Visualizzazione post con etichetta recensioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta recensioni. Mostra tutti i post

sabato 12 marzo 2016

"Seppellire i morti, riparare i viventi"



Premessa: questo romanzo è finalista al Man Booker International Prize, avevo sentito numerosi pareri di lettura entusiasti (una recensione sul Guardian, in particolare) e mi sembrava che tutti ci avessero versato sopra copiose lacrime d'amore. Non è che sia un cattivo libro. Lo consiglio, anzi. Soprattutto ai più giovani. Ci fanno leggere tante cose brutte, questa non lo è. Ma non è decisamente all'altezza delle mie aspettative. Non dopo aver terminato da pochissimo la lettura di alieni come Capote, poi. 

“Il cuore è la scatola nera di un corpo”
Cosa archivia un cuore umano? Cosa rimane della vita precedente quando un organo migra da un corpo ad un altro? 
Riparare i viventi” vuole raccontare cosa succede al corpo di Simon, ragazzo di diciannove anni con la passione per il surf, quando cade in un coma irreversibile, a seguito di un incidente d’auto. Quello che si vuole suggerire è che niente è irreversibile, tutto migra e si trasforma. Il cuore di Simon potrebbe essere donato per “riparare” un altro essere umano, per dare nuova vita.  
Non è su questo che si concentra la de Kerengal, però. L’autrice francese indaga su chi resta, sui differenti modi di resistere alla morte, sul “genere di abbraccio che si dà per fare roccia contro il ciclone”.

Il tema della donazione degli organi è affrontato a partire da chi deve scendere a patti con una vita al limite: il cuore ancora batte, la coscienza però non c’è più. Il romanzo avrebbe dovuto concentrarsi sull’abbandono della convinzione per cui il corpo non è solo il nostro involucro ma è la nostra identità e vederlo alterato quando moriamo (anche se per un’azione nobile), ci sconvolge. 
Mi sembra che invece questo resti più che altro un bisbiglio mentre ci si sofferma di più su meccanismi ormai corrosi dalle narrazioni mainstream, che vogliono raccontarci con frasi retoriche cosa sia il dolore della perdita, quando, sono in pochi a riuscire ad avvicinarcisi allo stordimento e al disorientamento che provoca la morte. E questi pochi autori, che sanno parlarci della Morte, non vogliono nemmeno farci capire cosa sia, non cercano definizioni e frasi fatte. 

La de Kerangal decide di incorporare nel vocabolario romanzesco il lessico specialistico della medicina, o meglio, quella del reparto rianimazione, alveolo con ritmi e leggi proprie. 
“Lingua che abolisce ogni prolissità, abolisce l’eloquenza e la seduzione delle parole, abusa di nominali, codici e acronimi (…) potenza della sintesi”
Questa scelta linguistica è ravvisabile all’inizio ma pian piano viene sommersa dallo stile dell’autrice che invece è tutto fuorché sintetico e abbonda di termini astratti e vaghi, molto lontani dalla concretezza della medicina. 
Un altro rimando alla chirurgia è il modo settoriale in cui la narrazione viene tagliata in sezioni che ci mostrano i vari ricordi e vissuti dei personaggi, chi collegato direttamente, chi indirettamente, al cuore di Simon. 
L’idea era quella di pensare al romanzo come un corpo, un tutto che respira. Le storie dei diversi personaggi sembrano essere state scelte per via dei vari organi che portano in scena, vengono chiamati in causa le corde vocali, il diaframma, il sesso. Anche questa scelta, per quanto interessante, non risulta particolarmente congeniale al ritmo della narrazione, le storie sembrano digressioni scollate dalla tragedia che sta affrontando la famiglia di Simon. Si dissipa quasi del tutto il senso di organicità che avrebbe dovuto avere il racconto. 

