Visualizzazione post con etichetta letteratura italiana. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta letteratura italiana. Mostra tutti i post

sabato 25 aprile 2015

Stalin + Bianca, Iacopo Barison. Il balletto meccanico dell'apocalisse.

Tra i candidati del Premio Strega 2015 (poi escluso dalla cinquina)
Edito da Tunué, collana Romanzi, pag. 175, 9,90 


Un ragazzino con una videocamera in uno stadio vuoto. Accanto a lui, Bianca - una ragazza cieca e bellissima - di cui è innamorato. Stalin, lo chiamano. Per via dei suoi folti baffi. Soffre d’improvvisi attacchi d’ira che riesce a tenere a bada ingurgitando pillole da un blister che porta (quasi) sempre con sé. Sta per compiere diciotto anni (anche se non vorrebbe). Sta per commettere un’azione a cui non potrà più porre rimedio (anche se non vorrebbe). Sono entrambi giovani e soli. Questa è la storia della loro fuga, attraverso un mondo contaminato e freddo che sembra non avere più molto da offrirgli. 

“Il mondo è arrivato ad un punto morto”

La provincia da cui fuggono è gelida e quasi disabitata, una “palette di grigi” da cui tutti tentano di allontanarsi. Verso dove? “Dove non c’è la neve”. La realtà immaginata da Barison è infatti cupa, dagli accenti apocalittici. Il mondo è irrimediabilmente contaminato, guasto, al capolinea. Eppure la morte descritta di Barison non è fatta di violenza, brutalità, panico. è una disperazione sorda, avvolgente, pigra. La foschia circonda tutto, il lento deteriorarsi del pianeta è uno spettacolo malinconico.
 La società occidentale ha perso colore e autenticità ma non i suoi comfort. D’altra parte, “il mondo è sull’orlo del baratro ma non è ancora caduto”. La Capitale è lasciva, squallida, irreale. I paesaggi metropolitani sono marchiati da una nuova fase del capitalismo, non più sgargiante e promettente ma conformista e grigio. Il marketing si è ridotto all’osso, persino nel consumo ormai c’è ben poca scelta. Non è più uno svago ma il riflesso condizionato dei tempi andati. 
La Capitale (che non ha nome né coordinate geografiche precise) è un territorio esploso:  “L’orizzontalizzazione delle razze, la mescolanza di peculiarità etniche” hanno creato bizzarri risultati: fast food di cucina fusion, veg burger, e altri amalgami di culture disperse. Ogni quartiere assomiglia a quartieri lontani, situati addirittura in altri emisferi”
Non manca elettricità, né cibo, né acqua in questa triste apocalisse.  Ma le verdure sono liofilizzate, il mondo è sterile e spento. Stalin si chiede come mai non ci siano più arcobaleni, ogni traccia di bellezza sia stata risucchiata, così come ogni speranza per il futuro. 



“Respireremo la crisi di un’epoca che ha fatto il suo tempo”.
Tutto questo ci viene restituito attraverso frammenti, istantanee, esattamente come il corto che sta girando Stalin. Il protagonista infatti è percorso da due tensioni: una distruttrice (i suoi attacchi d’ira) e una creativa che lo porta ad esprimersi attraverso il racconto visivo del loro viaggio.  A fare da contrappunto alla “lunga parete nera” che è la vista di Bianca,  c’è l’obbiettivo della videocamera di Stalin. La narrazione è quindi estremamente visiva, ci restituisce un mosaico dei nostri tempi fatta di spezzoni incoerenti e spietati. Il romanzo procede come una puntata di Blob: sulle note di What a wonderful world, si susseguono accostamenti paradossali, immagini di giocolieri in una discoteca, scheletri che elemosinano droghe, individui che indossano maschere antigas come accessorio fashion.  Tutto danza attorno a noi come un balletto meccanico. C’è qualcosa di inspiegabilmente melanconico in questo romanzo: un movimento che simula l’organico ma non possiede lo stesso slancio, un movimento senza scopo, automatico. Come il viaggio dei due protagonisti, diretti verso il vuoto. 
La domanda che si pone Barison: cosa succede se anche i posti in cui fuggire sono finiti? 

