lunedì 28 ottobre 2013

I granchi dell'editoria #6 - Le case editrici e i grandi classici

Uno dei lavori che apprezzo di più delle case editrici è quello di ridare nuova linfa ai classici. No, non parlo semplicemente di cambiargli la copertina o rivenderli a prezzi minori. Sto parlando dell'immane lavoro che c'è dietro alla rivitalizzazione dell'opera di uno scrittore che ha vissuto in altre epoche, ormai lontane dalla nostra.
http://www.youbookers.it/images/stories/rubriche/I_granchi_delleditoria/granchi.jpgTradurre nuovamente un classico è un'impresa difficile. Riadattare un testo come Moby Dick per renderlo fruibile ai lettori del nostro tempo non è qualcosa a cui assistiamo tutti i giorni. La più recente credo sia QUESTA della UTET. Io possiedo quella di Cesarina Minoli del 1986 ma ammetto di voler recuperare la traduzione di Pavese del 1932. L'impresa di leggere il gigante della letteratura potrebbe così risultare ancora più ostica ma se non altro affascinante. È lo stesso Pavese, traduttore del capolavoro di Mellville, a dire: "Tradurre Moby Dick è mettersi al corrente con i tempi". Ma quale traduzione di un grande classico non lo è? Non a caso la nuova collana di rilancio dei classici lanciata dall'Einaudi, si chiama proprio "Le grandi traduzioni".
Dopo aver già citato la rivisitazione dell'opera di Fitzgerald per mano della minimum fax (anche la Mattioli si è recentemente occupata di lui, pubblicando Trimalchio, prima versione inedita de Il grande Gatsby), passiamo ad una nuova riscoperta: Dostoevskij.
Emanuela Guercetti infatti ha creato la nuova traduzione di uno dei miei libri preferiti: Delitto e Castigo. Dalla stesura del romanzo ormai ci separano quasi centocinquant'anni (è stato scritto nel 1865). Non ho potuto resistere e l'ho acquistata in ebook ad un prezzo più che conveniente. Quest'operazione è stata senza dubbio uno stimolo per una rilettura che meditavo di fare da tempo. Lessi Delitto e Castigo a sedici anni e ne rimasi incantata. È stato forse il mio primo amore letterario, ciò che mi ha spinto ad andare in libreria il giorno dopo e ad acquistare quasi la metà dei libri dello scrittore russo. Del romanzo possiedo una comodissima edizione Garzanti divisa in due volumi (ricordate cosa dicevo QUI riguardo il giovamento tratto dal mio povero naso grazie alle edizioni separate di libri elefantiaci?), tradotta da Giorgio Kraiski nel 1969.
Ora naturalmente non voglio dire che una traduzione vecchia sia necessariamente peggiore di una nuova. Ovviamente varia da caso a caso. Ma ritengo necessaria una rivisitazione dei classici, magari fatta dallo stesso autore (Pavese stesso corresse la sua nel 1941). La letteratura va nutrita. Un classico deve necessariamente essere riadattato al linguaggio corrente (senza per questo impoverirlo!) se non vogliamo correre il rischio di perderlo.

venerdì 11 ottobre 2013

I granchi dell'editoria: I like big books and I cannot lie

Fin da quando ero piccina, ho avuto un'ossessione per i libri massicci. Quei rassicuranti tomoni che ti promettono innumerevoli pagine da sfogliare, infinite avventure, lunghissime ore di apnea letteraria. Senza contare la soddisfazione di aver scalato una montagna a lettura conclusa, la possibilità di entrare dentro un mondo da cui uscirai soltanto dopo mille e mille pagine. I libri sottiletta spesso (e sì, sto generalizzando) sono troppo brevi per diventare dei veri rifugi. Che è quello che ci serve in questo momento. Ah, no, adesso sto parlando solo di me.
Ammettiamolo. Se pensate ad un libro, la prima cosa che vi viene in mente è un volumone polveroso e spesso almeno sei centimetri (sì, ho misurato Anna Karenina con il righello). images
Ahimè, il mondo superati i dodici anni non è più lo stesso. Lo spazio non è infinito e la libreria scricchiolante dietro di te ne è la prova conclamata. Il tempo per leggere si accorcia (anche se il tempo si deve trovare, mica ti viene a bussare alla porta). Ritagliarsi uno spazietto per leggere non è impossibile ma è meglio avere la possibilità di portare i libri con sé.
Ecco, l'unico difetto dei big books è proprio questo: la loro portabilità. Nell'era in cui tutto è sempre più piccolo, più trasportabile, più maneggevole, i libri mammut sono delle ingombranti e lentissime testuggini. Ok, basta con le metafore animali.
La società liquida, sempre più frenetica e indaffarata, sembra essere poco compatibile con le immersioni in romanzi alla infinite jest. Tutto è frammentario, la lettura non può che adeguarsi. La compressione del tempo e la velocità di fruizione sono diventate delle abitudini a cui purtroppo sacrifichiamo il piacere di una sana alienazione da una realtà fin troppo virtuale. Lo so, è un paradosso.
Ho notato anche in me stessa questo impulso a dare precedenza a libri più piccini e "veloci" da leggere per ultimarne effettivamente la lettura. Tendo ad abbandonare i miei adorati big books e a posticiparne la lettura specialmente in periodi molto impegnativi che mi permettono di leggere poco. Di questo ne parlò anche Nick Hornby, un uomo più interessante di me, ne La lettura, inserto del Corriere della Sera. Non vi linko l'intervista nella speranza che prima di googlarlo finirete di leggere il mio pezzo. Diamine, stiamo parlando proprio del bruttissimo vizio nelle società ipertecnologiche della dispersione!
 CONTINUA QUI 