Estrema importanza ha anche la dimensione del tempo. L’elaborazione del lutto è un processo lento, specialmente se avviene nell’ambiente ospedaliero che risponde a ritmi diversi e spesso opposti a quelli della vita del fuori. L’autrice opera una lunga dilatazione temporale, una sorta di piano sequenza che espande la percezione di ogni momento narrativo. Purtroppo questo senso di dilatazione, che ci rende partecipi di ogni dettaglio, non è sempre spontaneo. Si interrompe troppo spesso il corso degli eventi che sembra essere un suppellettile, a supporto della scrittura compiaciuta della scrittrice.
Lo stile è fortemente disequilibrato. Quando la de Kerengal si sofferma sul concreto, è precisa e raffinata. Riesce ad essere lirica parlando di tecnicismi, quando usa il gergo dei surfisti, il lessico dei professionisti, che sia un artista che plasma la materia o un medico che riflette sulla definizione di morte cerebrale. Quando invece punta alla descrizione del dolore, risulta forzatamente poetica e i suoi tentativi si traducono, troppo spesso, in una cascata di frasi paratattiche che vogliono tutte dire la stessa cosa, abbinate al binario sistema di tripla aggettivazione che, ritengo essere - correggetemi se sbaglio - illegale in almeno diciotto stati. 
"Loro stessi, fallati, spezzati, divisi".
Lo so che è da infami citare frasi mozzate, tirate fuori dal contesto. Ma è quel che è. 

Il problema principale, per me, è la sproporzione retorica. Vi sono momenti inutilmente arzigogolati. Tuttavia, quando invece è necessaria una maggiore drammatizzazione, l’autrice si fa spesso piccina e prosaica e ci vengono restituiti istanti deludenti e depotenziati. Tutti i gesti che i genitori compiono a seguito della morte del figlio, sembrano rituali smorti, sbiaditi, privi di reale autenticità. Non c’è nulla della raffinatezza e della sottigliezza di un Carver (in quel capolavoro che è “una cosa piccola ma buona”), i personaggi sono vittime di automatismi dozzinali (pugni al muro, mani nei capelli, testate sul volante), descritti con artifici retorici banali. 

Indugiare continuamente nelle pieghe di ogni istante (sì, sto scimmiottando) è spesso inutile e frustrante per il lettore. Non si traduce infatti in un’epifania,in momento rivelatorio, riflessione illuminante (sì, la scrittrice usa questo sistema di triplette), bensì in una divagazione retorica che non riserva quasi mai sorprese (non è Nabokov). Non è spiacevole, né particolarmente irritante ma non è nemmeno bello. Uno stile che non è al servizio della trama, non serve i personaggi, serve solo il lettore che si compiace di essere trasportato con faciloneria (non smaccata, ma pur sempre faciloneria) nel mare di struggimento e dolore in cui tutti ci crogioliamo (a livello letterario) quando muore un ragazzino di diciannove anni. 


La frase che possiede più forza evocativa sul tema, rispetto a tutto il resto del romanzo, è: "seppellire i morti, riparare i viventi". E non l'ha scritta l'autrice ma è una citazione

martedì 30 giugno 2015

Uragano Roth: La macchia umana

Avvertenze: 
1) questa sarà una lunga, lunghissima - probabilmente sconclusionata - tirata, i miei due cent, su un signore che assomiglia spaventosamente ad Italo Calvino (e a Neri Marcorè). 
2) A me piacciono moltissimo gli avverbi e li uso spesso in maniera inappropriata. 
3) Non ho ricevuto una solida formazione critica e questo è solo il frutto di letture disordinate e un’inesauribile curiosità. 

