capitare, da un momento all’altro, che gli spettatori si trovassero a recitare”.

La narrazione è divisa in cinque rocamboleschi atti. L’espediente drammatico è efficace soprattutto a mettere in luce il binomio politica-spettacolo che avvelena la nostra contemporaneità: 

“Questi politici si alzano sui banchi per i loro discorsi come un attore calcherebbe le scene. Per loro il popolo è un pubblico, nient’altro”.

Tuttavia i veri protagonisti della rivoluzione non sono i vari Robespierre, Marat, Desmoulins, Danton - i cui volti ci adocchiano dalle pagine dei libri del liceo - bensì personaggi che stanno all’ombra della storia.
Sul palcoscenico de “L’armata dei sonnambuli”  il popolo non è affatto uno spettatore. Leo Modonnet, attore bolognese dalla scarsa fortuna in Francia, decide di indossare la maschera di Scaramouche, diventando così un Batman ante litteram. L’Ammazzaincredibili - che parla per allitterazioni e assonanze come V da V per Vendetta - il vendicatore del popolo, metterà in scena delle maldestre aggressioni (il superomismo di stampo machista va sempre un tantino sbeffeggiato) a danno dei muschiattini, controrivoluzionari monarchici e reazionari, la cosiddetta gioventù termidoriana. 
Ma forse il cuore del romanzo, al di là degli aspetti scenografici, è un’altra popolana: Marie Nozier, orgogliosa sarta dal foborgo giacobino di S. Antonio, ferrea paladina della rivoluzione che si arruolerà persino con le amazzoni di Claire Lacomb. Marie non ha maschere a proteggerla, è una disgraziata eroina (e “una pessima madre”) a viso scoperto. Lotta rischiando di perdere tutto. Una combattente amareggiata, dai modi bruschi, dal carattere difficile. Ma pur sempre una formidabile guerriera.  
Centrale nel romanzo dei Wu ming è la ferocia e la potenza dei moti dal basso. In barba a chi ha rivalutato come rivoluzione borghese l’evento straordinario che fu quella marea che si sollevò nel 1789, i Wu ming rivendicano la forza della spinta popolare, le azioni di personaggi umili. Anche proprio laddove le aspettative del popolo sono state disilluse e frustrate. La rivoluzione francese in parte fu un fallimento. Ma se i Wu Ming non si astengono dal tratteggiare una rivoluzione fallita ( senza tralasciarne tutte le lacerazioni e i compromessi e le trappole in essa insiti), non rinunciano ad un concetto di lotta vivo, più vivo che mai. E L’armata dei sonnambuli è un romanzo che parla soprattutto di Resistenza contro il potere.

“Perché a rifletterci bene, Leo doveva ammettere che la sua era una partita privata. Non era la rivoluzione ad averlo deluso, come era capitato a tanti, ma la vita stessa (…) Chissà se esisteva un destino fissato negli astri. Chissà quale finale l’Essere Supremo aveva in serbo per lui. La coscienza gli diceva che non sarebbe stato nulla di buono, ma la testacea ribatteva che il colpo andava restituito e doveva essere all’altezza di quello subito. A buon gatto, buon ratto. Alla battuta dell’antagonista, il protagonista doveva rispondere riprendendosi la scena”. 

I Wu Ming, come sempre, sono abilissimi nell’estrarre dalla lezione del passato, nuove sfide per il presente. 
Ho immediatamente associato Marie ad un’altra donna combattente, protagonista del romanzo di un altro collettivo di scrittori, “In territorio nemico”: Adele, prima operaia e poi gappista negli anni della Resistenza. 
Due figure di donne che lottano, entrambe presenti in due romanzi contemporanei (recentissimi, tra l’altro) che reinterpretano il passato in chiave attuale. Un segnale importante che vede emergere una serpeggiante tensione rivoluzionaria in Italia. 
Il soggetto de “L’armata dei sonnambuli” è la rivoluzione francese ma potrebbe essere anche la Russia, l’Italia degli anni 70’, la lotta no tav. Qualsiasi scenario di sopraffazione che renda necessaria una risposta altrettanto forte, altrettanto decisa.  
Significativo il fatto che il popolo intervenga in prima persona, il soggetto collettivo s’inserisce nella narrazione come un coro greco, alternandosi alle gesta dei protagonisti. 