domenica 29 settembre 2013

Jay Gatsby mi ha rovinato

Forse il personaggio di Jay Gatsby dovrebbe avere una categoria a parte in questo blog, me ne rendo conto. Questo piccolo spazietto web si sta trasformando in un fan-site. Cercherò di contenermi nei prossimi due secoli, lo prometto. Nel frattempo:


martedì 27 agosto 2013

Al riparo dal potere: Il Signore degli Orfani di Adam Johnson

http://media.booksblog.it/c/c84/Il_Signore_degli_Orfani-280x442.jpg
Edito da Marsilio Editore, vincitore del Premio Pulitzer 2013

Chi è il Signore degli Orfani? Nessuno di importante. Il figlio del signore degli orfani invece è il protagonista del romanzo. Lui sì, è importante. A questo soldato, in balia degli eventi, incapace di disertare nonostante la vasta rosa di orrori di cui si gloria il governo della Nord Corea, è negata qualsiasi identità. L'unico appiglio sicuro è quello di essere cresciuto in un orfanotrofio, gestito dal padre avvinazzato e schiacciato dalla disperazione fino a diventare crudele. Ma lui non è un orfano. Sua madre, una bellissima cantante, è stata portata nella Capitale per allietare le serate dei potenti. Questo nucleo di capricciosi uomini che giocano col destino di milioni di persone. Anonimo, sadico, imbattibile.
Il più cupo dei romanzi distopici è dipinto da Johnson. Dimenticatevi la nuova moda Young Adult con pennellate di distopia. Questo è un romanzo che vi farà domandare come e perché tutto questo è possibile nel mondo reale.
Certo, tante delle storie descritte dall'autore sono poco realistiche - non per il carico di atrocità che portano con sé ma perché in successione tendono a capitare al nostro protagonista una quantità tale di eventi da creare un effetto di saturazione - ma tutto è perdonato perché il vincitore del Pulitzer dispiega un ventaglio che non vuole narrare un'avventura ma una narrazione simbolica, ricca di metafore e rimandi interni. Ambiguità è la parola chiave per decifrare il romanzo. I personaggi camminano su un filo sospeso in aria. Una pericolosa zona grigia, come l'area demilitarizzata che divide il Nord e il Sud della Corea, tra verità e menzogna. Tra versione ufficiale, accettata dal governo, e la tua versione, la tua storia che è sempre in secondo piano, sempre nascosta. Quello che davvero ti ruba un regime, non è la felicità, è la verità. La tua identità, la tua storia. La capacità di realizzare il tuo destino. Nessuno dei protagonisti riesce ad essere se stesso. Tutti indossano una maschera, tutti raccontano delle bugie. Chi per salvare se stesso, chi gli altri.
Il risultato è un gigantesco groviglio di metaletteratura. In cui non solo i fatti ma anche i pensieri, i desideri vengono miscelati al passato, alle menzogne di copertura, all'immaginazione, alle speranze dei protagonisti. Niente è mai chiaro. Anche il narratore è sdoppiato, o per meglio dire, frammentato in più punti di vista. Oltre che a creare un escamotage narrativo potente, questa tecnica è fortemente significativa per capire fino in fondo cosa vuol dire vivere sotto un governo dispotico e totalitario. La tua intera esistenza è messa in discussione, persino il tuo pensiero. 
Anche l'amore, una passione che dovrebbe essere diretta verso un unico oggetto del desiderio, qui si dirama in molte direzioni, o meglio, è diretto verso una donna ma è nutrito da molteplici affluenti. All'immagine della donna amata quindi si sovrappongono tutte le immagini delle donne amate dal protagonista, a cominciare dalla madre perduta fino ad un surrogato di madre che gli salverà la vita.
Il Signore degli Orfani è un romanzo bellissimo, non privo di difetti, ma audace e immaginifico. Le sue storie vi cattureranno, le odierete a volte, perché dicono la verità, anche se resa migliore dalle parole. Questo è il trucco della letteratura.   
Un protagonista cresciuto al buio, in un paese che si spegne di notte, che lotterà nell'oscurità. Non come un eroe. Non contro il potere, ma al riparo da esso.