Ho da pochi minuti terminato la lettura de “La macchia umana” di Philip Roth. 
Ci sono quei libri che si insinuano all’interno del tuo consolidato nido di credenze, idee, saperi, pregiudizi, convinzioni - che hai fortificato con fatica e scrupolosa dedizione in vent’anni di scuola, vita familiare, cadute e ripartenze sentimentali - e sai già che non c’è più nulla da fare. Arrivano per scombussolare tutto, tocca ricostruire il castello di carta della tua identità da capo. 
Sono libri alteri, sdegnosi. Non smetterai mai di consigliarli, di parlarne, di instaurare confronti e soprattutto li rileggerai. Probabilmente subito dopo averli terminati, li ricomincerai.  Questo è il destino fortunato di libri come “La macchia umana”. 
Il mio primo Roth. Considerato uno dei più grandi scrittori viventi, vittima felice del totoNobel praticamente ogni anno, scatenato, chiacchieratissimo Roth. Ho sempre nutrito un timore reverenziale (vi rassicuro: non c’è ragione) verso queste figure della letteratura. Acquistano un’aria familiare, il loro nome - dappertutto letto, dappertutto udito - diventa quasi una sagoma. Roth, in particolare, con le sue consonanti finali, due arroganti fricative dentali, me lo immagino sempre con una giacca di lana cotta, modello coloniale, con le sopracciglia aggrottate, propenso verso di me come un grosso rapace ma dallo sguardo ironico. 
Si dia il caso che l’autore Roth sembri (e badate, sembrare è un verbo spietato) rassomigliare straordinariamente ai personaggi che raffigura. Vi avverto, prima di scrivere non ho cercato informazioni biografiche, né recensioni né alcun tipo di materiale a supporto di questa tesi. Semplicemente sembra così. Da lettrice, vedo che Coleman Silk è simile al suo artefice e l’autore si limita, come dire, a quest’opera di svelamento e occultamento continuo dello specchio. è così vicino, così vicino all’essenza del personaggio che dev’essere lui. Sappiamo che lo scrittore deve essere un abilissimo fingitore ma siccome io non credo ad un’abilità portentosa nel dissimulare che sia completamente disinteressata, devo pensare che il demone a cui risponde il signor Roth sia di natura personale. Non esiste che si vada così a fondo ad un personaggio senza che ci sia qualcosa di tuo. E tutta quella storia sulla necessità del testimone - perché il resoconto della faccenda qui ci viene fornito dallo scrittore Nathan Zuckerman - è una grossa panzana e qui si sta parlando di un meraviglioso alter ego. Anzi di due: Nathan Zuckerman, narratore degli eventi, e il coetaneo Coleman Silk, nella parte del povero viveur. La testimone unica è la scrittura. L’autore per proteggersi deve inventarsi delle maschere ma sappiamo tutti che razza di narcisi egocentrici siano, con noi non attacca.
D’altra parte, non credo che lavorando di fantasia il signor Roth sarebbe stato in grado di arrivare a tali vette di autenticità. Il protagonista dunque è una personalità formidabile e così il suo creatore. Ora possiamo addentrarci nel fitto della foresta nera. 
L’evidenza è che il romanzo - ma forse tutta l’opera dell’autore - si giochi su un crudele tiro alla fune. L’agone si tiene tra l’audace individualismo, l’autoaffermazione del sé al di là di qualsiasi vincolo sociale (persino familiare!) e dall’altro lato i dispositivi della società - il meccanismo del decoro, brutta bestia per Roth - che tentano di ricondurre lo scandaloso fluire della vita in fredde categorie, rigide convenzioni, etichette restrittive.
Nello specifico, Coleman Silk è un professore universitario sulla settantina la cui carriera impeccabile si macchia irrimediabilmente quando viene accusato di razzismo. Coleman usa la parola spooks per riferirsi a due studenti di colore. Il termine ha due accezioni: la prima è spettri, intenzionalmente utilizzata dal professore, facendo riferimento all’assenteismo dei due studenti (che lui non ha mai visto!); la seconda invece è un insulto spregiativo, negro. La prima sfumatura di significato appartiene al vocabolario, alla lingua codificata, il significato originario. La seconda appartiene allo slang, la lingua corrente che modifica e manipola i significati, si adatta alla mutevole contingenza della vita, alle congiunture della storia e vive di contraddizioni. La lingua è biforcuta, ambivalente, cela sempre un paradosso, un’opposizione. 
Una sola parola, pronunciata da un uomo di lettere (lettere antiche, lettere classiche), si rivela rovinosa. Diventa infatti il pretesto per infamare una figura rispettabile, eppure odiosa. Coleman infatti è apparentemente inserito nella convenzionalità - un distinto accademico, benestante, una famiglia numerosa, un aspetto piacente, un fisico ancora agile - eppure è scomodo, all’interno della comunità. Perché eccessivamente brillante, una sorta di despota, dalla mente tumultuosa. Ha trascinato fuori dalle secche intellettuali il campus, tagliando via i rami secchi (licenziando le cariatidi nullafacenti). Ironicamente potremmo dire, per usare un termine logorato dalla cronaca politica, che la sua opera di rottamazione ha fatto esplodere un sistema farraginoso per inaugurare un nuovo corso, più meritocratico, più dinamico. Un professore tanto illuminato quanto detestabile, per la sua arroganza, i suoi azzardi, la sua titanica personalità. 
L’accusa di razzismo non cadrà immediatamente - come vorrebbe il buon senso - nessuno infatti si schiererà apertamente dalla parte di Coleman che così dovrà sottostare a dei processi farsa, interrogatori, indagini interni al campus che sono più una beffa che una condanna. L’intento dei colleghi non è quello di rovinarlo bensì di mantenerlo sulla graticola, di vederlo rosolare, che mostri un po’ di umiltà. Ma Coleman Silk non riesce ad accettare l’onta subita, e proprio quando tutti stanno per dimenticarsi del piccolo scandalo, il professore decide di dimettersi, ritirandosi in uno sdegnoso e rabbioso esilio. Due anni dopo, riesce a liberarsi del rancore che l’ha quasi soffocato, abbandonandosi ad una relazione con Faunia, una silvestre creatura di trentaquattro anni, che risveglia una forza invisibile ed incontrollabile, quasi più dell’odio che per anni lo ha imprigionato: il desiderio. Il perbenismo della piccola comunità lo attacca nuovamente con ferocia accresciuta. Ogni atto commesso da Coleman sembra suscitare una condanna, ormai è macchiato, è l’appestato con la campanella.  