Il romanzo s'indebolisce nella seconda parte, caratterizzata da una serie di banalizzazioni sul maledettismo giovanile. Anche lo stile risente di un’esasperata drammatizzazione, un’eccessiva sentenziosità. Per descrivere atmosfere così particolari funzionano meglio certe immagini come l’insegna al neon sgangherata della pensione che ospita i due giovani o la fontana di ghiaccio che diventa una grottesca attrazione turistica. Show, don’t tell. 
Quello che dovrebbe essere un viaggio di crescita in realtà è un’involuzione esacerbante del protagonista che, improvvisamente libero dal disturbo di cui soffre, si crogiola nel proprio ego, perde in umanità per diventare invece il grande eroe di una tragedia (senza pathos). 
I dialoghi si fanno artificiosi -  laddove nella prima parte erano essenziali e taglienti - dei giri a vuoto. Stalin e Bianca si ritrovano a vivere tra artisti di strada, pochi soldi, molti ideali e droga. L’intenzione dell’autore è quella di dipingere uno scenario d’apatia ma il talento artistico dei protagonisti più che sprecato sembra inconsistente. 
Infine Bianca. Dovrebbe essere la co-protagonista ma è un fantasma, riflesso di Stalin: irreale, piatta. L’ennesima figura femminile oggetto di sguardo e pressoché inerme. Bellissima e ininfluente. Nella narrazione, chiusa completamente nella soggettività (spesso ottusa) di Stalin, gli altri personaggi risultano opachi, inutili.  
Se si dovesse trovare una causa da imputare ai difetti di Stalin+Bianca, certamente, sarebbe la megalomania del protagonista principale. Un difetto che è possibile perdonare al romanzo di uno scrittore molto giovane (è quasi impossibile non trovare un eccesso di slancio retorico nelle prime opere, specialmente in quelle di autori ambiziosi). 
  
Una serie di campi lunghi, una storia crudele, dalla bellezza cupa che, sebbene traballi dal punto di vista narrativo (come racconto breve sarebbe stato perfetto), ci restituisce un’originale visione del mondo, suggestiva e intensa. 


Note a margine: se l’istinto non m’inganna, Barison è un lettore di DeLillo, che ritroviamo soprattutto nell’idea di Metropoli incoerente e labirintica. Mi sembra poi che gli artisti che vivono in un palazzone abbandonato siano un chiaro accenno ad Underworld

domenica 22 giugno 2014

Considerazioni (lunghe e noiose) su La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro


Il futuro si è deteriorato, sembra che non ci attenda niente di buono, su questo sono tutti d'accordo, quando ero piccolo non era così: il futuro aveva qualche problema ma complessivamente era radioso, lucente, interplanetario, interstellare, intergalattico, trans-spazio-temporale.

Per Ivo Brandani, un soggetto residuale fuori dal ciclo riproduttivo (un vecchio ingegnere di sessantanove anni), le uniche dimensioni temporali possibili sono il passato e il presente. 
L’intero romanzo è giocato sull’alternanza tra questi due tempi narrativi. L’arco di una giornata - il ventinove Maggio 2015 - è lo spazio riservato alla disamina di una nauseante contemporaneità. I capitoli sono scanditi dall’orologio: dalle 9:07 A.M a 7.47 P.M. Un’interminabile giornata trascorsa con la debordante contrarietà del protagonista. Ivo attende all’aeroporto di Sharm-el-Sheik il volo di ritorno a casa. Si trova in Egitto per ricostruire con materiali sintetici la barriera corallina. In questo speciale limbo, l’unica dinamicità è offerta dalle sue associazioni mentali - echi di Proust e di Celine - che generano un torrenziale monologo, un feroce attacco al presente.

Il presente che descrive Pecoraro è in realtà un futuro prossimo, appena ad un anno di distanza dal nostro. Un anno che nel secolo accelerato in cui viviamo può anche significarne dieci. I riferimenti a questa realtà sono assoluti: le città sono indicate come Citta di Dio (Roma) o Città di Mare. Con le maiuscole anche i luoghi del potere, freddi, distanti: il Governatorato, l'Amministrazione, i Distretti. I luoghi decisionali sono lontani dall'individuo, vuoti. Tale descrizione di una burocrazia spersonalizzante ricorda Saramago (il Centro nel romanzo La Caverna, in particolare). E non è in ogni caso per niente lontana dal senso di smarrimento, solitudine e inerzia che appartiene al nostro tempo.  