"Tu sei la fiamma. Il vecchio continua a toccare la tua fiamma calda soltanto con le mani ma soltanto le sue mani toccano la tua fiamma, e allora guarda adesso come si sta bruciando"


"Il nome Mongnan significa magnolia, il fiore bianco più bello di tutti. E questo ciò che i nostri soggetti dicono di vedere quando sono all'apice del dolore: una cima montuosa in inverno, dove in mezzo al ghiaccio un fiore bianco solitario sboccia per loro"

Mollate Hunger games et similia, purtroppo il mondo ha già fatto di peggio.

giovedì 8 agosto 2013

La malattia contemporanea: Rosso Americano, Rick Moody



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Il titolo originale è Purple American. Nonostante sia stato usurpato dal rosso, nell'edizione italiana quel porpora, quel viola, quel rosso malaticcio, vittoriano, così carico, ha modo di scaturire a più riprese e di inondare lo sguardo del lettore. Il titolo contiene già in sé tutte le perfezioni del romanzo. Un "purple" che già al suono sembra suggerire la malattia, la morte, il degrado. Perché il viola è quasi un rosso deformato. Ti ipnotizza e dentro c'è tutto. Eros e thanatos. Queste due pulsioni ancestrali che lottano in un orizzonte di desolazione postindustriale.

Trama
Rosso Americano è un racconto condensato di 48 ore della vita di Dexter Raitliffe, uomo di mezza età, costretto a ritornare nella cittadina in cui è cresciuto per prendersi cura della madre, Billie, rimasta sola. "Ma' Raitliffe"è malata. Costretta in un letto, paralizzata, ha bisogno di costanti cure e attenzioni. Mentre Dexter deve fare i conti con il precipitare della malattia materna, scoppia un incidente in una centrale nucleare. In che modo la fuga radioattiva è intrecciata alle vicende della famiglia Raitliffe?   


