martedì 14 gennaio 2014

L'omonimo di Jhumpa Lahiri: prima delusione dell'anno

Quest’anno ho deciso di non fossilizzarmi sulla letteratura americana, tendenza di cui penso vi siate accorti tutti. Così ho deciso di ampliare i miei orizzonti, leggendo un romanzo di una scrittrice di origini bengalesi, nata a Londra ma cresciuta negli Stati Uniti: Jumpha Lahiri. Vincitrice del premio Pulitzer nel 2000 per la sua raccolta di racconti “L’interprete dei malanni”, è una delle autrici americane più apprezzate. Come dite? Ah, dovevo allontanarmi dallo scenario statunitense? Un passo alla volta, ragazzi. Un passo alla volta. 



Recentemente soprattutto in Italia si è parlato molto di Jhumpa. La scrittrice infatti si è trasferita a Roma nel 2012 (parla molto bene italiano, tra l’altro) ed è da poco uscito, edito da Guanda, il nuovo romanzo “La moglie”, che pare essere il suo miglior lavoro

Tuttavia, spinta dai riscontri più che positivi e sicurissima di dover recuperare tutta la produzione della scrittrice, ho deciso di iniziare dal suo primo romanzo: The namesake, che ho letto in lingua originale. In Italia “L’omonimo” è edito da Marcos y Marcos (se bazzicate i mercatini dell’usato e siete molto fortunati dovreste riuscire a trovare anche un’edizione Guanda, ormai fuori commercio). 




Credo che qualcuno più furbo di me, avrebbe iniziato dall’opera con cui ha vinto il Pulitzer. E avrebbe fatto bene. Se una scrittrice è acclamata per le sue short stories, perché leggere il suo primo romanzo? Già perché? L’omonimo per me è stata una lettura davvero deludente. 

Il romanzo è incentrato sulla lotta di una coppia bengalese che emigra negli Stati uniti e forma una famiglia in un ambiente per loro sconosciuto e in cui si sentono spesso fuori posto. Ashima e Ashoke, uniti da un matrimonio combinato, danno alla luce un figlio che per una serie di circostanze ed inconvenienti, viene chiamato Gogol, come lo scrittore ucraino. Per il padre infatti il nome di Gogol assume una valenza emotiva speciale, di cui però Gogol resta all’oscuro. Crescendo egli comincerà a sentire il peso di questo nome così bizzarro che non percepisce come proprio e che rappresenta anche il simbolo di un passato (quello di suo padre e quello dello scrittore) che egli non comprende e non accetta. Il conflitto attorno al nome diventa una ricerca della propria identità, del proprio scopo, della propria appartenenza. Come il romanzo della Selasi, L’omonimo - scritto nel 2003 - è un romanzo potenzialmente cosmopolita e ricco di tutti quei temi sull’incontro-scontro tra le varie culture nella società globalizzata e soprattutto negli Stati Uniti, melting pot di tradizioni. 
L’idea del romanzo (e badate bene, l’idea) ruota non solo attorno al conflitto tra il nome e l’identità, ma è anche il conflitto tra due culture, quella americana in cui Gogol si sente perfettamente a suo agio e quella indiana a cui sente di non appartenere ma che non può rinnegare, soprattutto per il senso del dovere che ha per i suoi genitori. 



La trama e il substrato del romanzo sono assolutamente promettenti e ambiziosi. Il problema però è che tutti questi temi sono sbiaditi. L’impressione viva che si ha durante la lettura è quella dell’attesa. Attesa di una svolta. Si ha la perenne sensazione di star leggendo un’introduzione mastodontica ad un bellissimo romanzo che non arriverà mai. Da cosa è causato questo turbamento? Indubbiamente dalla struttura del romanzo. La narrazione è tutta (e quando intendo tutta, intendo per intero) sviluppata attraverso il discorso indiretto. Un’intera vita (quella di Gogol), dalla nascita all’età adulta, raccontata attraverso quelli che - ahimè - mi tocca definire riassunti. 
I dialoghi sono un miraggio lontano, le interazioni tra i personaggi sono rare e poco esaltanti. In compenso abbiamo un ingorgo di informazioni. La Lahiri mi ha dato la sensazione di essere una scrittrice molto “materiale”. Sono descritti con grande dovizia di particolari gli oggetti che arredano gli ambienti, i vestiti che indossano i personaggi, i colori e gli odori. Per quanto riguarda la natura umana, invece, niente di pervenuto. A parte un sottilissimo involucro superficiale. 
Posso comprendere una scelta stilistica di questo tipo. La Lahiri vuole sottolineare la difficoltà del protagonista (Gogol) a trovare una sua identità, la sua distanza dai genitori, i suoi sforzi per cercare di connettersi ad una realtà che gli sembra aliena. Ma tutto questo non è mai sublimato da immagini forti, potenti. A livello stilistico non comprendo la necessità di mettere ogni singolo dettaglio della sua vita sotto forma di riassunto. Per esempio: ci sono diverse relazioni che il protagonista intreccia con delle donne ed esse appaiono talmente superficiali - per come sono narrate, non per la natura del rapporto - che ci si chiede dove si stia andando a parare. Mi sembra che i temi siano stati indeboliti da questo continuo spostare l'attenzione su dettagli e descrizioni molto fredde e prosaiche. L’interiorità del protagonista non è sublimata dalla narrazione che invece è per una buona parte piatta e cronachista. Si è persa così gran parte dell’emotività del romanzo che infatti risulta asettico e pedante.
Il romanzo per me è debole e poco incisivo. è scritto bene ma non benissimo, la storia è interessante ma non eccezionale. Non è brillante, gli manca slancio creativo. Nonostante ci siano degli sparuti scorci di sapienza narrativa - come la ricorrente immagine-simbolo del treno e i riferimenti a “Il cappotto” di Gogol - essi sono insufficienti a risvegliare l’emotività del lettore.