Il fiume straboccante di parole contro la contemporaneità non è solo il risultato dell’IMS (Irritable male syndrome anche conosciuto come il ronzante rosicamento dei vecchiardi, a cui tutti noi siamo abituati). Ma è una disamina acutissima della realtà coeva. Il quadro è fosco. 
Un presente fasullo, vuoto e privo di bellezza. Il pianeta è ormai per metà in decomposizione e per metà plastificato, popolato da non-morti continuamente rigenerati dalle sostanze chimiche, risollevati dalla chirurgia, sempre più lucidi, artificiali. La vita ancora più lunga, quasi eterna, dove tutto è una copia di una copia di una copia. Persino il cibo è assemblato artificialmente. Un fake planet, devitalizzato ma in cui è quasi impossibile morire. Anzi, si direbbe che morire sia faccenda d’altri tempi.  
Stiamo lentamente transitando dal naturale al post-naturale, una surrealtà dove tutto è immagine di un originale scomparso. 
E Ivo - con il Rifacimento dei fondali marini in sintetico - contribuisce alla ricostruzione di un mondo fantoccio, alterato, imitazione di una realtà ormai perduta. Il tema della distruzione e della ri-costruzione si intrecciano: Ivo fabbrica un mondo nuovo mentre porta alla rovina quello vecchio, assume il doppio ruolo di homo faber e homo destruens. 
La sua carriera di ingegnere strutturista infatti non l'ha portato a progettare proprio un bel niente. Che contribuisca al disastro, allora. 

Io sto al gioco, mi piace l'Apocalisse, mi ci trovo bene, ci godo...

I toni apocalittici con cui viene descritta la contemporaneità sanciscono il collasso del mondo in cui è cresciuto. L’ingegnere si trova in una realtà dal volto irriconoscibile, da cui si sente già scollato, lui e la sua mentalità novecentesca. Vorrebbe passare gli ultimi stralci di tempo a sua disposizione assistendo ad un grandioso disastro - qualcosa di veramente emozionante, finalmente - è ossessionato dal senso della catastrofe. Non si inverte la freccia del tempo , gli direi a questi qui dietro il banco. Tutto deve andare a male, marcire, degradarsi, rovinarsi, fottersi definitivamente. Ma non ci sarà nessuna esplosione, solo un lento deteriorarsi che cambierà il volto del mondo. E Ivo si si sente già prossimo alla fine. Come i soldati che muoiono l’ultimo giorno di guerra, come a quei bambini che presero la poliomielite quando il vaccino era già in distribuzione. Sulla soglia di una nuova era. 

A queste amare invettive, si alternano capitoli dedicati alle reminiscenze del suo passato. Sgorgano dalla mente di Ivo ricordi a ritroso, da quelli più recenti all’infanzia, fino ad un finale fuori dal tempo. Dunque mentre la giornata del ventinove Maggio procede in senso orario - dalla mattina alla sera - il passato di Ivo si ripropone in senso antiorario, dalla vecchiaia alla sua nascita. La narrazione procede perfettamente  su questi due binari temporali, alternando questi due ritmi. La struttura del romanzo fa sì che la fine di Ivo - sappiamo dal primo capitolo cosa lo ucciderà - coincida con l’inizio della sua vita. Un motivo circolare che si ripresenta costantemente: il viaggio di ritorno dall’Egitto, il ritorno con la mente alla casa d’infanzia, al nucleo familiare d’origine e soprattutto al padre, paradigma tirannico e irrefutabile. 
Se inoltre il 2015 aveva caratteristiche vaghe, un contesto futuristico, il passato di Ivo al contrario ripercorre la Storia d'Italia. Un contesto a noi familiare, che viene però riletto con una nuova chiave da Pecoraro.
Queste immersioni nel passato - alcune rappresentano dei perfetti racconti autoconclusivi - danno una giustificazione al cinismo dell’attuale Brandani. Il suo vissuto è segnato dall’inadeguatezza e dai fallimenti. La vita lo ha attraversato, e lui l’ha subita. 