La geometria del romanzo è disegnata su un triangolo: malattia-nuclearizzazione-senso di colpa. Due filoni narrativi: quello della malata degente, Billie, accudita dal figliol prodigo, Hex, e quella di Lou, marito e patrigno in fuga, coinvolto in un incidente nucleare. La narrazione binaria è unificata dal senso di colpa, sentimento che pervade ogni sillaba di questo tortuoso romanzo.
Come delle schegge impazzite continuiamo a rimbalzare in questo tossico perimetro chiuso, da un angolo all'altro del triangolo: l'ambiente contaminato dalle radiazioni che genera la malattia che genera il senso di colpa.
La scrittura di Moody è caleidoscopica. Adotta un realismo acido, corrosivo che, naturalmente finisce per mescolare dettagli grotteschi e parossistici ad elementi classici simbolici (ritorna continuamente l'immagine del bagno, simbolo di purezza ma anche di morte). L'uso della lingua è magnifico, pieno di sfumature. Ogni situazione è descritta attraverso una prospettiva inedita che mira a negare ogni descrizione fedele alla consuetudine, bandita la normalità. Mi ha ricordato molto Palahniuk. Solo che Moody è migliore. Migliore perché ha un respiro più ampio, meno frammentato, meno scandalistico. Più labirintico. Più vicino ai personaggi. Ecco, sì, i personaggi.
Hex e Billie. Il figlio e la Madre. Questa è la storia più antica del mondo. Di come gli esseri umani siano lontani anni luce, di come la più semplice delle comunicazioni risulta impossibile. Moody estrinseca il tema attraverso mortificanti processi fisici: da un lato la madre, a causa della sua malattia, sta perdendo la voce, unico baluardo di civiltà, di resistenza contro la passività che si sta impadronendo di lei. Si rifiuta di farsi aiutare dalla voce artificiale e preimpostata di un computer. Non vuole rassegnarsi al processo umiliante di reificazione a cui va inevitabilmente incontro. "Il mio corpo, il mio povero corpo" diventa una nenia ossessiva, un sottotitolo a tutte le sue non-azioni. Dall'altro lato, anche il figlio è condannato all'incomunicabilità, vittima di una più "normale" balbuzie. Queste due isole, queste due solitudini sono il cuore del romanzo. La madre che chiede un gesto di pietà, con tutti gli sforzi che le costa articolare una semplice richiesta. Si affaccia così il fantasma dell'eutanasia. Hex non comprende, non accoglie, non accetta.
Come potrebbe? Ingombrato da un complesso edipico enorme, alcolizzato e incapace di instaurare rapporti umani solidi.  
"Come fa la gente ad invecchiare? A mettere la testa a posto?". 
"Le uniche parole che vengono facili da dire ad Hex Raitcliffe sono, in sostanza, parole di scusa".
 Moody sembra scegliere per il suo romanzo delle situazioni limite, delle esistenze estreme, ai margini. La verità però è ribaltata. In realtà, tutti siamo malati. Hex e Billie sono soltanto due esempi. La malattia ci circonda perché viviamo in un ambiente contaminato. Ecco che l'apparente narrazione secondaria (quella della fuga radioattiva) trova la sua perfetta collocazione, il suo esatto significato. L'America è sciupata, consumata. Una critica caustica all'indifferenza, ai paradisi artificiali di cui noi Occidentali siamo i più famelici divoratori. Moody con il suo sarcasmo impietoso ci elenca, come un dottore ghignante, i sintomi della nostra malattia. "Il nostro diritto inalienabile alle sit-com", i cibi di plastica, lo stordimento quotidiano legalizzato di alcool e barbiturici, il nostro dimenticare continuo e incessante.
Incredibile come da un romanzo così chimico, così artificiale scaturisca così potente la compassione, la partecipazione al dolore, la comprensione totale della sofferenza. Tutti abbiamo il nostro Inferno. E Moody ce lo mostra. Un formidabile fuoriclasse, di razza bastarda che ci fa commuovere e incazzare. Uno degli scrittori della vita. 

Se potessi scegliere un'immagine da allegare al post, metterei una scena del romanzo. Difficile da commentare. Un penoso bacio su un molo che si affaccia su un cantiere dove costruiscono sottomarini militari. "Un'avventura sentimentale contemporanea, monumento a tutto ciò che c'è di grande tra gli americani, l'Electric Boat, divisione della General Dynamics Corporation (...) dove i residui lavoratori timbrano il cartellino per edificare armi di distruzione". Uno sfondo post-industriale degradato su cui questi due manichini cercano un appiglio in un mare di impotenza.

P.S. Le prime due pagine del romanzo sono una poesia. Un lunghissimo periodo in cui c'è davvero tutto. 

sabato 27 luglio 2013

I granchi dell'editoria #4- Perchè non supporto Amazon

Continua la collaborazione con il sito Youbookers. Questa volta è il turno di Amazon. Perché non mi convince come rivenditore e soprattutto come editore. Numerosi commenti sul fatto che ho scritto delle "puttanate". Peccato che tutte le notizie riportate siano verificate su siti esterni. Lo so, è difficile riflettere sulle nostre abitudini di acquisto. Specie se si tratta di mettere mano al portafoglio...

 http://www.youbookers.it/images/stories/rubriche/I_granchi_delleditoria/amazon-box-robot.jpg


Il colosso editoriale di Jeff Bezos ha battuto ogni record. Il valore di mercato di Amazon al momento è pari a 140 miliardi di dollari. Una cifra astronomica. È difficile trovare un lettore che non abbia usufruito almeno una volta dei vantaggi del gigante dell'e-commerce. Sembra che oggi nessuno possa fare a meno delle politiche stracciaprezzi e dell'efficienza di Amazon. Io sono l'eccezione.
Ci sono tre notizie, apprese nel corso di quest'anno, che mi hanno spinto a non mitizzare né tanto meno sostenere il sito americano.
  1. Lo scandalo scoppiato in Germania per le insostenibili condizioni di lavoro imposte agli operai (potete visualizzare un articolo cliccando QUI)

  2. Amazon apre le porte ai fandom: creata la nuova piattaforma kindle worlds (potete visualizzarla QUI, se invece desiderate saperne di più eccovi un articolo interessante), destinata alla pubblicazione di fanfiction a prezzi (ovviamente) ridicoli.
  3. Amazon compra il social network sui libri più importante del mondo: Goodreads. (cliccate QUI per visualizzare la notizia)

Velocità ed efficienza le parole d'ordine di Amazon, probabilmente il motivo della sua fortuna. Cosa c'è dietro un apparato così metodico? Una gestione del lavoro che ripaga in termini monetari ma che forse perde in umanità.

