giovedì 30 maggio 2013

Commento ai capitoli finali de "Il Grande Gatsby"

Per il Gruppo di Lettura di Gatsby, organizzato dal  blog Sangue d'Inchiostro . Qui, il commento ai capitoli precedenti.


Proprio nei giorni in cui mi apprestavo a terminare la rilettura dei tre capitoli finali de Il Grande Gatsby, un amico mi ha suggerito un docufilm splendido. Anche il titolo non è niente male: Nostalgia for the light. Astronomi e archeologi sono i protagonisti. Entrambi manipolatori del passato. I primi guardano su, in alto. Studiano eventi nello Spazio, talmente lontano dal nostro pianeta da arrivare molto tempo dopo che sono avvenuti. I secondi guardano giù, scavano, cercano tracce di un passato lontanissimo che disotterrano e provano a ricostruire. A questo punto starete pensando: “ma questa è pazza, che sta dicendo?”. Comprendo la vostra irritazione, ci sto arrivando. Quello che mi ha colpito è che la prospettiva che unisce queste due professioni è unica: il presente non esiste. Esiste solo nella nostra mente. Per percepire la presenza della persona che vi sta di fronte, l'occhio impiega un tempo, certo infinitesimale, ma è già lontano da voi, è già “successa”. Ecco, perché il passato e il futuro sono le uniche dimensioni percepibili. Io credo che se Fitzgerald fosse vivo, ci avrebbe scritto un romanzo a riguardo. Intendo, se non avesse scritto già Gatsby.
Jay Gatsby è un dislessico temporale, confonde il passato con il futuro, pensa che si possa replicare, proietta tutte le sue energie in qualcosa che non avverrà mai. Perché questa è la sua natura. La sua devozione verso l'irreale, la sfarzosa pignatta traboccante di speranza e di fantasticherie che è la sua mente e il romantico rifiuto del fallimento, lo rendono l'immortale figura tragica che mi spezzerà per sempre il cuore, non importa quante volte io rilegga la sua storia. Gatsby,  un “figlio di Dio”, un giocoliere d'illusioni. Ha resistito finché ha potuto.
Il quinto e il sesto capitolo (i miei preferiti) si muovono nell'atmosfera del sogno, della reverie. Il sesto, in particolare, è come se fosse narratoci dal canto immortale della voce di Daisy. La chiusa raggiunge vette liriche impossibili da eguagliare con Gatsby che sale “come una scala” in un posto segreto dove avrebbe potuto “succhiare la linfa della vita, trangugiare il latte incomparabile della meraviglia”e infine il bacio, al suono di un “diapason battuto su una stella”.  Non stupisce quindi che i tre capitoli finali siano il ruzzolare scomposto, lo sgretolio patetico di questa colossale illusione. Il settimo è il capitolo dello svelamento, della rivelazione brutale. Il più lungo del romanzo. È l'ultimo giorno d'estate; per i poeti, da sempre, la fine delle illusioni. La prima immagine è quella della casa di Trimalcione chiusa. Le luci della casa spente. Non si riaccenderanno mai più. Il riferimento a Petronio ci introduce perfettamente nel capitolo in cui la satira sociale fa da padrona.
Il primo elemento disarmonico che incrina le convinzioni di Gatsby è l'arrivo sulla scena della figlia di Tom e Daisy. Un elemento imprevisto in quanto non esistente nel passato, sempre più difficile da riprodurre ormai. 
La rivelazione più grande, cardine per l'inquadramento del personaggio sfuggente di Daisy, è quella che riguarda la sua voce. Per tutto il romanzo si fa accenno a quest'irresistibile melodia che vince ogni resistenza. Tutti ne sono vittima. Lo stesso Nick, all'inizio, non può far altro che sporgersi verso di lei, attratto come Ulisse. È Gatsby a capire cosa nasconde quel canto da sirena. “È piena di soldi”. Ecco cos'era quel fascino inesauribile, il suo tintinnio, la sua musica di cembali... In alto, in un palazzo bianco, la figlia del re, la ragazza d'oro...
In inglese, la parola “golden” non si riferisce solo al soldo ma anche ad uno stato d'animo, ad una purezza, uno stato originario. “Stay golden” significa in qualche modo, per quanto sia intraducibile, “Resta puro”. Golden è la condizione ideale. Daisy è nata così, ricoperta d'oro.
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