La parte più gradevole risulta quella iniziale, la storia di Ashima infatti è quella che possiede più cuore e vitalità. Non è un caso che la Lahiri abbia ripreso questo nucleo tematico - che è quello che effettivamente le risulta più congeniale - nel suo ultimo romanzo che, nonostante tutto, voglio leggere: “La moglie”.  
 


9 commenti:

  1. Ho letto critiche simili anche per il suo ultimo romanzo, forse davvero se la cava meglio con i racconti. Io ho in corso "Interpreter of Maladies" e devo dire che mi piace.
    (Ho visto che l'edizione Guanda - che al momento apparentemente detiene i diritti per la Lahiri - è più recente di quella di Marcos Y Marcos, sulla reperibilità non so :|)

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  2. A me The Namsake era piaciuto molto, come anche Interpreter of Maladies. La Moglie non l'ho ancora letto.

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    1. Sì, indubbiamente è una bella storia, scritta bene. Credo molto dipenda infatti dal discorso emotivo. A me non ha catturato :) Non so se leggere prima la raccolta di racconti o il nuovo romanzo.

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  3. Leggendo la tua recensione mi è venuta in mente una cosa che c'entra, alla lontana: esiste il film tratto da questo libro. Era abbastanza piacevole, mi pare di ricordare, ma non ne sono sicura. Però dopo averlo visto comprai i racconti di Gogol, che non avevo mai letto :)

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    1. Il film e' fantastico, come il libro. Interpreti eccezionali. In effetti io ho visto prima il film ed ho subito cercato il libro. L'ho amato. Perdi molto se non lo leggi...

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  4. Peccato, la trama sembra interessante.

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  5. Totalmente in disaccordo. Anch'io l'ho letto in inglese, perche' leggo sempre in originale. Fantastico. Emozionante, scritto benissimo, evoca molto bene i conflitti di chi vive all'estero, e, pur amando le proprie tradizioni e identificandosi con una certa cultura, puo' e sa abbracciare la patria adottiva e i suoi modi di vita. Se non altro, attraverso la generazione che metta al mondo in quel Paese straniero. Io vivo all'estero e conosco molte persone di origine indiana. Trovo che la storia catturi molto bene quell'attaccamento alla terra, quella sorta di ingenuita' e mitezza dei modi indiani. Il film della Nair e' altrettanto bello e consigliatissimo. Io non so chi sia questa persona che scrive e quale autorita' abbia.

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  6. Sono d'accordo con SabinaG. L'ho trovato un bellissimo romanzo, quasi perfetto. Mi e' dispiaciuto molto arrivare alla fine. Anche io vivo all'estero e secondo me l'intero libro, seppur facendo dei riassunti delle vicende principali dei protagonisti, riesce a raccontare i punti essenziali e a descrivere la condizione di smarrimento che si prova quando si vive in bilico fra la patria originaria e quella adottiva. La sensazione di constante attesa che il romanzo inizi, come scrive Ilenia, e' esattamente la sensazione descritta da Ashima all'inizio del libro che si prova quando si e' stranieri. “Essere stranieri è come una gravidanza che dura tutta la vita – un’attesa perenne, un fardello costante, una sensazione persistente di anomalia. E’ una responsabilità ininterrotta, una parentesi aperta in quella che era stata la vita normale, solo per scoprire che la vita precedente si è dissolta, sostituita da qualcosa di più complicato e impegnativo”. Anche riguardo alle parole di Ilenia sugli oggetti ("Sono descritti con grande dovizia di particolari gli oggetti che arredano gli ambienti, i vestiti che indossano i personaggi, i colori e gli odori."), avendo vissuto di persona la condizione di straniera, ho colto l'importanza degli oggetti, degli ambienti, unici elementi che danno concretezza a una sensazione di costante smarrimento.

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