Ma non c’è solo il popolo vessato, anche la borghesia gode di rappresentanza. Una borghesia illuminata, dal volto ideale, che collabora con la collettività per una causa nobile e giusta. Il medico D’Amblanc, con il corpo (ma soprattutto la mente) tormentati da ferite di guerra, è un magnetista che si mette al servizio della Rivoluzione. Il suo compito è quello di stanare una potenziale fazione di magnetisti controrivoluzionari. I Wu Ming usano, per mettere in scena l’altra faccia della rivoluzione (quella reazionaria e monarchica) il mesmerismo, che ha agito dietro le quinte della rivoluzione. Una scelta coraggiosa che avvicina il romanzo al filone fantasy. 

Il magnetismo animale è infatti soggetto ad una duplice interpretazione: o come un vero e proprio incantesimo o in chiave razionale come una sorta di ipnotismo (e appunto i sonnambuli del titolo sono sprofondati in un sonno indotto). Il conflitto messo in scena è quello tra un mesmerismo democratico e razionale, che segue i principi dell’illuminismo e dell’etica (quello di D’Amblanc) e dall’altro lato un mesmerismo totalitario, usato per raggiungere scopi personali e che non tenga minimamente in considerazione la volontà dei sonnambulizzati, trattati alla stregua delle bestie (quello del misterioso villain del romanzo, dall’identità fittizia). 
Il magnetismo diventa quindi un’ottima metafora politica, una riflessione sempre attuale sugli abusi del potere e sulla libertà. Non è forse un caso che le vittime del magnetismo scellerato siano rappresentati nel romanzo per lo più da bambini, per sempre danneggiati e irrimediabilmente corrotti da una volontà fascista e brutale.  

L’indagine di D’Amblanc non avviene nella tempestosa Parigi - come invece le parallele azioni di Leo e Marie - ma nella provincia francese, attraverso paesaggi ostili e terrificanti. Queste sono forse le ambientazioni più cariche di fascinazione, che risentono di un’evidente influenza horror (che l'armata del titolo non sia forse "l'armata delle tenebre?) che insieme al filone magico (e abbiamo visto prima l’universo fumettistico dei supereroi) rendono il romanzo un’opera contaminata e stratificata, ricca di riferimenti alti e bassi, dalla cultura pop alla letteratura, alla documentazione storica. Tutto può entrare nella narrazione. E lo fa in maniera credibile. Il genere diventa uno spazio aperto, senza limiti. 
La lettura diventa così un processo attivo, un atto di partecipazione. Leggendo un romanzo dei Wu Ming siamo continuamente investiti da una sensazione di deja vu perché gli scrittori ci colpiscono con simboli (da loro rielaborati) del nostro immaginario, che ci invitano a riconoscere. Non è solo un gioco letterario, un carosello di citazioni. è un modo di concepire l’opera letteraria come “aperta”, dinamica, viva. 
Il tema della libertà e della democrazia dall’intreccio si estende e ingloba lo stesso concetto di romanzo. 
Si prenda ad esempio l’atto quinto. Il “come va a finire” potrebbe trarci in inganno. All’apparenza potrebbe sembrare un epilogo. Oppure un elenco di fonti. Si attiva un processo di straniamento nel lettore. Come è possibile che un “atto” dello spettacolo sia dedicato ad un barboso elenco di documenti? Eppure non è affatto così. L’atto quinto rappresenta un “oggetto narrativo non identificato”. Un’ibridazione (l’ennesima) della narrazione, al di fuori di essa ma allo stesso tempo parte di essa. I personaggi sono sottoposti ad esame. Quali tra le informazioni che ci danno gli scrittori sono vere e quali false? L’atto quinto preannuncia un atto sesto. Un atto che dovrà essere scritto dal lettore. L’armata dei sonnambuli non finisce, le sorti dei personaggi sono lasciate nelle mani di chi le vorrà reinterpretare. La Storia e le storie non muoiono mai, fin quando ci sarà qualcuno pronto a farle rivivere. 