EFFETTO CORIOLIS: ogni traiettoria subisce una curvatura, talvolta fino ad avvitarsi su se stessa...Non sei mai dove avresti voluto essere, non arrivi mai nel punto dove hai messo la prua, ma sempre da qualche altra parte e ti dice bene se riesci a finire nei pressi del tuo obiettivo...Io, ammesso che avessi un obiettivo, non solo l'ho mancato in pieno, ma da qui nemmeno lo vedo più

La vita di Ivo scorre in tempo di Pace ma in realtà è un susseguirsi di conflitti meschini da cui uscirà sempre sconfitto. 
Il conflitto Originario è quello con il Padre, figura ostile e fascista, fedele a due unici Valori: Coraggio e Orgoglio. Due qualità che sfortunatamente Ivo sembra non avere. Padre costruisce per lui un mondo non-alla sua altezza, di fatto castrandolo e rendendolo un inadeguato-a-vita. Ivo così chiuso nel suo invernale voler restar dentro è spinto a forza fuori. Un fuori barbarico e primitivo: il mondo dei ragazzini, in cui si riproducono le dinamiche sociali della prevaricazione e della violenza. Ivo è persino una pippa a giocare a calcio, qualità invalidante. Nonostante il dopoguerra, il boom economico e l’ottimismo degli anni Cinquanta, il microcosmo della Città di Dio nasconde una realtà vile e brutale.  La lotta sociale è spietata, l’unico modo per galleggiare è menare. Farsi riconoscere come uno che mena garantisce lo status di dominante
La giovinezza di Ivo squarcia subito qualsiasi illusione. Il grande Male della Pace è la lotta per emergere, per imporsi sugli altri. Un conflitto eterno. Il Tempo di pace è la lotta di tutti contro tutti, la violenza è del tutto privata, egoistica. Non c’è una guerra - e quindi una violenza imposta, obbligata - che ti costringa a definirti secondo valori civili condivisi come quelli di Patria o che ti spinga a fare i conti con la sopravvivenza, con la parte più intima di te stesso. L’alternativa vertiginosa tra vita o morte non esiste nel tempo di Pace. La Pace ti cuoce lentamente ti culla con antidepressivi, ansiolitici e ti confonde, ti istupidisce, ti isola. 
In questo caos in cui Ivo fatica ad imporre la sua individualità (se lo ripete sempre:Brandani tu non sei un combattente, non sei un competitore…) il protagonista cerca un ordine alternativo alla crudeltà del comandamento homo homini lupus. Tenta con la rigidità del Pensiero: si iscrive alla facoltà di Filosofia. è coinvolto nelle lotte del 68’ e gli basta poco per capire che qualsiasi gruppo -persino quelli che propugnano idee di uguaglianza e di fraternità - nascondono la stessa ossatura, naturale negli uomini,  gli stessi meccanismi di dominanza e sottomissione, lo stesso gregarismo. 
E d’altronde Ivo capisce di essere inadatto alla lotta politica, qualsiasi scenario di battaglia lo atterrisce. 
Sono un non-eroe, un non-coraggioso, un non-dominante, uno che non ci crede, che non crede a niente, che non ha mai creduto a niente…sono uno-che-molla, uno che per lui niente conta, se non restare in vita nelle migliori condizioni possibili    
Durante un viaggio in Inghilterra, si trova davanti al Firth of Fourt Bridge. Ha un’illuminazione. 
Se la Natura lo ha tradito, se è inadatto a qualsiasi contesto di selezione naturale - e quindi inevitabilmente di prevaricazione fascista e violenta - allora, la Scienza, la costruzione, possono essere usate contro la Natura. La filosofia non aveva portato ordine, non aveva dato un Senso ma soprattutto non aveva dato un risultato visibile. La Scienza, al contrario, opponendosi ai diktat naturali permette di unire ciò che è separato, può creare dei ponti.
A seguito dell’epifania, abbandona la facoltà di Filosofia (ma non gli Ideali di sinistra, per quello c’è tempo) e si iscrive ad Ingegneria. Finalmente, eliminata la variabile umana, Brandani ha un mestiere. 
Il mondo del lavoro si rivelerà ancora più mortificante di quello adolescenziale e universitario. Non ci si fa la guerra né con le bombe né con i cazzotti come nel quartiere, ma con mezzi assai più subdoli. Il suo capo De Klerk è un manager di successo, aderisce al mondo così com’è e non come dovrebbe essere, al contario di Ivo ancora ancorato alla chimera dell'idealità. Questo capitolo è un piccolo capolavoro di narrativa: Pecoraro fornisce attraverso il racconto di un viaggio in barca una perfetta allegoria della fortissima pressione che esercita il capitalismo su di noi. De Klerk è tutto ciò che Ivo odia: maschilista, predatore, tirannico, un dominante. Brandani coltiva infatti nei confronti della mentalità borghese e materialista - tutto ciò che De Klerk rappresenta - un retro pensiero infantile: non mi avrete mai. Eppure De Klerk è più forte di lui, il suo modello prima lo affascina, poi lo avvince e infine lo schiaccia. Ivo non può niente. 
Di fatto ti collocasti nella grande Catena dei Sì. (...)Ti consegnerai nelle mani del capitale, sarai un ingranaggio del profitto. 
La sua blanda riserva mentale - “non mi avrete mai” - è una vana resistenza. Tutto è dentro la logica di mercato, senza scampo. Sembra di leggere le pagine profetiche di Cosmopolis (di Don DeLillo): “non esiste niente fuori dal mercato”.
La Grande Classe Media Uniforme dell'Occidente Democratico, quella che ha divorato e inglobato in sé tutte le altre classi, compresa quella operaia, dedita alla ragione passiva. I nativi del capitalismo mediatico non conoscono la nozione di opposizione, di alternativa.

