Proprio nei giorni in cui mi apprestavo a terminare la
rilettura dei tre capitoli finali de Il Grande Gatsby, un amico mi ha
suggerito un docufilm splendido. Anche il titolo non è niente male: Nostalgia
for the light. Astronomi e archeologi sono i protagonisti. Entrambi
manipolatori del passato. I primi guardano su, in alto. Studiano eventi nello
Spazio, talmente lontano dal nostro pianeta da arrivare molto tempo dopo che
sono avvenuti. I secondi guardano giù, scavano, cercano tracce di un passato
lontanissimo che disotterrano e provano a ricostruire. A questo punto starete
pensando: “ma questa è pazza, che sta dicendo?”. Comprendo la vostra
irritazione, ci sto arrivando. Quello che mi ha colpito è che la prospettiva
che unisce queste due professioni è unica: il presente non esiste. Esiste solo
nella nostra mente. Per percepire la presenza della persona che vi sta di
fronte, l'occhio impiega un tempo, certo infinitesimale, ma è già lontano da
voi, è già “successa”. Ecco, perché il passato e il futuro sono le uniche
dimensioni percepibili. Io credo che se Fitzgerald fosse vivo, ci avrebbe
scritto un romanzo a riguardo. Intendo, se non avesse scritto già Gatsby.
Jay Gatsby è un dislessico temporale, confonde il passato con
il futuro, pensa che si possa replicare, proietta tutte le sue energie in
qualcosa che non avverrà mai. Perché questa è la sua natura. La sua devozione
verso l'irreale, la sfarzosa pignatta traboccante di speranza e di
fantasticherie che è la sua mente e il romantico rifiuto del fallimento, lo
rendono l'immortale figura tragica che mi spezzerà per sempre il cuore, non
importa quante volte io rilegga la sua storia. Gatsby, un “figlio di Dio”, un giocoliere d'illusioni.
Ha resistito finché ha potuto.
Il quinto e il sesto capitolo (i miei preferiti) si muovono
nell'atmosfera del sogno, della reverie. Il sesto, in particolare, è
come se fosse narratoci dal canto immortale della voce di Daisy. La
chiusa raggiunge vette liriche impossibili da eguagliare con Gatsby che sale
“come una scala” in un posto segreto dove avrebbe potuto “succhiare la linfa
della vita, trangugiare il latte incomparabile della meraviglia”e infine il
bacio, al suono di un “diapason battuto su una stella”. Non stupisce quindi che i tre capitoli finali
siano il ruzzolare scomposto, lo sgretolio patetico di questa colossale
illusione. Il settimo è il capitolo dello svelamento, della rivelazione
brutale. Il più lungo del romanzo. È l'ultimo giorno d'estate; per i poeti, da
sempre, la fine delle illusioni. La prima immagine è quella della casa di
Trimalcione chiusa. Le luci della casa spente. Non si riaccenderanno mai più.
Il riferimento a Petronio ci introduce perfettamente nel capitolo in cui la
satira sociale fa da padrona.
Il primo elemento disarmonico che incrina le convinzioni di
Gatsby è l'arrivo sulla scena della figlia di Tom e Daisy. Un elemento
imprevisto in quanto non esistente nel passato, sempre più difficile da
riprodurre ormai.
La rivelazione più grande, cardine per l'inquadramento del
personaggio sfuggente di Daisy, è quella che riguarda la sua voce. Per
tutto il romanzo si fa accenno a quest'irresistibile melodia che vince ogni
resistenza. Tutti ne sono vittima. Lo stesso Nick, all'inizio, non può far
altro che sporgersi verso di lei, attratto come Ulisse. È Gatsby a capire cosa
nasconde quel canto da sirena. “È piena di soldi”. Ecco cos'era quel fascino
inesauribile, il suo tintinnio, la sua musica di cembali... In alto, in un palazzo
bianco, la figlia del re, la ragazza d'oro...
In inglese, la parola “golden” non si riferisce solo al soldo
ma anche ad uno stato d'animo, ad una purezza, uno stato originario. “Stay
golden” significa in qualche modo, per quanto sia intraducibile, “Resta puro”.
Golden è la condizione ideale. Daisy è nata così, ricoperta d'oro. CONTINUA QUI...
wow, bravissima
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