Il "vasto palcoscenico rivoluzionario della Francia" che hanno allestito i Wu Ming è formidabile. Francamente irresistibile il vortice di personaggi e situazioni che ti trascinano per pagine e pagine, senza requia. Si passa dal tragico al farsesco, dal turpiloquio popolare alle inclinazioni filosofiche degli scenziati magnetisti, dai comunicati ufficiali della Convenzione alle epistole familiari. Sanculotti, brissottini, girondini, controrivoluzionari, patriote repubblicane divise in brigate, amazzoni e pesciare che se le danno di santa ragione.
“L’armata dei sonnambuli” riesce ad essere popolare, leggero e accattivante e nello stesso tempo crepato, bombardato da interrogativi sulla storia e sulla vita. Esattamente come i suoi eroi. Sgangherati, disfatti, amareggiati. Eppure combattivi. A buon gatto, buon ratto o sbrisga.    


“La rivoluzione, diceva, è come quei mazzi di carte da gioco dove re, dame e cavalieri son divisi a metà, una diritta e l’altra rovesciata, testa insù e testa dabbasso, giri e rigiri la carta ma cambia un cazzo, il re che sta diritto è sempre insieme a quello capovolto, che è come se gli tirasse il ghignone, come se da sotto gli dicesse: “Io sono te che vai a finire male”! Goditela finché puoi, perché il mondo si arbalta” 



martedì 14 gennaio 2014

L'omonimo di Jhumpa Lahiri: prima delusione dell'anno

Quest’anno ho deciso di non fossilizzarmi sulla letteratura americana, tendenza di cui penso vi siate accorti tutti. Così ho deciso di ampliare i miei orizzonti, leggendo un romanzo di una scrittrice di origini bengalesi, nata a Londra ma cresciuta negli Stati Uniti: Jumpha Lahiri. Vincitrice del premio Pulitzer nel 2000 per la sua raccolta di racconti “L’interprete dei malanni”, è una delle autrici americane più apprezzate. Come dite? Ah, dovevo allontanarmi dallo scenario statunitense? Un passo alla volta, ragazzi. Un passo alla volta. 



Recentemente soprattutto in Italia si è parlato molto di Jhumpa. La scrittrice infatti si è trasferita a Roma nel 2012 (parla molto bene italiano, tra l’altro) ed è da poco uscito, edito da Guanda, il nuovo romanzo “La moglie”, che pare essere il suo miglior lavoro

Tuttavia, spinta dai riscontri più che positivi e sicurissima di dover recuperare tutta la produzione della scrittrice, ho deciso di iniziare dal suo primo romanzo: The namesake, che ho letto in lingua originale. In Italia “L’omonimo” è edito da Marcos y Marcos (se bazzicate i mercatini dell’usato e siete molto fortunati dovreste riuscire a trovare anche un’edizione Guanda, ormai fuori commercio). 




Credo che qualcuno più furbo di me, avrebbe iniziato dall’opera con cui ha vinto il Pulitzer. E avrebbe fatto bene. Se una scrittrice è acclamata per le sue short stories, perché leggere il suo primo romanzo? Già perché? L’omonimo per me è stata una lettura davvero deludente. 