Ha ragione Cortellessa quando parla di Pecoraro come scrittore di guerra. La guerra dei “sessant’anni di pace, nei tanti inferni del fare umano”. è questa la grande forza del romanzo: la sua potenza demistificatrice, il pessimismo lucido, la coscienza della complicità e della colpa. Ma anche la rassegnazione al caos dell'esistenza, alla non forma delle cose. Come pretendiamo che ci sia ordine se viviamo, anzi, siamo ciò che resta di un'esplosione? 

Il delirio lucido di Brandani sgorga fuori con aggressività, una lingua corrosiva, senza tabù. Seguendo gli stilemi del modernismo, Pecoraro redige un romanzo verboso -  come gli anziani Brandani è puntiglioso, si ripete senza sensi di colpa - contaminato da nozioni scientifiche, architettoniche, storiche, biologiche.  Il suo è un epos rovesciato, senza eroismi né imprese. Può darsi che La vita in tempo di pace sia la perfetta anti-epica, l’uomo senza qualità del nostro Tempo. 
Indubbio è che questo romanzo per gli scrittori italiani rappresenti - già - una tappa obbligata. 


Niente tornerà più, nessuna promessa è stata mantenuta: Dio non c'era, il mondo non ti stava aspettando, nessuno ti cercava, di là dal mare ci sono solo altri ristoranti di fritto misto e il mestiere, che prometteva, alla fine si è negato. O forse tu eri negato per farlo bene, Ivo...”.

sabato 24 maggio 2014

W la trance! - L'armata dei sonnambuli o lo leggete o sbrisga.

Con "L’armata dei sonnambuli" i Wu Ming hanno portato a compimento la pluridecennale riflessione sulla rivoluzione e il potere che da sempre ha contraddistinto i loro romanzi storici.
Il discorso si era aperto con Q, ambientato nella tempesta delle guerre di religione e della riforma protestante del Cinquecento, ed è proseguito con altri romanzi, tra cui Manituana in cui è narrata la guerra tra i rivoluzionari delle colonie americane e i lealisti inglesi, dal punto di vista dei nativi (e di cui troviamo un’eco proprio nell’Armata). 
L’ultimo romanzo invece abbraccia quella che per noi europei è forse il più romantico e terribile dei rovesciamenti storici: quello francese. Quando pensiamo alla rivoluzione, immaginiamo la testa di Luigi che cade per mano della ghigliottina. O a Lady Oscar. 
Come decidono di raccontarci questo sconvolgente spartiacque storico i Wu Ming? 

Come se fosse un’opera teatrale.

“I parigini erano sempre interessati al teatro, ma il teatro era divenuto grande quanto Parigi (…) Gli spettacoli più emozionanti erano quelli dove la gente perdeva la testa per davvero, i cannoni tuonavano e poteva capitare, da un momento all’altro, che gli spettatori si trovassero a recitare”.

La narrazione è divisa in cinque rocamboleschi atti. L’espediente drammatico è efficace soprattutto a mettere in luce il binomio politica-spettacolo che avvelena la nostra contemporaneità: 

“Questi politici si alzano sui banchi per i loro discorsi come un attore calcherebbe le scene. Per loro il popolo è un pubblico, nient’altro”.