In un primo momento, dunque, la tenzone interna alla narrazione è tra la libertà dell’individuo (specialmente l’individuo eccezionale) di affermarsi con tutto il peso della sua persona (è interessante il fatto che in latino persona voglia dire maschera, ma ci torneremo dopo) al di là della morale comune, al di là delle etichette di giusto e sbagliato (spesso non coincidenti con bene e male) e la brutalità, la forza schiacciante della società che tenta di ricondurre la volontà particolare alla cieca volontà generale della storia con i suoi meccanismi culturali disciplinanti e disciplinati. 
Coleman è scandaloso, Coleman va punito. Questo professore che non si rassegna, che vuole smaccatamente vivere al di fuori della decenza.   





Da un lato, abbiamo la raffigurazione di questi grandi narcisi con la loro fitta retorica del sé e i loro slanci virtuosistici della Parola e dell’ingegno. Dall’altro abbiamo un continuo infierire su di loro con le armi affilate della calunnia e del pettegolezzo e il conseguente disonore per il nostro protagonista. Le personalità formidabili si ricollegano ad un elemento fondante della società americana: l’individualismo. Un individualismo però sempre teso come un dardo verso una realizzazione del sé, frustrata dal perbenismo e dall’ipocrisia della comunità.  
Non cedete all’autoinganno, non fatevi stregare dal fingitore. Non è un duello ad armi pari. Non c’è una vittoria morale dello spirito del protagonista, superuomo che si rivale sulla grettezza e la mediocritas della società americana. 
La grande lezione di Roth è che tutta la grande importanza data alla personalità, all’individuo, è infine sempre sbilanciata (a suo sfavore) dal memento riguardo la sua insignificanza. “Non eravamo più romanzeschi di quanto gli animali fossero mitologici o impagliati”. 






Il discorso di Roth non si limita a criticare quel costrutto per cui “tutti sanno”.  L’inconscio collettivo, quella lava vischiosa di pregiudizi e ideo precostituite che abbiamo sull’umanità. Perché un vecchio di settantuno anni non si vergogna di andare a letto con una illetterata bidella di trentaquattro? La donna sarà certamente vittima di  una manipolazione, di uno sfruttamento. Perché un professore non porge delle scuse ufficiali a due studenti di colore che ha denigrato verbalmente? è un razzista, è un arrogante tiranno. Ripeto, Roth non si limita a ribaltare quel “tutti sanno” in “nessuno sa” e a dileggiare la presunzione di avere qualcosa in più di una conoscenza parziale, fallace di ogni individuo. In altre parole, il protagonista non è un agnello sacrificale. Coleman Silk non è il fulmine che spezzerà la quercia della tradizione - per usare una metafora dell’epica lucanea - e per questo condannato come moderno Cesare, pagando il dazio della sua eccezionalità. 
Se fosse così il romanzo si sarebbe rivelato soltanto interessante, il classico, confortante relativismo zoppo sulla società meschina e il suo Ercole frustrato dalle invidie. Questo tipo di romanzi che siamo abituati a leggere troppo spesso non arriva ad abbracciare una visione più ampia. Se vogliamo scomodare un eroe, mettiamo in gioco Icaro, più che Ercole. 
Infatti, il romanzo trova la sua forza nella natura paradossale del protagonista. L’ambiguità si gioca a più livelli. Abbiamo visto che il protagonista è già sdoppiato in uno scrittore (Nathan Zuckerman, protagonista ricorrente nei romanzi di Roth ed ennesimo suo alter ego). Quel che non sappiamo è che il protagonista custodisce un segreto molto ingombrante, una sorta di identità negata. Un ennesimo sé, sebbene sia un sé rinnegato. In altre parole, più scaviamo, più vediamo la macchia di Coleman. La vera macchia, non quella fasulla, appiccicatagli addosso dalla società ma quella inconfessabile, il segreto ignominioso che Coleman non può rivelare.
Il paradosso non sta nel fatto che una parola così piccola e anche un po’ ridicola - spooks - possa generare una valanga di conseguenze spiacevoli ma nel fatto che l’unica verità che può riscattarlo pienamente dall’accusa, è impossibile da pronunciare perché cela una vergogna molto più grande. 
Riflettevamo prima sulla persona. In latino, il termine è strettamente connesso al volto, tant’è vero che etimologicamente possiamo risalire al significato di “individui mascherati”. Ebbene, il volto che Coleman mostra  è sempre una costruzione, sempre una maschera. Che libertà c’è nel nascondersi? 
Il paradosso è ovunque in questo romanzo. Non si ferma all’ambiguità del linguaggio - la lingua biforcuta di cui parlavamo prima - ma si insinua ad ogni strato. è paradossale il modo in cui tutti credano - in maniera quasi inconscia - alle calunnie sul conto di Coleman, persino i suoi figli. Lo sforzo fatto per educarli, per trasmettergli tutta quella cultura, comprensione e tolleranza, risulta vano. Sono disposti a credere alle più fuorvianti sciocchezze sulla vita del padre “come se fosse una soap opera vittoriana”. La fragilità del buon senso contro forze più grandi di noi, forze dell’inconscio, il nostro “sentire comune”. La febbre del pettegolezzo che contagia anche gli animi più saldi, quella presunzione di conoscere il prossimo, le sue gioie ma ancor di più le sue nefandezze. "Tanta istruzione non serve a nulla, nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero". Quel “tutti sanno” che in realtà è sempre “nessuno sa”.  
Il paradosso sta nel fatto che tutti condannano Coleman per le ragioni sbagliate, e la frustrazione è maggiore. Forse la pena risulta doppiamente atroce per Coleman proprio perché è schernito da ragioni misere e grette, anziché essere smascherato per la sua vera empietà. Perché nessuno conosce la vera macchia di Coleman. A questa paradossale miopia della società corrisponde invece la lucida e precisa prospettiva multifocale di Roth che ci offre una varietà di personaggi e di punti di vista, la molteplicità e l’ambiguità dei loro desideri. Roth profana il mito della purezza e del decoro. Ci mostra le nostre eresie, i nostri sotterranei illeciti, la nostra inevitabile corruzione. 