Il romanzo è incentrato sulla lotta di una coppia bengalese che emigra negli Stati uniti e forma una famiglia in un ambiente per loro sconosciuto e in cui si sentono spesso fuori posto. Ashima e Ashoke, uniti da un matrimonio combinato, danno alla luce un figlio che per una serie di circostanze ed inconvenienti, viene chiamato Gogol, come lo scrittore ucraino. Per il padre infatti il nome di Gogol assume una valenza emotiva speciale, di cui però Gogol resta all’oscuro. Crescendo egli comincerà a sentire il peso di questo nome così bizzarro che non percepisce come proprio e che rappresenta anche il simbolo di un passato (quello di suo padre e quello dello scrittore) che egli non comprende e non accetta. Il conflitto attorno al nome diventa una ricerca della propria identità, del proprio scopo, della propria appartenenza. Come il romanzo della Selasi, L’omonimo - scritto nel 2003 - è un romanzo potenzialmente cosmopolita e ricco di tutti quei temi sull’incontro-scontro tra le varie culture nella società globalizzata e soprattutto negli Stati Uniti, melting pot di tradizioni. 
L’idea del romanzo (e badate bene, l’idea) ruota non solo attorno al conflitto tra il nome e l’identità, ma è anche il conflitto tra due culture, quella americana in cui Gogol si sente perfettamente a suo agio e quella indiana a cui sente di non appartenere ma che non può rinnegare, soprattutto per il senso del dovere che ha per i suoi genitori. 



La trama e il substrato del romanzo sono assolutamente promettenti e ambiziosi. Il problema però è che tutti questi temi sono sbiaditi. L’impressione viva che si ha durante la lettura è quella dell’attesa. Attesa di una svolta. Si ha la perenne sensazione di star leggendo un’introduzione mastodontica ad un bellissimo romanzo che non arriverà mai. Da cosa è causato questo turbamento? Indubbiamente dalla struttura del romanzo. La narrazione è tutta (e quando intendo tutta, intendo per intero) sviluppata attraverso il discorso indiretto. Un’intera vita (quella di Gogol), dalla nascita all’età adulta, raccontata attraverso quelli che - ahimè - mi tocca definire riassunti. 
I dialoghi sono un miraggio lontano, le interazioni tra i personaggi sono rare e poco esaltanti. In compenso abbiamo un ingorgo di informazioni. La Lahiri mi ha dato la sensazione di essere una scrittrice molto “materiale”. Sono descritti con grande dovizia di particolari gli oggetti che arredano gli ambienti, i vestiti che indossano i personaggi, i colori e gli odori. Per quanto riguarda la natura umana, invece, niente di pervenuto. A parte un sottilissimo involucro superficiale. 
Posso comprendere una scelta stilistica di questo tipo. La Lahiri vuole sottolineare la difficoltà del protagonista (Gogol) a trovare una sua identità, la sua distanza dai genitori, i suoi sforzi per cercare di connettersi ad una realtà che gli sembra aliena. Ma tutto questo non è mai sublimato da immagini forti, potenti. A livello stilistico non comprendo la necessità di mettere ogni singolo dettaglio della sua vita sotto forma di riassunto. Per esempio: ci sono diverse relazioni che il protagonista intreccia con delle donne ed esse appaiono talmente superficiali - per come sono narrate, non per la natura del rapporto - che ci si chiede dove si stia andando a parare. Mi sembra che i temi siano stati indeboliti da questo continuo spostare l'attenzione su dettagli e descrizioni molto fredde e prosaiche. L’interiorità del protagonista non è sublimata dalla narrazione che invece è per una buona parte piatta e cronachista. Si è persa così gran parte dell’emotività del romanzo che infatti risulta asettico e pedante.
Il romanzo per me è debole e poco incisivo. è scritto bene ma non benissimo, la storia è interessante ma non eccezionale. Non è brillante, gli manca slancio creativo. Nonostante ci siano degli sparuti scorci di sapienza narrativa - come la ricorrente immagine-simbolo del treno e i riferimenti a “Il cappotto” di Gogol - essi sono insufficienti a risvegliare l’emotività del lettore.


La parte più gradevole risulta quella iniziale, la storia di Ashima infatti è quella che possiede più cuore e vitalità. Non è un caso che la Lahiri abbia ripreso questo nucleo tematico - che è quello che effettivamente le risulta più congeniale - nel suo ultimo romanzo che, nonostante tutto, voglio leggere: “La moglie”.