Tuttavia i veri protagonisti della rivoluzione non sono i vari Robespierre, Marat, Desmoulins, Danton - i cui volti ci adocchiano dalle pagine dei libri del liceo - bensì personaggi che stanno all’ombra della storia.
Sul palcoscenico de “L’armata dei sonnambuli”  il popolo non è affatto uno spettatore. Leo Modonnet, attore bolognese dalla scarsa fortuna in Francia, decide di indossare la maschera di Scaramouche, diventando così un Batman ante litteram. L’Ammazzaincredibili - che parla per allitterazioni e assonanze come V da V per Vendetta - il vendicatore del popolo, metterà in scena delle maldestre aggressioni (il superomismo di stampo machista va sempre un tantino sbeffeggiato) a danno dei muschiattini, controrivoluzionari monarchici e reazionari, la cosiddetta gioventù termidoriana. 
Ma forse il cuore del romanzo, al di là degli aspetti scenografici, è un’altra popolana: Marie Nozier, orgogliosa sarta dal foborgo giacobino di S. Antonio, ferrea paladina della rivoluzione che si arruolerà persino con le amazzoni di Claire Lacomb. Marie non ha maschere a proteggerla, è una disgraziata eroina (e “una pessima madre”) a viso scoperto. Lotta rischiando di perdere tutto. Una combattente amareggiata, dai modi bruschi, dal carattere difficile. Ma pur sempre una formidabile guerriera.  
Centrale nel romanzo dei Wu ming è la ferocia e la potenza dei moti dal basso. In barba a chi ha rivalutato come rivoluzione borghese l’evento straordinario che fu quella marea che si sollevò nel 1789, i Wu ming rivendicano la forza della spinta popolare, le azioni di personaggi umili. Anche proprio laddove le aspettative del popolo sono state disilluse e frustrate. La rivoluzione francese in parte fu un fallimento. Ma se i Wu Ming non si astengono dal tratteggiare una rivoluzione fallita ( senza tralasciarne tutte le lacerazioni e i compromessi e le trappole in essa insiti), non rinunciano ad un concetto di lotta vivo, più vivo che mai. E L’armata dei sonnambuli è un romanzo che parla soprattutto di Resistenza contro il potere.

“Perché a rifletterci bene, Leo doveva ammettere che la sua era una partita privata. Non era la rivoluzione ad averlo deluso, come era capitato a tanti, ma la vita stessa (…) Chissà se esisteva un destino fissato negli astri. Chissà quale finale l’Essere Supremo aveva in serbo per lui. La coscienza gli diceva che non sarebbe stato nulla di buono, ma la testacea ribatteva che il colpo andava restituito e doveva essere all’altezza di quello subito. A buon gatto, buon ratto. Alla battuta dell’antagonista, il protagonista doveva rispondere riprendendosi la scena”. 

I Wu Ming, come sempre, sono abilissimi nell’estrarre dalla lezione del passato, nuove sfide per il presente. 
Ho immediatamente associato Marie ad un’altra donna combattente, protagonista del romanzo di un altro collettivo di scrittori, “In territorio nemico”: Adele, prima operaia e poi gappista negli anni della Resistenza. 
Due figure di donne che lottano, entrambe presenti in due romanzi contemporanei (recentissimi, tra l’altro) che reinterpretano il passato in chiave attuale. Un segnale importante che vede emergere una serpeggiante tensione rivoluzionaria in Italia. 
Il soggetto de “L’armata dei sonnambuli” è la rivoluzione francese ma potrebbe essere anche la Russia, l’Italia degli anni 70’, la lotta no tav. Qualsiasi scenario di sopraffazione che renda necessaria una risposta altrettanto forte, altrettanto decisa.  
Significativo il fatto che il popolo intervenga in prima persona, il soggetto collettivo s’inserisce nella narrazione come un coro greco, alternandosi alle gesta dei protagonisti. 

Ma non c’è solo il popolo vessato, anche la borghesia gode di rappresentanza. Una borghesia illuminata, dal volto ideale, che collabora con la collettività per una causa nobile e giusta. Il medico D’Amblanc, con il corpo (ma soprattutto la mente) tormentati da ferite di guerra, è un magnetista che si mette al servizio della Rivoluzione. Il suo compito è quello di stanare una potenziale fazione di magnetisti controrivoluzionari. I Wu Ming usano, per mettere in scena l’altra faccia della rivoluzione (quella reazionaria e monarchica) il mesmerismo, che ha agito dietro le quinte della rivoluzione. Una scelta coraggiosa che avvicina il romanzo al filone fantasy. 