Avvertenze, parte seconda 
Da qui in poi consiglio la lettura solo alle persone che hanno letto il romanzo, sebbene io ritenga davvero una sciocchezza leggere Roth preoccupandosi di eventuali “spoiler”. Sarebbe come precludersi di leggere Anna Karenina perché sai già che fine farà la fiamma della candela(1) 

Non si può giudicare il romanzo prescindendo dalla Grande Bugia di Coleman perché essa è lo specchio che riflette tutta l’azione del protagonista. è una strana legge del contrappasso. Coleman si arruola nei Marines fingendosi ebreo, un ebreo bianco. Un nero che non può aspettare che la società sia pronta per accettarlo, che vuole “forzare la serratura del meccanismo” della storia, che vuole piegare quel grande dispositivo disciplinante che è la società, inserendosi a forza in una categoria “giusta”, rispettabile, decorosa. 



L’iconoclastia di Coleman Silk arriva a rinnegare la sua famiglia, la sua stessa madre per sviluppare il suo io, in piena libertà. Comprendiamo Coleman. Ma il suo gesto è eroico? Forse è tutto qui il romanzo di Roth: "l’indivisibilità dell’eroismo dalla vergogna". La sua potrebbe sembrare una giustizia riparatrice (ai suoi occhi, certamente lo è). Potrebbe sembrare legittimo sfuggire ad una categoria per sviluppare la sua piena personalità. Ma innanzi tutto ci si può chiedere, quale persona si sia formato Coleman, balzando metaforicamente fuori dalla sua pelle originaria. Ha sviluppato il suo vero sé al di là dei pregiudizi della società o ne ha soltanto creato un altro, per quanto inattaccabile  nella sua versione rispettabile? Il Coleman nero e il Coleman bianco, chi dei due è quello più valido o meno valido? Dopo anni trascorsi nella convenzione, il professore bianco ebreo - per lungo tempo auto assoltosi - viene improvvisamente ricatturato dal meccanismo della storia, di cui siamo prigionieri. Viene colto in fallo da una parola - o meglio, dal suo significato contingente, storico, gergale -  e per ironia della sorte viene accusato di razzismo. Proprio lui, che è nero, che ha fatto di tutto (persino l’inimmaginabile Rifiuto della Madre) per sfuggire a quel pregiudizio che ora gli rinfacciano! Tanto più minuscolo è l’errore, tanto più rovinoso il suo fallimento. 
Siamo "bestie carnali" immerse in un gioco beffardo, da cui è impossibile esimersi. L’estenuante sforzo di Coleman, la sua smania di liberarsi da quel “noi” di appartenenza alla cultura afroamericana, alla sua negritudine, è annullato da una parola (che è naturalmente solo la miccia). In altre parole, la brutalità del tempo presente - della storia che ancora non è storia - è di mille volte superiore alla nostra, seppur eccezionale, individualità e ai suoi tentativi di elevazione. E qui ritorniamo all’inizio, al primo punto, al gioco alla fune tra l’individuo (il suo narcisismo, la sua ambizione di forgiarsi uno storico destino) e il costante monito alla sua insignificanza. "La libertà è pericolosissima, e non esiste nulla che rispetti per molto tempo le tue condizioni".  Quel “Noi” da cui Coleman vorrebbe sfuggire, non permette fuga alcuna. 