(CONTINUA QUI

giovedì 25 luglio 2013

Una finestra su Yates e Carver


 Yates e Carver sono quei nomi che ti rimbombano in testa da sempre. Un rimando casuale da parte di uno scrittore, una citazione in un film, un riferimento in un articolo di giornale. Sono ovunque in letteratura. Negli scaffali, tra i critici, annoverati tra gli autori più influenti, più consigliati, più amati, più detestati. Ho questo assillo da molto tempo: non aver ancora letto nulla di questi due maestri. Ora il problema è smettere. 

Perché ve ne parlo nello stesso post? Perché entrambi scrivono racconti? Perché entrambi sono americani? Non ho bisogno di lanciarmi in voli pindarici sull'importanza dell'esperienza americana nell'arte della short story. Quel modo americano di raccontare: con quel realismo lucido, analitico, a tratti brusco. Perché breve non è mica sinonimo di "superficiale, vuoto, inconcludente", come purtroppo continuano a riferirmi i non lettori di racconti. Queste due raccolte sono pienissime, strabordanti, ti travolgono con il loro carico di angoscia e disperazione invisibile.
Ho letto America oggi, e folgorata, ho iniziato subito Undici solitudini. Indovinarne due di fila così, è veramente raro.  Sarà perché ne ho sempre sentito parlare insieme. Yates e poi Carver. E io prima ho letto Carver con i suoi finali che ti spezzano il fiato e poi Yates con i suoi personaggi fuori posto, rotti, cattivi. Questo loro modo di indagare nelle piccole e misere vite quotidiane, fatte di ricatti e silenzi, trucchi e maschere. Non avete idea di cosa c'è dietro la normalità. Di cosa c'è dentro una banale e tranquilla vita in provincia.
"Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non gliene frega più niente di quello che succede agli altri; due, qualsiasi cosa succede, succede agli altri (...) E, intanto, la gente intorno a te continua a chiacchierare e a comportarsi come se fossi la stessa persona che eri ieri, stanotte, cinque minuti fa, e invece tu stai attraversando una crisi profonda e ti senti il cuore a pezzi…"
Con tutta quell'acqua a due passi da casa , America oggi
"Tutti avevano il cuore spezzato, certo. Però, lo stesso". 
Limonata, America oggi 


L'indifferenza degli altri. Il loro maledetto andare avanti. E tu non puoi. La solitudine che si arrampica sulle costole, infetta le esistenze dei protagonisti. Delle monadi, stanze senza finestre, che però non hanno alcun innatismo, non rispondono a nessun ordine. Sono lì, e basta. Siamo qui, e basta. Alla ricerca che qualcuno si accorga. E si fermi. Lo scrittore non può essere soltanto un altro spettatore. Questi due scrittori si sono fermati, hanno raccolto la testimonianza, la narrano, la consacrano.  
Hanno portato la luce in queste esistenze, uno sguardo gettato su quello che gli altri ignorano. La tensione drammatica che percorre le pagine e che eleva il quotidiano, il prosaico a collante universale. Questa è la letteratura che ci insegna a guardare meglio, a cercare le finestre ma anche le crepe vanno bene. Anche dalle fessure entra la luce.  

 “E dove sono le finestre? Da dove entra la luce?
Bernie, vecchio amico, perdonami, ma per questa domanda non ho la risposta. Non sono neppure sicuro che questa particolare casa abbia delle finestre.
Forse la luce deve cercar di penetrare come puo’, attraverso qualche fessura, qualche buco lasciato dall’imperizia del costruttore. Se è così, sta’ sicuro che il primo a esserne umiliato sono proprio io. Dio lo sa, Bernie, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi.”
Costruttori, Undici solitudini


Note a pié di pagina: mi fate un favore? Leggete anche Fitzgerald dopo Yates. E capirete. Sì, capirete che cose straordinarie hanno fatto queste "autorità del fallimento".