Il magnetismo animale è infatti soggetto ad una duplice interpretazione: o come un vero e proprio incantesimo o in chiave razionale come una sorta di ipnotismo (e appunto i sonnambuli del titolo sono sprofondati in un sonno indotto). Il conflitto messo in scena è quello tra un mesmerismo democratico e razionale, che segue i principi dell’illuminismo e dell’etica (quello di D’Amblanc) e dall’altro lato un mesmerismo totalitario, usato per raggiungere scopi personali e che non tenga minimamente in considerazione la volontà dei sonnambulizzati, trattati alla stregua delle bestie (quello del misterioso villain del romanzo, dall’identità fittizia). 
Il magnetismo diventa quindi un’ottima metafora politica, una riflessione sempre attuale sugli abusi del potere e sulla libertà. Non è forse un caso che le vittime del magnetismo scellerato siano rappresentati nel romanzo per lo più da bambini, per sempre danneggiati e irrimediabilmente corrotti da una volontà fascista e brutale.  

L’indagine di D’Amblanc non avviene nella tempestosa Parigi - come invece le parallele azioni di Leo e Marie - ma nella provincia francese, attraverso paesaggi ostili e terrificanti. Queste sono forse le ambientazioni più cariche di fascinazione, che risentono di un’evidente influenza horror (che l'armata del titolo non sia forse "l'armata delle tenebre?) che insieme al filone magico (e abbiamo visto prima l’universo fumettistico dei supereroi) rendono il romanzo un’opera contaminata e stratificata, ricca di riferimenti alti e bassi, dalla cultura pop alla letteratura, alla documentazione storica. Tutto può entrare nella narrazione. E lo fa in maniera credibile. Il genere diventa uno spazio aperto, senza limiti. 
La lettura diventa così un processo attivo, un atto di partecipazione. Leggendo un romanzo dei Wu Ming siamo continuamente investiti da una sensazione di deja vu perché gli scrittori ci colpiscono con simboli (da loro rielaborati) del nostro immaginario, che ci invitano a riconoscere. Non è solo un gioco letterario, un carosello di citazioni. è un modo di concepire l’opera letteraria come “aperta”, dinamica, viva. 
Il tema della libertà e della democrazia dall’intreccio si estende e ingloba lo stesso concetto di romanzo. 
Si prenda ad esempio l’atto quinto. Il “come va a finire” potrebbe trarci in inganno. All’apparenza potrebbe sembrare un epilogo. Oppure un elenco di fonti. Si attiva un processo di straniamento nel lettore. Come è possibile che un “atto” dello spettacolo sia dedicato ad un barboso elenco di documenti? Eppure non è affatto così. L’atto quinto rappresenta un “oggetto narrativo non identificato”. Un’ibridazione (l’ennesima) della narrazione, al di fuori di essa ma allo stesso tempo parte di essa. I personaggi sono sottoposti ad esame. Quali tra le informazioni che ci danno gli scrittori sono vere e quali false? L’atto quinto preannuncia un atto sesto. Un atto che dovrà essere scritto dal lettore. L’armata dei sonnambuli non finisce, le sorti dei personaggi sono lasciate nelle mani di chi le vorrà reinterpretare. La Storia e le storie non muoiono mai, fin quando ci sarà qualcuno pronto a farle rivivere. 



Il "vasto palcoscenico rivoluzionario della Francia" che hanno allestito i Wu Ming è formidabile. Francamente irresistibile il vortice di personaggi e situazioni che ti trascinano per pagine e pagine, senza requia. Si passa dal tragico al farsesco, dal turpiloquio popolare alle inclinazioni filosofiche degli scenziati magnetisti, dai comunicati ufficiali della Convenzione alle epistole familiari. Sanculotti, brissottini, girondini, controrivoluzionari, patriote repubblicane divise in brigate, amazzoni e pesciare che se le danno di santa ragione.
“L’armata dei sonnambuli” riesce ad essere popolare, leggero e accattivante e nello stesso tempo crepato, bombardato da interrogativi sulla storia e sulla vita. Esattamente come i suoi eroi. Sgangherati, disfatti, amareggiati. Eppure combattivi. A buon gatto, buon ratto o sbrisga.    


“La rivoluzione, diceva, è come quei mazzi di carte da gioco dove re, dame e cavalieri son divisi a metà, una diritta e l’altra rovesciata, testa insù e testa dabbasso, giri e rigiri la carta ma cambia un cazzo, il re che sta diritto è sempre insieme a quello capovolto, che è come se gli tirasse il ghignone, come se da sotto gli dicesse: “Io sono te che vai a finire male”! Goditela finché puoi, perché il mondo si arbalta”