Un ultimo spunto di riflessione appare d’obbligo. Con tutti questi interrogativi sulla verità, sulla storia e le sue convenzioni, sulla fallacia del sapere, del linguaggio e della parola - c’è una bellissima citazione da poter sfoderare ad una cena che è questa: “la verità sul proprio conto non è conosciuta da nessuno e spesso meno di tutti da se stessi” -  che via d’uscita c’è, se c’è?  

Prima abbiamo parlato di prospettiva multifocale, a proposito di come Roth voglia renderci partecipi dei retroscena, di più personaggi, non solo il traditore della razza, il figlio senza cuore, il grande narciso Coleman. Per ciò quello di Roth aspira ad essere un romanzo totale (vd. punto tre delle avvertenze iniziali), non tanto impegnato nella vertigine della lista che sembra la smania del nostro tempo (sono piuttosto ambivalente su questo punto perché amo Donna Tart ma detesto Murakami e Jumpha Lahiri - ci sarebbe da aprire un’altra parentesi ma sono clemente). Bensì nel restituirci un’immagine il più possibile meticolosa e nitida della multiforme natura della vita. Tutto questo spiegare incessantemente fin nel più piccolo dettaglio ogni svolta del labirinto della mente dei personaggi, come possiamo definirlo se non totale?
Su tutto per altro domina una vena d’umorismo, da giocoliere relativista che salta continuamente tra ciò che è rivelabile e ciò che non lo è. La letteratura quindi è testimone fedele e inaffidabile, allo stesso tempo. Non è certamente consolatoria ma anzi pone un argine al nichilismo perché si spiega, è il mezzo di rappresentazione del sé meno indulgente, più spietato. L'arte che si avvicina di più a scoprire se dietro le mere azioni, dietro i fattori sociali che ci definiscono, c’è ancora spazio per pensare all’individuo come qualcosa di separato da tutto questo. E per pensare alla “vita come un concetto il cui fine è nascosto”, sfuggente. 
Infine, “su tutte le nobili giustificazioni, cala il martello di Faunia”.
Se c’è qualcosa che può salvare Coleman, che può ridargli dignità e senso, è il desiderio, l’unica forza incontrollabile e tumultuosa che si può opporre al logorio del rancore. Roth d’altronde decide di chiamare questa caricaturale salvatrice, Faunia, come il fauno/satiro della mitologia antica, simbolo del vitalismo, della frenesia e dell’ebbrezza dei sensi. Tanti sono i richiami al mondo classico (Coleman è un professore di letteratura latina e greca) ne La macchia umana, che può essere in un certo senso definito una tragedia postmoderna (2), libertina, indecorosa, nell’accezione più bella del termine. “Ha qualcosa in comune con l’Iliade, libro preferito di Coleman sullo spirito barbaro dell’uomo”.

Insomma, ho detto molto ma non è ancora abbastanza esaustivo come commento per un romanzo di tale portata, davvero magnifico. Dopo questo primo round, mi aspetta Goodbye Columbus e poi molti altri ancora. Non ho nessuna intenzione di uscire dall’uragano Roth. 

NOTE:
(1) Un mužicjòk, dicendo intanto qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela con la quale ella leggeva il libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male, s’infiammò d’una luce più vivida che non mai, le illuminò tutto quello che prima era nelle tenebre, scoppiettò, cominciò a oscurarsi e si spense per sempre.
(2) "Il grande dramma dell’uomo che è saltar su e andarsene. Per diventare un nuovo essere umano. Per biforcarsi".